Sono trascorsi, per me, un bel gruzzolo di anni ed il ricordo dell’infanzia è sempre più vivo e mi rimbomba nel cuore; ed allora, una nostalgia infinita mi pervade.
A volte, ascoltando una musica antica, socchiudo gli occhi e mi rivedo nelle torride estati di Cosenza, quando era inimmaginabile, per la maggior parte dei cosentini, un turismo pendolare nella vicina costa di Paola; in compenso, le “chiare e fresche acque” del Busento erano refrigerio a molti di noi.
Rivedo la piccola e modestissima abitazione di piazza Campanella, con le sue scale ripide, irregolari e sempre più buie man mano che si saliva verso l’ultimo piano, ove abitavo; e che paure, la sera, per quelle scale! Fin dai primi gradini saliva il mio richiamo d’aiuto: “Mamma !”; e la lama di luce proiettata dalla porta di casa, provvidenzialmente aperta, fugava il buio e le mie paure ancestrali.
Ma quella era, anche, l’infanzia delle ristrettezze economiche, degli inverni rigidi contro i quali, inutilmente, gareggiava un braciere di carboni ardenti, mentre una banale bronchite era, più spesso, fatalmente esiziale.
Poi, c’era l’oratorio della vicina parrocchia dell’antica chiesa di S. Nicola, che ospitava i nostri giochi diurni, per poi ritrovarci presso l’altare della chiesa, al salmodiare delle funzioni vespertine, facendo a gara per gestire il turibolo da oscillare perché potesse elevare folte volute di incenso al momento dell’ostensione del Santissimo.
E gli anni erano interminabili fughe di mesi di cui, però, non avvertivamo la malinconia, perché i nostri spazi vitali si dilatavano nelle piazzette e nei vicoli circostanti il rione e si riempivano delle nostre squillanti voci e dei richiami convenzionali che si modulavano a seconda dei giochi che inventavamo e praticavamo, ma, anch’essi, adeguati al ritmo delle stagioni.
L’autunno, ad esempio, era dedicato al gioco della minuscola trottola di legno – ” ‘u strummulu” – della quale eravamo esperti sia nel lancio che nelle evoluzioni, di cui eravamo capaci; oppure, ci appassionavamo al gioco delle noci, accastellate a notevole distanza, che cercavamo di colpire con decisione, destrezza di tiro e ferma mano con la noce-biglia, che ognuno di noi aveva saputo scegliere nel cesto del fruttivendolo, e che custodivamo con gelosa cura, perché dalla sua resistenza dipendeva la razzia di un bel po’ di noci da sbocconcellare con una buona fetta di pane: anche la nostra attività ludica, in fondo, era un modo molto empirico per procurarci calorie e proteine naturali; più in là, su di un marciapiede le ragazzine, minute nella loro struttura ossea, ed ancor più modeste nei loro rabberciati vestitini, saltavano, con grazia e destrezza, fra i quadrati sovrapposti e disegnati sulle glabre mattonelle, al gioco fatto di agilità ed equilibrio che chiamavamo “settimana “, e che, in definitiva, era la versione popolare della danza classica.
E a dicembre, mentre dalla Sila ventosa l’austro ci soffiava il suo freddo alito ed i primi fiocchi di neve danzavano, lieti, nel gelido cielo, per noi ragazzi si iniziava la conta dei giorni che ci separavano dal Natale; e già i presepi sbocciavano negli angoli delle case e le albe algenti si riscaldavano ai dolci rintocchi della campana che chiamava alla preghiera della “novena” mattutina; a volte, affacciato alla piccola finestra della cucina, accompagnavo, con lo sguardo, la minuscola sagoma di mia madre che andava a confondersi con le altre figure di fedeli, incamminantisi, come un lieve scorrere di formiche, verso il portone della chiesa.
Mio padre, invece, rubava gli ultimi tepori del letto per meglio temprarsi ad affrontare il suo lavoro quotidiano che lo sospingeva, tra i dissestati e ripidi vicoli di corso Telesio, fino a raggiungere l’antico Istituto Magistrale “Lucrezia della Valle”, posto a ridosso del castello Svevo, ove insegnava.
Poi, d’improvviso, la guerra.
I bombardamenti, quel cupo terrore che ci stringeva le viscere, ed uno sbandamento sociale enorme, nel quale sopravvisse, per fortuna, un generale senso morale di solidarietà. Ma appena cessate definitivamente le vicende belliche e richiuse le porte del tempio di Giano, iniziò quell’esaltante periodo della prima giovinezza, di quell’età che è caratterizzata dalla forza e dall’amore, ma, anche, dalla serietà degli studi superiori che hanno forgiato le nostre menti e determinato il nostro avvenire.
Oggi, il nostro vivere è scandito da ritmi frenetici, nei quali ci dibattiamo con respiro ansante; anche la neve, con i suoi mistici silenzi, è uno spettacolo sempre più raro da ammirare su moltissime città, mentre le strade sono state sottratte ai fanciulli per diventare dominio assoluto delle automobili, al punto che il loro attraversamento pedonale, a volte, è punito con l’arrotamento di qualche incauto pedone: ed allora, i figli vengono reclusi nelle superbe e comode abitazioni, ma sui loro volti si riflette il pallore di una forzata inerzia, inutilmente temperata dalle “War-games” televisive, o dalla assordante musica “rap” dei “walkman” che incide, inesorabilmente, sull’integrità del sistema uditivo e nervoso; per i più fortunati, c’è la speranza della gita domenicale, sempre che la squadra locale sia impegnata in lontane trasferte.
Eppure, si vive nella speranza di un cambiamento radicale che possa far rivivere un nuovo Rinascimento, nonostante il ripetersi amorfo delle stagioni e la selvaggia cementificazione delle città, i cui grotteschi e biechi palazzi riescono a nasconderci anche le notti stellate, né la rana concilia i nostri sonni col suo ritmato gracidio, perché anche il fiume trasporta stanche acque morte.
Ma se la speranza ” fugge i sepolcri” – come canta il Foscolo – pur tuttavia essa ci appartiene come la primavera che ritorna dopo l’effimera notte dell’inverno; e la storia dell’umanità ci insegna che, quantunque sommersi dal buio della violenza, pur tuttavia verrà la tenue ginestra a colorare e far rivivere i fianchi del Vulcano, speranza di vita dell’ultimo Leopardi, o come ci conforta la saggezza popolare del grande Eduardo con la chiosa finale di una sua commedia “…a da passà ‘a nuttata “.
Giuseppe Chiaia ( preside ) – 10 gennaio 2010
Fine Letterato, Docente e Dirigente scolastico, ha incantato generazioni di discenti col suo vasto Sapere. Ci ha lasciato (solo fisicamente) il 25 settembre 2019 all’età di 86 anni. Resta, nella mente di chi lo ha conosciuto e di chi lo “leggerà”, il sapore della Cultura come via maestra nei marosi della Vita