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“Vi scrivo perché ho dei seri problemi con mia moglie che è decisa a separarsi da me, pur avendo, noi, due bambini ancora piccoli. Grazie a quello che voi scrivete, ho scoperto tante cose cui non avevo mai prestato sufficiente attenzione e, soprattutto, mi sono accorto, dopo 11 anni di matrimonio (che sembravano esemplari) di non aver mai valorizzato quei segnali che, mia moglie, mi aveva inviato negli ultimi tempi, indicatori di un rapporto ormai “stanco”. Sarà per il fatto che ci siamo sposati giovani (forse troppo), sarà per la mancanza di comunicazione degli ultimi anni legata alla mia scarsa capacità di comunicare tra noi, non mi sono accorto del fatto che, nel frattempo, lei aveva cercato rifugio in altre braccia. Attualmente, pur avendo interrotto quella relazione (di cui mi accollo parte della responsabilità, per cui non posso e non voglio incolparla di nulla), dichiara di volermi ancora bene ma di non amarmi più. Perché non posso meritare l’opportunità di provare un’altra occasione per mostrarle e mostrarmi la voglia del nuovo, anche in ciò che il tedio e la noia, hanno invecchiato tristemente?”

Cari Lettori, non di rado, ci imbattiamo in rimorsi e rimpianti per una vita tesa ad essere consumata senza capire bene il perché, all’ombra di quel sole che dovrebbe alimentare la fiamma che si chiama amore… al freddo di quegli stati di alienazione che ti portano a chiedere che senso ha il continuare ad amare

Già, l’amore. Ma, in fondo, cos’è il “vero” amore?

Ci siamo interrogati e scritto molto, su questa piattaforma programmatica intorno alla quale ruota il destino dell’intero genere umano… e non solo. 

Cos’altro si potrebbe dire, senza correre il rischio di ripetersi?

Vediamo un po’, proviamo a chiudere gli occhi e lasciamo andare il fluire dei pensieri, provando a trasformare le idee in emozioni e parole in grado di scaldare fin dentro i meandri dell’anima, quel nostro bambino interiore rimasto a mendicare un briciolo di attenzione, con le braccia rivolte al cielo dell’indifferenza. A chiedere pietà. E speranza

Amore… intenso sentimento basato su una multifattorialità di elementi (affetto, rispetto, stima, complicità, curiosità, amicizia, erotismo, intimità, solidarietà, protezione, comprensione, accettazione, “freschezza”, etc.), i quali producono un’attrazione crescente e irreversibile, fra due persone che tendono a diventare, via via, sempre più mature.

Su cosa si basa la vita di una persona?

La risposta non può essere univoca anche se si può basare su criteri oggettivi.

Infatti molto di noi, seguono il corso di un fiume la cui sorgente si trova lì, dove stanno gli “imprinting” (le esperienze, i ricordi, le convinzioni, il proprio modo di essere). 

Sostanzialmente, in ciascuno esistono come delle “stanze di memoria” a profondità progressiva in cui scopriamo la parte del bambino (per continuare a credere nei sogni e nelle aspirazioni), quella del “canuto” (per contare sulla necessaria saggezza), la componente femminile (per la voglia di migliorare e vincere la diffidenza di un mondo di sopraffazione), la strutturazione “maschile” (per le responsabilità che ne conseguono), il sentimento di “Padre” (per trasmettere un po’ di sè, all’infinito), quello di madre (per contribuire a generare persone migliori), il sentirsi ancora figlio (per il bisogno di imparare) e, ovviamente, anche figlia (per annullare quel fisiologico “attrito” che gli esperti chiamano Complesso di Edipo), etc.

Ovviamente questo non nasce da una questione di confusione di ruoli o di identità sessuale ma, semmai, dal messaggio che Madre Natura vuole inviare e cioè, la necessità di rendersi conto che, per andare d’accordo con l’altro, bisogna essere in pace, anzitutto, con se stessi e dirigersi verso l’appagamento di una vita equilibrata nelle aspirazioni, nei programmi e nelle realizzazioni.

Carl Rogers, a tal proposito sosteneva la necessità, prima di esprimere il proprio punto di vista, di assimilare il quadro di riferimento dell’altra persona, comprendere i suoi pensieri ed i suoi sentimenti sino al punto di riassumerli invece sua.

Se farete questo tentativo, scoprirete che è una delle cose più difficili che abbiate mai tentato di fare. Tuttavia quando sarete stati capaci di vedere il punto di vista dell’altro i vostri ulteriori commenti dovranno essere rivisti radicalmente.

Infatti, cari Lettori, “decentrati” da noi stessi e centrati sull’altro, usciamo da una eccessiva e narcisistica introspezione e trasformiamo il “semplice” Dialogo in una vera relazione empaticamente interattiva

Dove gli occhi vanno volentieri, anche il cuore va, né il piede tarda a seguirli (Carlo Dossi)

Ma è poi vero che, se ci si ama, ognuno capisce e accetta il mondo di chi gli cammina accanto?

Abbiamo mai provato a conciliare due opposti condizioni di derivazione e di appartenenza? Un uomo e una donna, due fratelli, un genitore e un figlio, due Amici del cuore, Popoli di appartenenze diverse…

A queste condizioni, è probabile che si riesca a superare la paura di essere feriti dall’altro e che si accetti l’idea di rimettersi in discussione per verificare come poter migliorare ancora, senza la necessità di difendere lo steccato dell’egocentrismo “malato” che porta all’indifferenza esistenziale, al vittimismo e al logoramento di qualunque rapporto d’Amore, di Rispetto e di Amicizia.

L’importante, comunque, è non subire il modo di fare e di pensare dell’altro. Si può discutere e scontrarsi, se è il caso, ma non rassegnarsi. Se le strade divergono, vuol dire che non ci si ama abbastanza.

A quel punto, necessariamente, bisogna capire cosa è più importante, tenendo presente che, a volte, l’amore è come la vita: se non te ne curi abbastanza, “avvizzisce” ogni giorno di più… e quando finisce, non te ne accorgi.

Fra i rumori della folla ce ne stiamo noi due, felici di essere insieme, parlando poco ma dicendoci molto (Walt Whitman).

E allora, cosa c’è nella vita di ognuno, che fa perdere la “sintonia” con gli altri, con l’altro?

Già qualche decennio fa questo tipo di incomunicabilità è stato affrontato con grande amara lucidità, anche in campo artistico.

Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, Michelangelo Antonioni, in film memorabili (“L’avventura”, “La notte”, “L’eclissi”), toccò il tema della incomunicabilità in modo originale e profondo, sviscerando il problema in modo totale e crudele.

Anche se sotto l’analisi impietosa c’era, come in ogni opera artistica, tanta pietas che accompagnava i personaggi nel loro drammatico stare soli col proprio “scontento”.

Prendendo a esempio il difficile rapporto padre /figlio, a livello letterario, questo “nodo gordiano” è stato indagato da grandissimi autori.

In questa sede parliamo della “Lettera al padre” di Franz Kafka.

Il padre di Kafka era un commerciante grezzo e burbero che si era conquistato da solo le ricchezze. Da quel che capiamo non era nelle condizioni di entrare in sintonia con la grande sensibilità del figlio. Noi, grazie alla lettera, abbiamo la spietata analisi del figlio, ancor più spietata perché esce dalla penna di uno scrittore altissimo.

È tale l’incomunicabilità tra i due, da rendere assordante il silenzio relazionale.

“Ho disimparato a parlare (scrive il figlio). Non sarei comunque diventato un grande autore, ma avrei senz’altro dominato il linguaggio umano”.

Ogni tentativo di avvicinamento è fallito. Eppure il figlio vorrebbe semplicemente essere compreso nel ruolo di figlio libero, incolpevole, sincero. Vorrebbe il padre rasserenante, non dispotico ma comprensivo e soddisfatto. Un padre che si prenda cura del figlio e gli consenta di prendersi cura di lui, in una sorta di “cerchio della Vita”.

Il padre di Kafka è il “Pater”, non il papà.

Identica difficoltà di rapporto c’è ne “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Un rapporto mancato che lascia traumi nel figlio che non saprà mai se la mano in aria del padre morente verso di lui era un tentativo di carezza o uno “schiaffo” finale.

La scrittura di Kafka è di una potenza emotiva dirompente.

La lettera, oltretutto, va dal personale all’universale: è un documento che riguarda. l’umanità intera. È un testo che descrive in maniera disperata l’incomunicabilità tra gli esseri umani.

Non sembra esserci rimedio.

Ma, nonostante tutto, noi dovremo sempre provare a prenderci cura degli altri. Così facendo ci prenderemo cura anche di noi.

L’uomo solo, condannato alla non comunicabilità, è un infelice.

E, ovunque c’è un infelice, “Dio invia un cane” (Adolphe de Lamartine).

Un amore da cani, commenta amorevolmente Vittorio Lingiardi, in un suo magistrale intervento su Venerdì di Repubblica, al quale siamo debitori delle considerazioni che seguiranno.

Presentato a Venezia, è ora nelle sale un film assolutamente da vedere: “Dogman” di Luc Besson.

I cani di cui parla Besson abbaiano poco, ma sanno amare e proteggere. Il protagonista Doug (il magnifico attore Landry Jones) è un adulto che non ha nulla da perdere perché bambino ferito dalla vita. Il genitore, crudele allenatore di cani da combattimento, da bambino lo faceva vivere nelle gabbie pur di non “averlo tra i piedi”.

Il figlio (Doug) dirà alla sua psichiatra: “un bambino prende l’affetto che trova”.

E sarà salvato dall’amore dei cani.

Un amore sostitutivo della famiglia assente e non comunicante. Solo i cani gli insegneranno che si può amare e si può essere amati.

Particolarmente significativa è la riflessione che espone alla sua Psichiatra: “I cani hanno un solo difetto, si fidano degli uomini”

La vittoria ha cento padri, ma la sconfitta è orfana (Proverbio Popolare).

Ah, l’abitudine a lasciarsi andare perché, tanto, la vita non va come noi vorremmo, ma è il risultato di circostanze contro cui non possiamo opporci! 

Che peccato.

Il cammino attraverso la foresta non è lungo se si ama la persona che si va a trovare. (Proverbio Africano).

Il tempoCome cambia il tempo, le cose della vita. Ma in bene o in meglio? Come sempre, dipende. Ma dipende da cosa? Da quello cui abbiamo rivolto, in maniera prevalente, le nostre attenzioni.

Se curi troppo qualcosa, finisci col trascurarne delle altre… e non è detto che non siano altrettanto importanti.

Quanto ci ha colpito, negli anni ottanta, quel bel film di Ettore Scola, con Marcello Mastroianni e Massimo Troisi dal titolo apparentemente qualunquistico: “Che ora è?”

“A parlare con un estraneo, che ci vuole?  È a parlare col padre che è difficile…  ma poi, chi l’ha detto che padre e figlio devono parlare?”

Un avvocato sessantenne (Mastroianni) decide di andare a trovare il figlio (Troisi) che sta terminando il servizio militare a Civitavecchia. Una giornata faccia a faccia tra un padre all’apice del successo professionale e un figlio introverso, che non hanno mai comunicato fra loro.

Un film sulla difficoltà di aprire il Cuore e la Coscienza comunicare, monologhi costruiti sulle qualità recitative dei due attori. Quanta tenerezza quel padre che scorge il sipario del proprio fallimento, nell’aver proposto un modello di vita tanto lontano di valori reali di affetto e amicizia che il figlio apprezza e ricerca.

-“Ma come, non ti piace la macchina che ti ho comprato; è una Lancia Thema… Turbo, 200 Cavalli!”

– “Si va buò… ma non è questo, quello che conta….”

Alla fine si “accompagnano” per un tratto, in treno… e si incontrano su una domanda retorica e ossessiva, perno della sceneggiatura: “Che ora è?”

Si vive solo il tempo in cui si ama (Claude-Adrien Helvetius)

Ma l’abitudine, quella che ti porta a far finta di non voler capire il crinale degli eventi, la polvere del tempo, quella che spegne i colori e porta al crepuscolo….

Si, perché, quando la luce si riduce, la retina comincia a funzionare in toni di grigio… non c’è più energia per attivare la zona che consente la visione a colori. 

Due cose assolutamente opposte ci condizionano ugualmente: l’abitudine e la novità (Jean de La Bruyère). 

In sostanza, il vecchio e il nuovo ci fanno entrambi paura. Solo che il nuovo possiamo sfuggirlo e il vecchio possiamo aggirarlo non pensandoci, dando voce ad altre istanze che, però, non basteranno a chiudere i conti e, spesso, apriranno le porte ai rimorsi.

Ribellarsi, si, costi quel che costi e decidere, finalmente quello che si cerca, senza alibi, pregiudizi e vittimismi… e, poi, pagare. 

Che almeno ne valga la pena. A tutti è concessa un’altra occasione, se non è, ormai, troppo tardi.

Quei giuramenti, quei profumi, quei baci infiniti, rinasceranno… (Charles Baudelaire).

Ormai le palpebre “pesano” per il troppo tempo trascorso a cavallo tra quello che siamo, ciò che potremmo (ancora) diventare e quello cui dovremmo rinunciare.

Cari Lettori, il nostro saluto, questa volta riguarda uno dei temi del nostro modo di essere… Naviganti

Buona vita, assaporando il significato del termine “prendersi cura”

NAVIGANTI

“Siamo stati naviganti con l’acqua alla gola. E in tutto questo bell’andare quello che ci consola è che siamo stati lontani e siamo stati anche bene; e siamo stati vicini e siamo stati insieme.

Siamo stati contadini noi due senza conoscere la terra e piccoli soldati senza amare la guerra, ci hanno mandati lontano senza spiegarci bene e siamo stati male, ma siamo ancora insieme.

Grandi corridori di corse in salita che alzavano la testa dal manubrio per vedere se fosse finita, allenati alla corsa, allenati alla gara e preparati a cadere e a tutto quello che s’impara, innamorati della sera, innamorati della luna conoscitori della notte senza averne paura, innamorati di quel fiore che non vuole mai dire: ecco, è tutto finito e bisogna partire.

Ma ora è il momento di mettersi a dormire lasciando scivolare il libro che ci ha aiutati a capire che basta un filo di vento per venirci a guidare… perché siamo naviganti senza navigare mai” (Ivano Fossati).

Sarà servito questo nostro “viaggio” nel modo di intendere l’amore come espressione di energia, grazie a cui è nato l’Universo?

Noi ci confidiamo

“Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l’ho scordato” (Walt Whitman)  

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la preziosa collaborazione

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