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Ogni cambiamento, anche agognatissimo, ha le sue malinconie, perché quel che si lascia è una parte di noi: bisogna morire a una vita per entrare in un’altra. (ANATOLE FRANCE)

Cari Lettori, ci siamo mai domandati perchè, di fronte al sole che tramonta, spesso, veniamo avvolti da un miscuglio di sensazioni che vanno dalla malinconia alla nostalgia e che, al tempo stesso, ci parlano di occasioni mancate, di voglia di riscatto, di gabbiani, vento, onde e libertà? 

Melanie Klein sosteneva che ciascuno di noi lotta contro terrori profondi di annichilimento e di abbandono assoluto (l’angoscia paranoide e l’angoscia depressiva)…

Ma riflettiamoci bene

Fin da bambini il mare ci ha attratto in maniera diversa ma ugualmente intensa, della ferrovia. Infatti, ci ha sempre dato l’idea del viaggio verso quello che non vedi ma che “senti” dentro di te scrutando l’orizzonte, oltre la linea di confine…

Col treno, in fondo, arrivi fin dentro il cuore di una città e, volendo, dalle sue viscere puoi rimetterti in marcia come se fossi indirizzato verso un metaforico albero respiratorio che ti catapulta, libero, nell’atmosfera.

Forse è per questo che, molti, quando salgono a bordo di un qualsiasi natante, così come di un vagone ferroviario, provano quel fascino che deriva dalla percezione di essere sempre oltre la linea di galleggiamento. 

Una spanna più su, del muro della routine. Quello che divide la noia, dall’avventura

A questo punto, non sembri strano il voler immaginare la vita come un lungo binario percorso a bordo di un treno fantastico: dipenderebbe da noi essere semplici passeggeri o capaci macchinisti di quell’epico mezzo di locomozionein grado di attraversare con passo lento ma deciso, il cuore di ogni centro abitato per “sentire” gli umori degli altri, mescolarsi ai nostri stati d’animo.

“C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale, questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio.” (Milan Kundera, La Lentezza)

Molta gente cerca di arrivare più velocemente alla propria destinazione, confondendo un obiettivo a medio termine con il proprio “fine corsa esistenziale”. E poi si strugge, nell’attesa di una nuova alba che, sistematicamente, verrà scambiata per l’ennesimo crepuscolo serotino. Da qui alla depressione endogena, il passo è breve.

Veramente.

A ben riflettere, questo lungo binario percorre spazi indeterminati dei quali, noi, rappresentiamo la finitezza e il limite migliorabile. Sarebbe opportuno che, ciascuno, tutto ciò lo ricordasse a se stesso.

Lungo questo “andare” psicobiologico, scorrono volti, situazioni, emozioni, sensazioni…

Insomma, procede, lenta, tutta la nostra vita.

Il binario, lungo il suo tragitto, si confonde con gli scambi, con i coacervi di altre linee ferrate che conducono in grandi e piccole stazioni da cui, comunque, ripartirà, ancora, per il suo lungo viaggio…

L’esistenza è sempre stata vista come qualcosa di dinamico e motorio.

Come abbiamo visto e “sentito” lo spartiacque della modernità  è stato rappresentato dall’invenzione della locomotiva, vero “prototipo” cui fare riferimento.

Si parla del treno della vita.

Il treno!

Che cosa è più bello? “Essere” il macchinista o il passeggero?

Il macchinista, nell’immaginario è come se non ci fosse. La gente ha L’illusione che il treno cammini da sé. Rifiuta l’idea di affidare la propria vita ad uno sconosciuto di cui si deve fidare per oggettività di sistema.

Il passeggero non ha responsabilità. Può esercitare la sua libertà, beninteso nell’ambito dello spazio assegnato, ma con la fantasia può andare ovunque.

E può dedicarsi alla conoscenza.

Goethe ha delineato, a suo tempo, una gerarchia della conoscenza.

Il sapere è il livello più basso, al di sopra c’è il pensare.

Ma la cosa più alta è il vedere, il saper guardare.

Chi è in viaggio è pertanto nella condizione privilegiata di poter vedere e di abituarsi a saper vedere.

Il viaggio è, altresì, metafora della vita.

Pensiamo ad alcuni versi della splendida poesia di Giorgio Caproni intitolata “Congedo del viaggiatore cerimonioso”

Con voi sono stato lieto della partenza e, molto, vi sono grato, credetemi per l’ottima compagnia

Ma nel concetto di viaggio è implicito l’arrivo, che prima o dopo dovrà necessariamente esserci.

Eppure, il tempo congiura contro di noi. Si avverte ad un certo punto che il nostro viaggio sta per finire e dovremo abbandonare “l’amante compagnia” (Leopardi).

Giorgio Caproni conclude così:

Ora che più forte sento stridere il freno, vi lascio davvero, amici. Addio. Di questo, sono certo: io son giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento

Il “passeggero” ha, comunque, sempre qualcosa di “ingessato”, di pianificato, di disciplinato.

Fluisce la vita ma secondo un ordine, un galateo.

Il galateo è sinonimo di educazione, di civiltà ma anche di inautenticità.

Ci si comporta come gli altri si aspettano. Non ci sono sussulti, palpiti.

In pratica non c’è vita, nel suo significato più creativo.

Nel nostro mondo, la figura più esaltante e densa di futuro è quella del “viandante”.

A livello di provocazione filosofica tutto nasce con Nietzsche, senza il quale non avremmo avuto imput validi per guardarci attorno con spirito critico.

Nel volume “Umano, troppo umano” c’è il dialogo tra il viandante e la sua ombra.

L’ombra è importante quanto la luce.

Il viandante di Nietzsche non ha meta. Sceglie di abitare la casualità del presente e accetta coraggiosamente l’indecifrabilità del suo destino.

A livello poetico, tutto nasce coi versi meravigliosi di Antonio Machado (in particolare, la raccolta “Campos de Castilla”, 1912).

Scrive Machado :

Viandante, sono le tue impronte il cammino e niente più; viandante, non c’è cammino: il cammino si fa andando.

Andando si fa il cammino e, nel rivolger lo sguardo, ecco il sentiero che mai si tornerà a rifare. Viandante, non c’è cammino: soltanto scie sul mare. (trad. di Antonio Prete).

Esperienza del cammino, commenta Prete, non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile dalla partenza all’arrivo e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa.

È uscito da pochissimo un testo assai importante di Umberto Galimberti, intitolato “L’etica del viandante”.

Socializziamo alcune osservazioni che potranno essere oggetto di ulteriori riflessioni.

Per il viaggiatore, le terre che incontra non esistono, perché a lui interessa solo la meta.

Per il viandante “le terre che attraversa, proprio perché affrancate dalla meta, sono la sua patria, la sua vita”. Il viandante preferisce l’erranza.

L’uomo occidentale ha avuto grande senso di sé. Ha esaltato l’Umanesimo, ma quando è andato nelle nuove terre non ha “riconosciuto” i suoi simili e li ha sterminati.

Gli uomini occidentali hanno ripartito il mare in acque territoriali, per “delimitare anche sull’instabile le loro proprietà”. Gli uomini hanno assegnato al mare il compito di delimitare terre nemiche.

Il viandante dà diritto di vita e legittima tutte le persone che incontra, perché ogni popolo ha la sua storia ed esperienze da narrare.

Lungo il cammino, il viandante incontra lo straniero al quale non chiede l’integrazione, ma “offre il riconoscimento della sua alterità”.

Come ha scritto Barbara Spinelli: “Grazie allo straniero noi siamo portati a domandarci, forse per la prima volta, chi siamo, cosa vogliamo, da dove veniamo “.

Nel suo cammino il viandante non incontra il prossimo, ma si fa prossimo.

A differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante elabora una diversa esperienza che ha come nucleo la fraternità, intesa come convincimento che tutti gli uomini appartengono alla stessa specie.

Il malessere presente nel mondo, a livello individuale e sociale, è legato alla aridità e alla indifferenza.

Solo, quindi, con una radicale mutazione di vivere, agire e stare con gli altri è possibile vedere una fiammella di positività che col tempo ci auguriamo diventi un fuoco luminoso e vitale.

Cari Lettori, le zone degli Stati Uniti d’America ad ovest del Mississippi nel periodo di progressiva occupazione da parte degli americani bianchi (con conseguente spodestamento degli Indiani autoctoni), più o meno lungo tutto il 1800 sono universalmente conosciute col nome di WEST.

Il West è, soprattutto un modo di essere, un ideale di libertà, una terra di frontiera tutta da scoprire (o da inventare, a seconda di come la si vuole vedere), dove la legge è qualcosa di non ben definito e decisamente “personalizzato”. Il West, quello vero, rappresenta anche l’esempio di una conquista realizzata col coltello in mezzo ai denti, metro per metro, frutto della forza di volontà e di quello delle armi.

Eppure, anche lì, arriva il tempo del cambiamento e dell’ordine, in cui il cavallo lascia il posto alla ferrovia, che trasforma i suoi scenari selvaggi e i suoi personaggi rudi e solitari. Una preconizzazione della moderna costituzione sociale, insomma.

E noi, in tutto questo?

Noi siamo a bordo del nostro convoglio di cui seguiamo o indirizziamo le vicende. E’ proprio a questo punto che assume rilevanza la distinzione che abbiamo fatto in precedenza tra semplice passeggero e macchinista, perché il primo, si lascia condurre sempre dal secondo non verificandosi mai il contrario. Inoltre, il passeggero non ha mai alcuna responsabilità, se non riflessa.

Al contrario, il macchinista ne ha… Eccome!

Tutti sono infelici perché tutti hanno paura di proclamare il loro libero arbitrio. (Fëdor Dostoevskij)

Questo accade proprio perché il passeggero non può scegliere di indicare la strada, cioè, non ha facoltà di scelta mentre chi guida, deve necessariamente scegliere (individuando il giusto scambio) la direzione che ritiene migliore per giungere alla meta.

Si sa, le scelte comportano sempre dei rischi ma, anche, aspetti postivi: quelle gratificazioni, ad esempio, che sono proprie di chi è cosciente di aver impresso alla propria vita un corso ben preciso, di chi sa di essere autonomo e, quindi, scevro da eventuali condizionamenti oppressivi.

Attenzione, però, perché non è facile essere liberi: si ha sempre un prezzo da dover pagare!

Il lutto originario costituisce la traccia ardua, viva e durevole di ciò che si accetta di perdere come prezzo di ogni scoperta (P. C. Racamier)

In quelle stazioni, che rappresentano le tappe della nostra vita, a volte conviene scendere, altre volte no. È importante, però, risalire sempre a bordo per poter ripartire verso un’altra esperienza; questo perché, ciò, contribuirà ad un’evoluzione costante che fa parte integrante del nostro mutante divenire.

Adesso è chiaro perché nelle stazioni della nostra vita è ammessa la sosta ma non la fermata: smetteremmo di crescere e, quindi, sarebbe la fine. 

Ancor peggio sarebbe scendere dal nostro per salire su un altro treno, che magari conduce nella direzione opposta. È avanti che dobbiamo guardare, con passione e serietà, andando oltre la paura.

Nel 1922, Sigmund Freud ha postulato la teoria del “dualismo pulsionale”, all’interno della quale l’aggressività, al pari della sessualità, assumeva il ruolo di energia pulsionale fondamentale, dirigendo i processi psichici. In pratica, ogni individuo dovrebbe affrontare una perenne lotta contro impulsi e desideri proibiti, soprattutto a causa delle convenzioni sociali altamente condizionanti.

Tutti che vogliono essere qualcuno. E nessuno che abbia il coraggio di essere sé stesso (Cit.)

In quest’ottica, la “rimozione” o la “negazione” (cioè il condurre tali impulsi nell’inconscio profondo) costituisce una forma di controllo sociale, che “salva gli uomini da loro stessi”, permettendo la convivenza tra loro ed impedendo di sfruttarsi e uccidersi vicendevolmente.

Seguendo tale prospettiva, il paradigma di salute mentale implica la conservazione di una rimozione modulata (un allenamento a diventare migliori con sé stessi e nelle scelte conseguenti), così da rendere possibile la gratificazione ma evitare, al tempo stesso, che le pulsioni più infime, predominino.

La mattina è quella che mi piace di più, sembra che tutto ricominci daccapo. (Haruki Murakami)

Cari Lettori, per quanto strano possa sembrare sta, quindi, a noi, scegliere almeno il ruolo da portare avanti nella sceneggiatura della vita, optando per quello più tranquillo del passeggero o per l’altro, più deciso, del macchinista, ricordando, alla fine, il valore della corretta solitudine.

Naviganti

Siamo stati naviganti con l’acqua alla gola
E in tutto questo bell’andare quello che ci consola
È che siamo stati lontani e siamo stati anche bene
E siamo stati vicini e siamo stati insieme
Siamo stati contadini noi due senza conoscere la terra
E piccoli soldati senza amare la guerra
Ci hanno mandati lontano senza spiegarci bene
E siamo stati male ma siamo ancora insieme

Grandi corridori di corse in salita
Che alzavano la testa dal manubrio, per vedere se fosse finita
Allenati alla corsa, allenati alla gara
E preparati a cadere e a tutto quello che s’impara
Innamorati della sera, innamorati della luna
Conoscitori della notte senza averne paura
Innamorati di quel fiore che non vuole mai dire
Ecco, è tutto finito e bisogna partire

Ma ora è il momento di mettersi a dormire
Lasciando scivolare il libro che ci ha aiutati a capire
Che basta un filo di vento per venirci a guidare
Perché siamo naviganti senza navigare mai

“L’ultimo pezzo del cammino, quella scaletta che conduce sul tetto da cui si vede il mondo o sul quale ci si può distendere a diventare una nuvola, quell’ultimo pezzo va fatto a piedi, da soli” (Tiziano Terzani)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto per la collaborazione e a Mariano Marchese per gli spunti di riflessione

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