Che nella vita non si può essere sempre “felici” è una realtà… o meglio, per essere precisi… non si può essere sempre in equilibrio. Capita così che quando raggiungiamo l’equilibrio ci sentiamo sollevati, abbiamo un umore felice e relativamente stabile, quando lo riperdiamo sperimentiamo un senso di sofferenza e cerchiamo di recuperare la condizione di benessere… ma questo in tutto l’arco della nostra cangiante e mutevole vita e quotidianità.
Da un articolo riportato su la Repubblica.it di un bel po’ di tempo fa, si segnalava che il picco massimo di depressione arriva intorno ai 40 anni. Lo riporto.
Depressi a 40 anni? Colpa di una ’U’
La felicità sale, scende e poi ritorna
Uno studio inglese rileva che in Europa un quarantenne su 10 ha assunto almeno un antidepressivo nel corso del 2010. Tutto dipende da benessere psichico che ha un picco positivo in giovane età, poi cala intorno a quota 40, per poi reimpennarsi in età avanzata (di IRMA D’ARIA)
ROMA – La depressione arriva insieme alle prime rughe. A 40 anni, in genere, si è all’apice della carriera e si è indaffarati a crescere i figli. È il momento della vita in cui dovremmo essere più appagati. E, invece, un recente studio europeo, pubblicato dall’IZA Institute di Bonn, dimostra che proprio a 40 anni si è più depressi. I ricercatori delle Università di Warwick e di Stirling hanno scoperto che un quarantenne su 10 in Europa ha assunto almeno un antidepressivo nel corso del 2010. In vetta alla classifica ci sono Inghilterra, Portogallo, Francia e Lituania, mentre l’Italia si posiziona molto in basso con appena l’1% della popolazione di 40enni alle prese con i farmaci antidepressivi per più di quattro volte a settimana. Ad essere più colpite sono le donne disoccupate, divorziate o separate.
Nella nostra società così opulenta e piena di certezze – dice Andrew Oswald, coautore dello studio – ci sono troppe persone che si affidano alla possibilità di una felicità chimica”. Ma perché proprio a 40 anni? L’ipotesi dei ricercatori è che la felicità segua una linea a “U”. In pratica, il benessere psichico ha un picco positivo in giovane età, poi cala fino a un minimo intorno a quota 40, per poi reimpennarsi in età avanzata. La depressione, invece, ha il suo picco massimo proprio intorno ai 40-44 anni quando siamo impantanati in una vita di stress e tensioni sia al lavoro che nella vita privata.
“Da giovani – spiega Oswald -siamo felicemente ottimisti ma abbiamo aspirazioni impossibili, tipo vincere il torneo di Wimbledon o avere tanti soldi da poter vivere a Wimbledon. Poi quando siamo a metà strada nella vita, ci rendiamo conto di quanto sia difficile realizzare i nostri sogni e sperimentiamo il fallimento”. E questa è una fase dolorosa che può spiegare il motivo per cui tanta gente si affida a un farmaco.
“Il maggior consumo di antidepressivi da parte dei quarantenni – dice il professor Alberto Siracusano, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Roma Tor Vergata – segnala la necessità di un trattamento della depressione in una fascia d’età delicata perché è quella in cui si cominciano a fare dei bilanci su vari aspetti della vita. Ma questo non significa che prima o dopo i 40 anni la depressione non ci sia. Solo che si cerca di combatterla senza farmaci oppure la si nega”. Poi superata questa fase di consapevolezza, si arriva ai 50 anni e la saggezza dell’età ci aiuta ad accettare le imperfezioni della nostra vita.Così gradualmente, intorno ai 60 anni, torna il sorriso.
Ne viene fuori un grafico che mostra un andamento curvilineo ad U che corrisponde poi alla curva dei consumi dei farmaci antidepressivi emersa dallo studio dei ricercatori. In Italia a soffrire di depressione è una percentuale che oscilla tra il 10 e il 15% della popolazione. E i farmaci più utilizzati? “Quelli più prescritti” risponde l’esperto “sono gli SSRI, inibitori della serotonina, e gli SNRI, gli inibitori della serotonina e noradrenalina”.
E a proposito del “male oscuro”, un altro studio, pubblicato dal Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, dimostra che i figli di mamme che hanno sofferto di depressione post parto sono quattro volte più a rischio di depressione durante l’adolescenza. “Il rischio aumentato” hanno scritto gli autori dello studio “mette in luce la necessità di screening post natali per intervenire precocemente. Dalla ricerca è emerso anche che un rapporto conflittuale con il partner e ulteriori episodi di depressione anche lontano dalla nascita possono scatenare la depressione nei bambini”. Un fenomeno che si collega bene alla ricerca sui quarantenni visto che in tutta Europa sono sempre più numerose le mamme over 40. “A qualsiasi età” spiega il professor Siracusano “una sana relazione madre-figlio è fondamentale. Se la mamma è depressa significa che è assente e ciò avrà senz’altro un effetto negativo sullo sviluppo del bambino”.” (23 giugno 2011)
Come si evince dall’articolo, arriva un certo momento della nostra vita in cui “facciamo i conti” mettendo sulla bilancia ciò che abbiamo e ciò che desideravamo (o ciò di cui avevamo bisogno?). Non che noi in realtà non ci pensiamo strada facendo ma, c’è un momento preciso in cui “cade il quadro. Stanno su per anni e poi senza che accada nulla… cadono! Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, però loro, ad un certo punto, cadono lo stesso…nel più assoluto silenzio, con tutto immobile intorno… non una mosca che vola…e loro: fram! Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa! Cos’è che succede ad un chiodo per fargli decidere che proprio NON NE PUO’ PIU’! Ha un’anima anche lui poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, il chiodo? Erano incerti sul da farsi? Ne parlavano tutte le sere, da anni? Poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante preciso? O lo sapevano già dall’inizio i due…era già tutto combinato? “Guarda, io mollo tutto tra sette anni”, “Per me va bene” “Allora intesi per il 13 maggio a mezzogiorno” “Facciamo mezzogiorno e tre quarti!” “D’accordo! Allora, buonanotte”. Sette anni dopo, il 13 maggio a mezzogiorno e tre quarti… fram! È impossibile da capire. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi sennò esci matto! Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino e scopri che non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi “io devo andarmene da qui”… Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio…”(Monologo tratto dal film “la leggenda del pianista sull’Oceano”) Quando senti che non ce la fai più…
Come per il chiodo e il quadro noi ci chiediamo: perché accade proprio a 40 anni? Proprio in quel momento? Quando pensavamo di vivere tutto sommato una vita “Piena”…fram! Cadiamo giù. Ci stacchiamo dal muro proprio quando è il momento di raccogliere ciò che abbiamo seminato… quando siamo ricchi… di impegni che noi abbiamo cercato e voluto. Ma… di cosa siamo pieni? E di cosa era piena la nostra vita? Di cose o di senso per noi?
Cerchiamo di rispondere a perché facciamo “fram” proprio in quel momento: beh, forse perché non abbiamo costruito bene. Perché abbiamo creato dimenticando il senso e dimenticando di gioire dei nostri traguardi. Perché abbiamo lasciato per strada i nostri sogni (bisogni) di adolescenti, giovani speranzosi e con voglia di essere, credendoli o sperimentandoli inconciliabili nella realtà, inappagabili, e mentre lo facevamo, dimenticavamo di “metabolizzare le frustrazioni” che ciò comportava mangiando il nostro tempo e i nostri pensieri in attività e in progetti ingegneristici più utili a distrarci da ciò che non potevamo avere e, cosa ancora più profonda ESSERE, che a permetterci un’AUTOREALIZZAZIONE e un’AUTOAFFERMAZIONE. Più siamo pieni di impegni figli di ciò che abbiamo creato “senza ricercare il senso” e più ci sentiamo soffocati da questi impegni. Quello che scaturisce da questo percorso non è realizzazione ma frustrazione-Situazione di disagio psichico in seguito al mancato soddisfacimento di un bisogno: ciò che determina tale stato di sofferenza o fastidio si produce quando un ostacolo si frappone al raggiungimento di uno scopo– e stress- Accelerazione metabolica psicofisica, con reazione emozionale intensa, che superi lo stato di “tensione” che ci invade quando invece di gestire e adattarci, “subiamo” le condizioni esterne adeguandoci con rassegnazione.
Perché? Bene, rispondiamo alla domanda: come abbiamo costruito? Su cosa abbiamo investito e per ottenere cosa? Abbiamo cercato di appagare bisogni o desideri? Qualcuno ci ha mai insegnato a metabolizzare le frustrazioni, a tendere verso l’autorealizzazione? A rispettare i nostri tempi?
Quanta logica abbiamo imparato ad usare? Quante volte nella nostra vita ci siamo soffermati a chiederci “che senso ha quello che sto facendo?” E quante volte abbiamo davvero risposto a questa domanda?
Abbiamo semplicemente messo a punto un percorso di obiettivi e progetti più adatti alla realtà sociale e ai nostri desideri che ai nostri bisogni e alle nostre aspirazioni, ricavandone apparentemente un appagamento a breve termine ma sostenendo ritmi e compromessi con noi o con gli altri che inevitabilmente producono stress il quale, a sua volta, non ci permette di godere di ciò che abbiamo prodotto.
In pratica, non abbiamo goduto del percorso che abbiamo fatto, mettendo da parte i cosiddetti “Bisogni necessari allo sviluppo di un’identità corretta e matura”: autostima, autoaffermazione, integrazione sociale nel rispetto della tutela della propria identità, autorevolezza, sicurezza ed autoconservazione, appagamento sessuale all’interno di un valido rapporto d’amore, programmazione ed autorganizzazione, riservatezza…
Quando ci insegnano che viene prima il dovere e poi il piacere, ci prendono in giro rubandoci una cosa importante: il nostro tempo! Molti esseri umani lavorano come se avessero due vite: la prima per accumulare e la seconda per usufruire dei crediti acquisiti. Di conseguenza, si conduce una vita piena di rinunce per realizzare un sorta di paracadute da utilizzare nei momenti di declino della propria esistenza.
Non sarebbe meglio utilizzare il tempo, da giovani, in maniera matura ed equilibrata (non rinunciando ad esperienze piacevoli) per prepararsi ad una terza età da percorrere passeggiando, senza precipitare negli strapiombi che sono il risultato di depauperamenti organici conseguenti a troppe rinunce giovanili? A queste condizioni non si avrebbe bisogno, nei momenti “critici”, di alcun paracadute!
Il counselor, con le sue competenze può aiutarci a rimetterci in linea con noi stessi ri-orientandoci (si perché noi nasciamo in linea con noi stessi e gli apprendimenti scorretti ci posizionano su linee disfunzionali) e ri-insegnandoci a COSTRUIRE E RAGGIUNGERE il nostro benessere psicofisico.
Come?
· Proteggendosi dalle frustrazioni quotidiane (imparando ad assorbirle ed a metabolizzarle).
· Imparando ad applicare i concetti di adattamento ed integrazione nei confronti delle difficoltà del quotidiano, per vivere in assenza di conflitti permanenti.
· Operando una gestione corretta del proprio tempo vitale.
· Riuscendo a donare e ricevere amore, nella giusta misura.
· Adoperandosi per far valere i propri diritti e riducendo, comunque i rischi di collisioni interpersonali.
· Costruendo un lavoro che piace.
· Approntando l’antiacido giusto per riuscire a digerire i fastidi lavorativi, quelli relativi al “gravame” familiare e tutto ciò che deriva dalla difficoltà di impegnare correttamente il proprio tempo libero.
· Ridimensionando l’attaccamento ai beni materiali.
· Utilizzando le esperienze di vita vissuta ed acquisendo la capacità di vedere negli errori, un’opportunità per “crescere”.
· Determinando, interiormente, la propria, personale, gioia di vivere e contagiando gli altri esseri umani.
Per toccare anche l’ultimo punto dell’articolo sopra riportato aggiungiamo che se non saremo felici, o meglio, se non avremo raggiunto questo benessere psicofisico, le nostre tensioni e le nostre frustrazioni, nonché il nostro modo di concepire e vivere la vita verrà inevitabilmente trasmesso come modus operandi ai nostri figli, così come trasmetteremo loro il nostro senso di realizzazione e passione in ciò che abbiamo e in ciò che costruiamo.
Concluderei questi brevi spunti di riflessione con una citazione per ricordarci quanto sia bello e utile apprezzare e gustare ciò che abbiamo e il cammino fatto per arrivarci… o cambiare cammino se quello proposto non ci rispecchia… un’altra riflessione sul tempo, sui bisogni e sul gusto “dell’acqua”…e del traguardo…
Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non più… il bisogno di bere. “Perché vendi questa roba?” disse il piccolo principe. “È una grossa economia di tempo”, disse il mercante, “Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano 53 minuti a settimana”. “E cosa se ne fa di questi 53 minuti?” “Se ne fa quel che si vuole…” “Io”, disse il piccolo principe, “se avessi 53 minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana…” “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry
Emanuela Governi (18 luglio 2011)
Assistente Sociale Specialista, Counselor, Mediatore Familiare, responsabile “supporto al caregiver” Progetto SOS ALZHEIMER ON LINE