Il progetto dal Titolo “il laboratorio delle emozioni” nasce dal riconoscimento dei bisogni reali dei detenuti e della società: si reclude chi sbaglia per “punire ed educare” ed è a questa seconda finalità degli Istituti carcerari che si allinea il nostro progetto. Educare, dal latino “ex-ducere”, tirare fuori: emozioni, pensieri, paure, rabbia, sogni, obiettivi, cadute, capacità, limiti. Non si tratta di ripetere uno stile educativo, pur valido ma limitante, quello della regola sociale “cosa è giusto e cosa è sbagliato” in quanto crediamo che per molti sia un concetto scontato e in quanto crediamo che si sta da una parte o dall’altra a seconda di un’altra variabile: il rispetto verso se stessi. Siamo tutti molto educati a “comportarci” bene ma poco a “stare bene” ed è questo quello che, col nostro progetto, vorremmo insegnare ed imparare. Imparare come si fa a stare bene, come si fa a prendere gusto a compiere qualcosa, come si fa a divertirsi lungo il cammino perché “non è importante DOVE possiamo arrivare; è importante COME ci arriviamo e come ci divertiamo durante il tragitto!”
Per comprendere ciò allenandoci a pensare diversamente e comprendendo i vari conflitti emozionali che vivono all’interno di ciascun detenuto nelle lunghe e sovraffollate (di pensieri e di persone) 24 ore della giornata, diventa importante intraprendere ” un viaggio all’interno del cuore e della mente, alla ricerca di quella spinta vitale chiamata emozione. Il termine emozione deriva dal latino “ex-movere” che, letteralmente, significa: spingere fuori. Ogni elaborato di pensiero produce un’idea. Da ogni idea si produce un’emozione più o meno intensa, a seconda dei contenuti dell’idea prodotta. In definitiva possiamo definire l’emozione come un’accelerazione di energia mentale umana, in risposta a stimolazioni del mondo esterno o a pulsioni del proprio mondo interno, che determina lo stato d’animo di ogni essere umano. Quando le emozioni prodotte sono positive e si scaricano nel mondo interno determinano gioia di vivere. Quando le emozioni prodotte sono positive e si convogliano verso il mondo esterno, trasmettono contenuti tipo: disponibilità, gaiezza, gioia, etc. Quando le emozioni prodotte sono negative o conflittuali e si veicolano al mondo interno (quando, ad esempio si reprime), determinano psicosomatosi, tachicardia, sudorazione, pianto, riso “isterico”, tensione, melanconia, ansia, angoscia, depressione, etc. In ogni istante della vita di una persona, le emozioni producono gioia, piacere, godimento, disagi, disturbi, etc. Quando le emozioni prodotte sono negative o conflittuali e si veicolano al mondo esterno, determinano fenomeni di violenza, tensione, collera, ostilità di vario genere, etc. Le emozioni sono le spezie della vita, capaci di colorare uno stesso evento di tinte e sfumature del tutto personali, non si creano in maniera anarchica o involontaria e dipendono dal tipo di idee che noi generiamo attraverso elaborati di pensiero. Le emozioni servono a scaricare o metabolizzare le tensioni energetiche attivate. La variabilità delle emozioni e la conseguente ricaduta in termini di malessere o di buonumore dipenderà dal tipo di energia messa in campo durante gli elaborati di pensiero. (Dott. Giorgio Marchese: “Tu chiamale, se vuoi… emozioni”)
Giorno 03.07.2013, i cancelli dell’istituto carcerario di Viale S. Cosmai, si sono aperti per fare entrare i counselors e il progetto rivolto ad un gruppo di 15 detenuti tossicodipendenti.
Carcere e counseling… per noi una perfetta accoppiata.
Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. Enzo Jannacci
Il lavoro del counselor è quello di permettere alla persona di orientarsi, ritrovare il senso della vita, fornire apprendimenti costruttivi, affinare gli strumenti che ci permettono di scegliere se costruire e se costruire nel bene o nel male… il lavoro del counselor è lavorare con le persone sui pensieri delle persone e sulle emozioni che derivano conseguenzialmente dalla qualità degli stessi… quale posto migliore per provare a pensare non di meno, non di più ma MEGLIO se non in un posto in cui il pensare è l’attività che viene svolta prevalentemente?
6 volontarie della Neverland, diplomate e diplomande in counseling si sono avviate oltre i cancelli che dividono per storia il mondo dei comportamenti corretti dal mondo dei comportamenti scorretti: dentro chi sbaglia, fuori chi cammina bene…
Abbiamo visto come opportunità questa divisione socialmente e storicamente definita per lavorare con chi ha voglia di riscattarsi, rieducarsi, comprendere, ritrovare il filo della sua esistenza, consapevoli che
“A una data età nessuno di noi è quello a cui madre natura lo destinava; ci si ritrova con un carattere curvo come la pianta che avrebbe voluto seguire la direzione che segnalava la radice, ma che deviò per farsi strada attraverso pietre che le chiudevano il passaggio.” Italo Svevo
La storia di una curva e di una deviazione di percorso…
Ognuno di noi ne ha una … più di una che può trasformarsi in opportunità per migliorare, come il marinaio che modifica le vele al cambiare del vento, o per far nascere in noi vittimismo, rimorsi, rimpianti, rancori, sensi di colpa, concludendo, accompagnati da un sospiro, spallucce e un’espressione malinconica “è andata così”.
Il carcere raccoglie persone che hanno commesso reati e che vengono puniti per questo, per “riparare” il danno causato alla Società… ma al contempo, si cerca di ri-educare affinchè vecchi apprendimenti, che per contraddizioni della società, storie familiari che si ripetono, scarsità di mezzi per orientare la propria lente a leggere la realtà e non un pezzo solo di verità, etc., si possano rivisitare alla luce di nuovi apprendimenti: riconoscimento dei valori, delle frustrazioni, conoscenza dei propri mezzi e delle proprie capacità, riconoscimento delle emozioni.
Questo non è un “di più” che si offre… è il riscatto personale e sociale: personale affinché la persona possa riorientare la propria vita alla luce della conoscenza di se stesso e nel rispetto di se stesso; sociale affinché alla società siano restituite persone, uomini, consapevoli e portatori (come dovremmo esserlo tutti) di quel valore aggiunto da lasciare agli altri per lasciare il mondo un po’ migliore di quello che si è trovato.
È questo scopo e questa visione dell’Essere Umano e del senso della vita che ci porta, da counselor, a lavorare con persone che domani saranno alle prese con la vita “al di fuori”: con la ricerca di un’occupazione per poter essere indipendenti e crearsi una famiglia, con la ricerca dei propri obiettivi e la ricerca della strada più utile per raggiungerli, con la gestione delle contraddizioni, dei fallimenti della società, con la ricerca di un’organizzazione del proprio tempo libero…
Partendo da questi presupposti teorico-logici abbiamo definito come macro obiettivo:
- Imparare apprendimenti nuovi per pensare diversamente e, di conseguenza, avere emozioni più neutrali che garantiscono un tono dell’umore stabile;
- Rivisitare la scala valoriale;
- Riconoscere le proprie emozioni;
- Offrire strumenti di lettura della realtà;
- Offrire strumenti di lettura di se stessi;
- Offrire strumenti di fronteggiamento delle situazioni difficili e frustranti
A tal fine, i micro obiettivi sono stati:
- favorire lo sfogo dei contenuti conflittuali derivanti da apprendimenti vecchi e da energia bloccata = questo passaggio è fondamentale per permettere l’apertura a nuovi messaggi;
- favorire l’esternazione delle risorse interne ed esterne;
- favorire uno scambio tra i detenuti e tra i detenuti e gli operatori, su argomenti di vita quotidiana;
- favorire l’apprendimento della logica universale;
- favorire l’esternazione di paure e bisogni dei detenuti.
Le attività svolte sono state programmate di volta in volta, in una logica di ricerca- progettazione: si è cioè analizzato, di volta in volta, il bisogno espresso nei singoli incontri per cercare di offrire, nell’incontro successivo, la risposta alla richiesta latente inviataci dai detenuti, onde evitare di “somministrare” qualcosa di pre-confezionato e non richiesto che avrebbe ridotto l’attenzione dei destinatari nei confronti del lavoro da fare e costruire insieme.
In particolare, le nostre attività si sono articolate e tradotte in:
- dialogo e confronto libero sugli argomenti sollecitati dai ragazzi stessi;
- lettura articoli (lastradaweb) riguardanti: amore, paura, lavoro,etc., e successiva discussione dell’articolo;
- visione di film inerenti gli articoli o i bisogni espressi dai ragazzi;
- simulazioni di colloqui di lavoro.
Nell’ultimo incontro noi operatrici abbiamo restituito ai ragazzi il lavoro svolto e, soprattutto, la gioia e il piacere di aver lavorato con loro.
Durante tutti gli incontri, infatti, i ragazzi si sono sempre presentati volentieri e hanno sempre dimostrato puntualità: inoltre, la loro presenza reale si è dimostrata attraverso il coinvolgimento a tutte le attività, il confronto, il racconto della propria vita,… e benchè a volte i toni si siano alzati, questa per noi è stata, da un lato, la dimostrazione della partecipazione emotiva e reale che i ragazzi portavano all’interno degli incontri.
Dal canto loro, essi hanno espresso le loro opinioni sul progetto scrivendo anonimamente dei bigliettini che per noi sono valsi come “questionari di autovalutazione”. Nei loro pensieri liberi e anonimi è scritta la gioia di aver partecipato a questo corso e la volontà di continuare questa esperienza dentro le mura e, si spera, fuori.
Per noi, la loro restituzione e la dichiarazione della loro “paura del mondo”, è stata una conferma della necessità di continuare a lavorare con loro focalizzando la progettualità successiva sull’offerta di strumenti pratici e orientatori necessari per un sostegno reale dei detenuti ma, soprattutto, delle persone che un giorno varcheranno nuovamente i cancelli per ritornare a vivere da esseri umani nel mondo reale fatto di ostacoli e di gioie, a giocare di nuovo al gioco della vita, per vincere… o, almeno, per provarci… da uomini, con Onore e Dignità! … perché, comunque andrà, se si vive veramente e fino all’ultimo con i propri mezzi, si realizza il SENSO della vita.
Nell’antico Giappone, un uomo era nato col dono della poesia. Ma era un piccolo dono, di cui lui solo gioiva e soffriva, e che nessuno prendeva in considerazione. Persino i poeti grandi hanno la vita difficile; figurarsi i piccoli. Era già tanto se qualche maestra di scuola leggeva in classe, di tanto in tanto, qualche sua poesia; ma egli era quasi sicuro che lo facesse per cortesia.
Per campare, divenne scrivano negli uffici delle gabelle; aveva una bellissima calligrafia e, a quei tempi, erano pochi che sapessero pennellare gli ideogrammi come lui. Ma non fece carriera, in parte perché non aveva alcuna ambizione, in parte perché, come impiegato, rendeva poco, continuamente distratto com’era dai suoi sogni.Giunto verso il termine della vita, divenne cieco. All’ufficio delle dogane non avevano più bisogno di lui; in casa era un ingombro, poiché inciampava in ogni dove; neppure a coltivare l’orto era utile. Il poeta cieco, profondamente avvilito, stava seduto per tutta la giornata sotto una tettoia a udire i passi della gente e il suo chiacchiericcio. Un giorno di primavera, mentre aspirava il profumo dei tigli per schiarire almeno un poco il buio dell’anima, vide come in sogno avanzare verso di lui un fiume di immagini di poesia, quasi fosse una colata di diamanti. Spalancò tutto il suo cuore e se ne lasciò invadere.
In quel preciso momento udì una voce che gli diceva:”Vecchio, ho bisogno della tua poesia! “Il tono era autorevole e profondo.”Chi può mai avere bisogno di me?”, chiese il poeta, “e proprio adesso che sono cieco e non posso più scrivere?”.”Chi sia io non ha importanza; ha importanza che io abbia bisogno di te, non ti pare? E in più, ti pagherò bene. Eccoti un anticipo”.Il poeta tese la mano: vi cadde un bellissimo fiore di loto. Chi mai poteva dargli una ricompensa così grande?
Nessuno rispose alla sua domanda. Il poeta, su cento foglie di bambù, si mise febbrilmente a scrivere un grande poema d’amore a Buddha, perché certamente da lui era disceso quel fiume di diamanti che lo aveva invaso.Non pensò alla sua cecità; non pensò che la sua mano era malferma; non pensò neppure che invece di dipingere ideogrammi potesse dipingere scarabocchi. Trasformò quel fiume di brillanti in un mare di poesia.Terminato che ebbe, morì, come muoiono alcune persone per troppo amore.
Le cento foglie di bambù sono attualmente appese, a formare una lunga ed aerea ghirlanda, nel tempio di Yan-Zan. Nessuno più ricorda né quando né come né perché vi siano state appese. Tranne il primo verso della prima foglia, nessuno le sa decifrare.Quando però spira il vento dell’est e le foglie vibrano insieme, tutti odono il mormorio di un poema che ognuno ha dentro di sé e che può cantare; basta che colga il senso del primo verso della prima foglia:
“Oggi ho bisogno di te, mi disse Qualcuno”.
Qualunque sarà il risultato ne sarà valsa la pena…
Emanuela Governi, dottore in Scienze del Servizio Sociale, Counselor. – 06/11/2013
Hanno partecipato al progetto, insieme alla sottoscritta, anche Fernanda Annesi, Carmen Fasanella, Grazia Pignataro, Ida Lo Sardo, Maria Graziella Tenuta
Assistente Sociale Specialista, Counselor, Mediatore Familiare, responsabile “supporto al caregiver” Progetto SOS ALZHEIMER ON LINE