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Pubblicato su Lo SciacquaLingua

Probabilmente molti amici “blogghisti”, appassionati dell’italico idioma, non hanno mai sentito parlare di un avverbio chiamato “opinativo”, anche se, inconsciamente, lo adoperano nel parlare “di tutti i giorni”. Sono così chiamati, dunque, quegli avverbi che hanno la funzione di esprimere un’opinione (da cui il nome, appunto) per mezzo di un’affermazione (“sì”), di un dubbio (“forse”), di una negazione (“non”, “no”). Molto importante è l’ “esercizio” svolto nel contesto del discorso da questo tipo di avverbi – “sì”, “forse”, “no” – che uniti a “già” e a “mai” acquisiscono molto spesso un valore olofrastico, vale a dire sostituiscono un’intera frase. Il termine olofrastico viene dal greco “hòlos” (tutto, intero) e “phrazo” (dichiaro) e significa, per l’appunto, “dichiaro per intero”, quindi “spiego”. Quando, per esempio, domandiamo ai nostri figli se hanno studiato e questi rispondono “sì”, la risposta, cioè il “sì”, equivale all’intera frase “abbiamo studiato”. Il “sì”, dunque, è olofrastico in quanto sostituisce l’intera frase. Ciò spiega come il loro uso assoluto – cioè da soli – abbia determinato la nascita di altri avverbi o locuzioni avverbiali che possono sostituirli, attenuarli, rafforzarli dando loro infinite sfumature. Vediamole. Per l’affermazione abbiamo: sì davvero; sì certamente; sì di certo; proprio sì; ma sì; appunto; per l’appunto; certamente; esatto; giusto; naturalmente; precisamente; proprio; proprio così; senza dubbio; sicuro e via dicendo. Per quanto riguarda la negazione, si hanno: no davvero; no di certo; assolutamente no; a nessun costo; proprio no; neanche; nemmeno; neppure; per nulla, nient’affatto, ecc. Per il dubbio, infine: forse forse; se mai; per avventura; probabilmente, forse che sì forse che no e via di seguito.

A questo punto è necessario soffermarsi un attimo (non un attimino, per carità!) sull’avverbio opinativo “no” perché non sempre viene adoperato correttamente anche da coloro che “fanno la lingua”. Costoro, infatti, adoperano “non” quando la legge grammaticale stabilisce, invece, l’uso di “no”. “Non” e “no”, dunque, sono due avverbi di negazione con usi ben distinti: “no” è olofrastico, vale a dire – come abbiamo visto – che riassume in sé un’intera frase e si trova sempre in posizione accentata; “non”, invece, si adopera sempre come proclitico, cioè unito alla parola che segue. I soliti esempi renderanno tutto più chiaro. “Vieni al cinema o no?” ; “vieni o non vieni al cinema?” Nel primo caso il “no” è olofrastico perché sottintende (racchiude in sé) la frase “o non vieni?” ed è in posizione accentata; nel secondo caso, invece, il “non” è in posizione proclitica, vale a dire che per “reggersi” si deve appoggiare alla parola che segue. Riassumendo: mentre “no” si adopera assolutamente (da solo), “non” si appoggia sempre alla parola cui dà valore negativo e perde il proprio accento. Sbagliano coloro che dicono, per esempio, “vieni con me, o non?”; “amici e non”; “andrai o non a trovarlo?” In tutti questi casi (e simili) la grammatica stabilisce l’uso della forma tonica “no”: “vieni con me, o no?”; “amici e no”; “andrai o no a trovarlo?”. Questa regola è disattesa (per “snobismo linguistico”?) da tutti coloro che si piccano di “fare la lingua”; voi, amici, se amate la… lingua statene alla larga.

A cura di Fausto Raso

One Reply to “Un avverbio “sconosciuto””

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