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La logica economica non può mai anteporsi alla tutela della salute del paziente, come ribadito dalla recente sentenza della Cassazione n.8254/2011.

Reazioni contrastanti ha suscitato nel settore della sanità la recente sentenza n.8254 del 2.03.2011 della Quarta sezione penale della Corte di Cassazione, che ha richiamato i medici al rispetto del diritto alla salute dei pazienti da anteporre a qualsiasi altra esigenza, incluse le ragioni economiche delle strutture
sanitarie.

 

Nel caso esaminato, la Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione di un medico che aveva firmato
le dimissioni di un paziente ricoverato in ospedale a seguito di infarto, sottoposto a trattamento di angioplastica, dimesso dopo nove giorni dall’intervento cardiaco, secondo le linee guida in uso nella struttura sanitaria, e deceduto a seguito di nuovo attacco cardiaco intervenuto a poche ore dalla dimissione.

 

In primo grado il medico era stato condannato per omicidio colposo in base all’assunto che, seppure il
professionista, al momento delle dimissioni del paziente, si era attenuto scrupolosamente alle “linee guida” della struttura ospedaliera, non potendo, queste ultime, costituire l’unica regola di condotta del medico,
sufficiente ad escludere qualsiasi ipotesi di colpa professionale, e stante la piena autonomia del sanitario nella scelta degli strumenti diagnostici e terapeutici più adeguati, prevista nello stesso codice deontologico,
nel caso specifico, come emerso dalla consulenza medico-legale espletata, sussistevano fattori di rischio che avrebbero dovuto consigliare la disapplicazione delle linee guida e la prosecuzione della degenza, che avrebbe consentito
l’immediata somministrazione di idonee terapie all’insorgenza del nuovo scompenso cardiaco, da cui il paziente era stato colto a distanza di poche ore dalle dimissioni. Vano era stato il tentativo di trasporto in ospedale,
dove l’interessato era arrivato in arresto cardiocircolatorio ed era deceduto subito dopo.


La Corte di Appello, su ricorso proposto dal medico, aveva riformato la sentenza di primo grado, assolvendo il sanitario in base all’assunto della mancata dimostrazione,
nel caso concreto, dell’incompatibilità delle “linee guida” rispetto ai canoni di diligenza, prudenza e perizia richiesti in chi esercita la professione medica. Secondo la Corte, le condizioni del paziente,
anche se critiche, non erano diverse e più gravi rispetto a quelle di altri pazienti che rientravano nel campo di applicazione delle linee guida. Il medico avrebbe dovuto disapplicare le linee guida e discostarsi dalla
prassi seguita per casi simili solo in presenza di particolari situazioni di rischio, tali da configurare una condizione al di fuori della norma, non riconducibile al campo di applicazione delle linee guida.

 

La Cassazione ha annullato – con rinvio- la sentenza della Corte d’Appello, perchè ha ritenuto
inadeguate le argomentazioni della decisione assolutoria fondata sul rispetto, da parte del medico, delle “linee guida”, e sulla considerazione della generica presenza delle condizioni in astratto contemplate nelle
direttive di settore, senza verifica della rispondenza delle dimissioni alle specifiche condizioni di salute del paziente, alla stregua della condizione di criticità e precarietà riconosciuta nella stessa sentenza
impugnata. Infatti -si ribadisce nella sentenza n.8254 – l’esercizio della professione medica è regolato da norme che richiamano “il diritto fondamentale dell’ammalato di essere curato ed anche rispettato come
persona”, che ha rilievo costituzionale, ed “i principi dell’autonomia e della responsabilità del medico, che di quel diritto si pone quale garante, nelle sue scelte professionali”. Pertanto, il medico,
nell’espletare la sua professione, deve avere come fine solo ” la cura del malato”, ed utilizzare gli strumenti diagnostici e terapeutici forniti dalla scienza medica, senza condizionamenti derivanti da altre esigenze.
L’osservanza delle “linee guida” “nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità
del medico nella cura del paziente”, tanto più ove queste rappresentino uno strumento improntato a criteri di economicità di gestione e non anche alle effettive esigenze del singolo paziente. Il medico “che
risponde anche ad un preciso codice deontologico, che ha in maniera più diretta e personale il dovere di anteporre la salute del malato a qualsiasi altra diversa esigenza e che si pone, rispetto a questo, in una chiara
posizione di garanzia, non è tenuto al rispetto di quelle direttive, laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente, e non può andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando
al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”.

Erminia Acri-Avvocato