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La malattia può costituire causa di licenziamento o per impossibilità sopravvenuta della prestazione oppure qualora il lavoratore, a causa di malattia, risulti assente per un determinato periodo di tempo, essendo consentito al datore di lavoro licenziare il lavoratore in malattia superati i limiti di conservazione del posto di lavoro (periodo di comporto) stabiliti dalla legge o dai contratti collettivi di categoria.

Trascorso il periodo di comporto, il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro rispettando le procedure previste per il licenziamento, poiché la scadenza del periodo di comporto non determina automaticamente il licenziamento del lavoratore, ma occorre un atto di recesso da parte del datore di lavoro, tempestivo (infatti, la mancanza di tempestività rispetto ai fatti posti a fondamento della decisione di recedere dal contratto di lavoro, rappresenta un elemento dal quale può desumersi l’arbitrarietà del licenziamento perchè determinato da motivazioni che non sono più attuali), con indicazione delle ragioni e almeno  del numero globale dei giorni di assenza del lavoratore integranti il comporto.

Quanto ai giorni di assenza per l’infortunio sul lavoro, secondo la giurisprudenza, “Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinchè l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (sentenza Cassazione n. 2527/2020).

Ciò vuol dire che le assenze per infortunio sul lavoro o per malattia professionale si ritengono computabili nel periodo di comporto, mentre sono da detrarre ove il datore di lavoro risulti responsabile della situazione nociva e dannosa dell’ambiente di lavoro, che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di  tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore di cui all’art. 2087 c.c. 

Tuttavia, la contrattazione collettiva può legittimamente escludere dal computo delle assenze ai fini del periodo di comporto quelle dovute a infortuni sul lavoro o malattia professionale, in virtù del principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata. (sentenza Cassazione n.14756/2013; sent. Cassazione  n.2527/2020).

La giurisprudenza ha affermato, in più occasioni, che costituisce una discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, ai fini del licenziamento “perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.” Nel caso specifico si trattava di computo in relazione al periodo di comporto previsto dall’art. 42, lettera b), del c.c.n.l. Federambiente del 17 giugno 2011. (sentenza Cassazione n.9095/2023)

Erminia Acri-Avvocato

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