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La terra viene insultata e offre fiori in risposta. (Rabindranath Tagore)

Questa riflessione del poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese potrebbe rappresentare il senso e il valore della figura e della funzione della Mamma. Che, in tutto il mondo, viene celebrata la seconda domenica di maggio.

Tale ricorrenza, una volta dedicata alla Madre di tutte le Madri (Maria di Nazareth), fu introdotta soltanto tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, in due momenti diversi.

Il primo, risale agli Anni ’60 e ’70 dell’800 ed è merito di una pacifista americana, Ann Reeves Jarvis e di sua figlia Anna. Al termine della guerra civile americana, Jarvis aveva promosso una serie di feste della mamma con lo scopo di favorire l’amicizia tra le madri di Nordisti e Sudisti.

Sempre in quel periodo, nel 1870, la poetessa americana Julia Ward Howe scrisse la “Mother’s Day Proclamation”,  con la quale esortava le donne ad assumere un ruolo attivo nel processo di pacificazione tra gli Stati americani.

Il secondo momento risale ai primi anni del ‘900: Anna Jarvis raccoglie il testimone della madre e inizia a organizzare numerosi eventi dedicati alle madri con sempre maggiore seguito, finché il presidente americano Woodrow Wilson ufficializzò la festa nel 1914.

Fu proprio il presidente Wilson a stabilire che la festa venisse celebrata la seconda domenica di maggio (visto che in quel periodo dell’anno era morta Ann Jarvis), data che venne poi adottata da molti altri Paesi.

Cari Lettori, parlare della Mamma è come voler racchiudere, nel palmo di una mano, l’acqua di un oceano.

Non a caso, Massimo Recalcati ci ricorda che la madre è sempre una madre “multiforme” che “contiene in sé” tantissime possibilità.

Un tempo si diceva che la mamma era l’angelo del focolare e la si “chiudeva” brillantemente così.

Da parecchi decenni questa fondamentale figura (e la sua indispensabile “funzione”) é stata analizzata da molte angolazioni.

Abbiamo, per questo, non più solo la “mamma angelo”, ma anche la “mamma coccodrillo”, non solo la madre della sentenza inappellabile, ma anche la madre che sa perdere il proprio figlio, non solo la mamma che accudisce ma anche la moglie, la donna (che pensa a se stessa)… e si potrebbe continuare per un bel po’.

Per molti, ancora oggi, la mamma è tale perché “genera”: “Vuolsi così, colà dove si puote e più non dimandar”.

La questione, invece, è molto più articolata e complessa.

La madre non è solo una semplice “generatice” ma è L’ALTRO che si prende cura dei figli.

La madre è autenticamente tale attraverso la “cura”: è, infatti, quest’ultima che restituisce al figlio la sua peculiarità.

È assai noto l’episodio biblico di Salomone e delle due madri che si contendono un figlio, ognuna presentandosi come madre autentica.

Salomone osserva che, per risolvere la controversia, il bambino va “diviso” fisicamente in due (con l’ausilio di una spada) per accontentare entrambe.

“Prendete per me una spada! Tagliate il bambino in due e date la metà a una e la metà all’altra!”

Solo di fronte alla possibilità della morte reale del figlio, una delle   due   madri (la madre del “dono”) cede, dichiarandosi   disposta   a   rinunciare   al   riconoscimento   della   proprietà   del   figlio   per salvaguardarne la vita.

È disposta a perdere il proprio figlio purché lui possa vivere la sua vita.

Solo chi sa perdere chi ha generato. può essere una madre autentica. È questa, infatti, la prova più grande che attende ogni madre: lasciar andare il figlio dopo averlo generato e accudito, donargli la libertà come segno dell’amore (Massimo Recalcati)

L’altra madre (quella dell’invidia), resta “bloccata”  e sarebbe  soddisfatta  dall’avere  anche solo  una parte morta del figlio  pur di continuare a  possederlo. 

Cosa ci insegna questo racconto del “primo libro dei Re”?

Non solo che  la differenza tra  le due  madri  tocca  il rapporto   sottile   tra   la   messa al mondo (la generazione)   e   la   libertà ma, anche, dimostra come ogni figlio debba sempre confrontarsi con due madri.

Quella del “seno” che, agendo secondo il proprio concetto di possesso, di “avere”, offre quello che ha (e “trattiene”) e quella del “segno”, la quel si muove secondo la propria “mancanza”, offre (simbolicamente) quello che non ha, facendo sentire il proprio figlio come insostituibile. È questo “segno” che può riconoscerlo come soggetto, separato e non di sua proprietà.

Ogni madre porta con sé la madre disposta, per amore, a separarsi dal proprio frutto e la madre che, invece, rivendica un diritto di possesso esclusivo su chi ha generato.

Una madre sufficientemente buona è una madre che sa donare al figlio quello che non ha, far sentire al figlio che la sua nascita ha trasformato in modo irreversibile il mondo. La generazione è far ricominciare il mondo. (Massimo Recalcati)

Nel secolo scorso, questo episodio biblico ha ispirato un dramma di Bertolt Brecht: Il cerchio di gesso del Caucaso.

Il bambino è in un cerchio e le due donne devono tirarselo ognuna dalla sua parte.

La madre del “segno”, per paura di far male il figlio, abbandona la presa. Anche in questo caso. preferisce perderlo piuttosto che vederlo straziato.

La madre del “seno”, infatti, sviluppa un tal senso di proprietà sul figlio che da madre chioccia si trasforma in madre coccodrillo: quasi, simbolicamente, cannibalica.

Infatti, avendo contribuito a soddisfare i suoi bisogni primari, ritiene di avere totalità di diritti sul figlio e, ogni volta che, quest’ultimo, cerca di volare alla ricerca della sua autonomia, gli tarpa le ali.

La madre equilibrata (“sufficientemente buona”, del “segno”) offre al bambino il sentimento della sua unicità e irripetibilità, aiutandolo a prepararsi la propria strada che è solo sua e di nessun altro.

La vera madre non deve essere solo madre ma, anche, donna.

La maternità non deve uccidere la femminilità semmai la deve esaltare in modo nuovo e più completo.

La gestante accoglie dentro di sé per nove mesi il figlio e poi lo allontana da sé, con dolore e, nello stesso tempo, con gioia, perché comprende “ancestralmente” che, chi nasce, non è possesso perenne di nessuno ma rappresenta una vita in divenire, alla ricerca del suo irripetibile percorso esistenziale.

Il bambino ha bisogno di aiuto per crescere in autonomia e avverte la basilare importanza della mamma nella prima fase della sua esistenza.

Il contatto tra i due è fondamentale. La mamma lo abbraccia e lo protegge.

Eccomi.

Tieni un capo del filo, con l’altro capo in mano io correrò nel mondo. E se dovessi perdermi tu, mammina mia, tira. (Margaret Mazzantini)

E le mani che raccolgono, sono le mani materne. Esse accolgono all’inizio della “storia” ma, un domani, saranno le stesse che allontaneranno da sé il figlio, invitandolo amorosamente ad affrontare i marosi dell’esistenza.

Volendo riepilogare e, al tempo stesso, approfondire…

Madre è un termine comune a quasi tutte le lingue del mondo e significa “misuratrice, ordinatrice”, da cui tutto trae origine, in maniera ordinata. Ecco quindi, che, etimologicamente, identifica “ciò che produce”“che contiene” e, quindi, porta in sé, la sorgente, la causa prima.

E allora, forse è per questo che di fronte ad un pericolo, ognuno di noi esclama, inconsapevolmente e irrefrenabilmente: “Oh… mamma mia!”. Che diventa “Oh, Madre mia!” quando siamo avvinti da un grande dolore, o dal vuoto dell’angoscia esistenziale.

Ecco perché, quando allentiamo l’abbraccio da questa generatrice e, osservandola allontanarsi scendendo verso quel Gange che è l’epilogo della vita terrena, ci sentiamo così precari.

Oh, Madre mia!

il termine precario deriva dal latino e identifica una posizione ottenuta, a seguito di preghiera, per concessione altrui e, di conseguenza, condizionata (nella qualità e nella durata) dalla volontà del concedente.

Il concedente…

Ciascuno di noi viene concepito e cresce in un mondo femminile che, fisicamente (quindi, senza voler mancare di rispetto ad alcuna), può essere definito come un “contenitore attivo equivalente ad un terreno di coltura capace di induzione epigenetica, anche se condizionato dall’esterno”. Cioè, un organismo in grado di fornire tutto quello che serve (dalle primordiali frequenze di oscillazione elettromagnetica, all’aria, al cibo…) per far si che, cellule a forma di mora, diventino un bambino!

Quel che resta insostituibile della madre è la testimonianza che può esistere ancora, nel nostro tempo, una cura che non sia anonima, una cura che ami il particolare più particolare del soggetto, una cura capace di accogliere la rugiada che viene alla luce del giorno… Ed è proprio questo amore che la maternità (nonostante tutte le trasformazioni ipermoderne che ne hanno modificato la fenomenologia) ha il compito di custodire. Massimo Recalcati – Le mani della madre)

Quanto espresso da Massimo Recalcati, sulla scorta delle riflessioni di Jacques Lacan (come ho avuto già modo di precisare) era stato, a suo tempo, intuito da Carl Gustav Jung con il concetto di Inconscio collettivo e Inconscio Individuale e spiegato dal dott.  Giovanni Russo con il concetto di Energia Universale condensata nell’Energia Vitale Umana:

Cioè, sostanzialmente, l’evoluzione (nell’arco di tempo compreso dal Big Bang per oltre 15 miliardi di anni, fino ai giorni nostri) degli elementi fondamentali dell’Universo (l’Energia vitale sotto forma di gas, polvere di stelle, etc. governata e “istruita” da elettromagnetismo, gravitazione, interazione forte e debole) è stata condensata nel nostro DNA.

Questo filamento a doppia elica che dà vita ai cromosomi deve essere inteso, quindi, come un enorme deposito di informazioni che si sono modificate in milioni di anni per consentirci di apparire sotto forma umana, in grado di funzionare, per ciò che è indispensabile (duplicazione cellulare, metabolismo, impulsi nervosi, “istinti pulsionali”) a prescindere da modelli educativi impartiti.

In pratica è come se, Madre Natura, avesse plasmato (dai primi batteri fino alle forme di vita più evolute) le trasformazioni necessarie a dar luogo ai “complessi” e “articolati” Esseri Umani i quali, alla stregua di un Computer appena comprato, sono in grado di funzionare (per le elementari ma fondamentali operazioni inconsapevoli) grazie ad un sistema operativo installato dal “Costruttore/Costruttrice Madre” che verrà, in seguito, arricchito di programmi dall’ambiente (Famiglia, Scuola, Società in generale) capaci di attivare la nostra capacità di contestualizzarci in maniera consapevole.

L’ARCHETIPO, dunque, è il sistema operativo capace di “guidare” il nostro sviluppo embrionale intrauterino (in pratica quando da una cellula indifferenziata, lo zigote, un po’ alla volta diventiamo piccoli esseri umani pronti a venire al mondo).

Almeno all’inizio della nostra vita extrauterina, ci leghiamo fortemente alla mamma (riconosciuta per via degli odori e degli umori… ma non solo) come fonte primigenia di vita e di appartenenza.

Nel prosieguo, in base alla corretta estrinsecazione o meno dei vari fattori di attaccamento, molto del carattere materno, condizionerà le nostre scelte sul piano, soprattutto, del rapporto con il potenziale compagno (di vita o del momento).

Ma perchè la mamma è così importante?

Perchè, per ognuno di noi è “casa”; infatti, siamo cresciuti in lei e conosciamo, di lei, anche quello che, a lei, è nascosto (la sua frequenza respiratoria, la peristalsi intestinale, gli equilibri idroelettrolitici del liquido amniotico, i rilasci ormonali…. la sua vita più intima, insomma, proprio dal di “dentro”).

Ecco perchè, alla nascita, noi cerchiamo quella “cosa” che ci ricorda la “casa”.

Moderni studi di psicobiogenetica delle cure maternali, hanno dimostrato l’assunto della “memoria implicita delle esperienze” di D. Winnicot per cui si è arrivati a comprendere che, quando la “casa” (in questo caso, le attenzioni materne fin dai primi istanti della nostra venuta al mondo) è troppo accogliente o troppo poco accogliente, ci sentiamo oppressi o abbandonati.

Per essere aiutati a “crescere”…

Una mamma “sufficientemente buona” dovrebbe, prima far credere al bambino di avere un potere immenso su tutto e, dai due/tre anni di vita in poi, “disilluderlo” aiutandolo ad accettare il fatto che, senza impegno, non otterremo alcun risultato.

Tu non sei più vicina a Dio di noi: siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende, benedette le mani. Nascono chiare in te dal manto, luminoso contorno: io sono la rugiada, il giorno…. ma, tu, tu sei la pianta” (Rainer Maria Rilke – “Le mani della Madre”)

Le mani non sono, forse, il primo volto di quel primo soccorritore all’esordio traumatico della nostra vita e che ci salva dal precipizio dell’insensatezza, che è nostra Madre?

La mano che fa dondolare la culla è la mano che regge il mondo. (William Ross Wallace)

In funzione di quanto abbiamo percepito e accettato l’idea che la mamma non è proprietà esclusiva e che, anzi, rappresenta un elemento esterno a noi (costanza dell’oggetto), l’angoscia che ne consegue, la scarichiamo addosso a lei e alle figure femminili di riferimento (psicologicamente o fisicamente) oppure ce la teniamo dentro, nell’attesa di una Donna adeguatamente “responsiva”, in grado di ricordarci la reverie materna

Ed è per questo che, come scritto qualche rigo più sopra, ogni volta che ci si trova in difficoltà, l’espressione più usata è “Oh, Madre mia!”

 La ballata delle madri (Pier Paolo Pasolini)

“Mi domando che madri avete avuto. Se ora vi vedessero al lavoro in un mondo a loro sconosciuto, presi in un giro mai compiuto d’esperienze così diverse dalle loro, che sguardo avrebbero negli occhi? Se fossero lì, mentre voi scrivete il vostro pezzo, conformisti e barocchi, o lo passate, a redattori rotti a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri servili, abituate da secoli a chinare senza amore la testa, a trasmettere al loro feto l’antico, vergognoso segreto d’accontentarsi dei resti della festa. Madri servili, che vi hanno insegnato come il servo può essere felice odiando chi è, come lui, legato, come può essere, tradendo, beato, e sicuro, facendo ciò che non dice.

È così che vi appartiene questo mondo: fatti fratelli nelle opposte passioni, o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo a essere diversi: a rispondere del selvaggio dolore di esser uomini”

Con questi versi, Pier Paolo Pasolini esprime il legame “fortissimo e mostruoso” di una madre coi propri figli nell’insegnar loro un ”dolore” così immenso come quello di diventare Uomo.

Cari Lettori, partendo da questa “ballata” e agganciandoci alla particolare immagine di copertina, potremmo concludere che non trascurabili problemi si pongono quando, crescendo, il fanciullo scopre che la madre non è solo sua madre ma, per motivi storici, occupa un ruolo che la rende, nello stesso tempo, vicina e lontana.

È il caso del re di Inghilterra, Carlo III, che per decenni è stato oscurato vivendo una vita umbratile e, per vari versi, infelice. Ora giunto in età veneranda viene chiamato a compiti ardui e gravosi, senza aver potuto interpretare il suo ruolo al momento giusto.

Quando Elisabetta fu incoronata, nel 1953, partì per un lungo viaggio in giro per il mondo. I figli Carlo e Anna, che allora avevano 5 e 3 anni, non la rividero che cinque mesi dopo.

In questo spaccato di realtà, è condensato il rapporto che ha legato la regina Elisabetta II ai suoi quattro figli: Carlo, Anna, Andrea ed Edoardo.

Nascere in una famiglia reale significava nascere praticamente senza genitori (Antonio Caprarica)

I biografi hanno spiegato come questi “particolari” figli potessero vedere i genitori solo per pochi minuti al giorno, prima che questi s’immergessero negli affari di Stato o dopo la cena. Carlo ha più volte detto, con  amarezza, come siano state le tate a insegnargli a giocare, a punirlo e a premiarlo quando necessario, ad aiutarlo a trasformare i suoi primi pensieri in parole…

Eppure, lo stesso Carlo, nell’occasione degli 80 anni di lei, nel 2006, la chiamò pubblicamente e con orgoglio “Darling mama”

Ho una memoria vivida di molti anni fa, prima dell’incoronazione, quando veniva a dire buona notte a me e mia sorella con la corona in testa, in modo da abituarsi al suo peso. Ricordo l’eccitazione di quando la raggiunsi con lo yacht reale, il Britannia, durante il tour del Commonwealth nel 1954 (Carlo III d’Inghilterra).

Particolarmente materne e affettuose, le parole che la Regina pronunciò per i 70 anni del primogenito, nel 2018:

Filippo e io abbiamo visto Carlo diventare un campione in fatto di arte, un grande leader caritatevole, un erede al trono rispettato, un uomo appassionato e creativo”.

Cari Lettori, in questo editoriale celebrativo ci siamo ispirati (come d’abitudine) agli autori più autorevoli. Vorremmo concludere questa passeggiata ricordando a tutti noi che, alla fine dei conti, è un obbligo morale quello di rendere giustizia a una figura così carica di responsabilità come quella materna e, per rispendere una riflessione di Massimo Recalcati,   madre non è il nome della genitrice, ma, al di là della Natura, al di là del sesso e della stirpe, è il nome di quell’Altro che offre le proprie mani alla vita che viene al mondo, che risponde alla sua invocazione, che la sostiene con il proprio desiderio.

Bisognerebbe provare a essere giusti con la madre e riconoscere, nelle sue mani, un’ospitalità senza proprietà di cui la vita umana necessita  

A queste condizioni, ci piace immaginare il Carlo d’Inghilterra che potrebbe albergare un po’ in tutti noi, “cantare” il dono del respiro materno, come la possibilità che la vita abbia un inizio e che possa, ogni volta ricominciare”.

Dieci dita

Io sono te però più vecchio

E un passo indietro o un pezzo avanti

Non si sta insieme mai parecchio

Cosicché che gli anni sono istanti

Sopra le spalle o dentro un secchio

E un po’ di meno lì davanti

Non fidarti solo di uno specchio

Né di tutti quanti io

Non saprò mai cosa si dice

A uno che ti somiglia tanto

Che cresce da una tua radice

Dove la gioia beve il pianto

E a quella stessa cicatrice

Che fa il rimorso sul rimpianto

Cerca sempre di essere felice

E non ti manchi mai l’incanto

Alza il capo e dà un occhio all’orizzonte

Finché hai un’anima e un brivido di fronte

Ridi a questo cielo che ti può svegliare

E gioca finché hai un grido e un mare da nuotare

Finché ritrovi un nido e un fuoco in mezzo al gelo

Su questa scena di passaggio

Noi due senza bagaglio appresso

E a un altro si può far coraggio

Quel che non sai dare a te stesso

Ma qualche volta invia un messaggio

Per dirmi che non hai più smesso

Non stancarti mai di questo viaggio

Guarda che hai promesso tu

Il primo abbraccio che mi viene in mente

Che andrà via sempre troppo presto

Vedi di non sprecare niente

Se anche puoi avere tutto il resto

Che non si campa inutilmente

Quando ogni giorno è in modo onesto

Prova a voler bene all’altra gente

Che non è facile per questo

Tieni il fiato e fa un battito più forte

Finché hai un’isola e una speranza in sorte

Spingi questo tempo finché puoi lottare

E corri finché hai sete e fede per andare

E vola senza rete che ti sorregge il vento

Quando ti ridesti in un soffio strano di cambiamento

Il respiro immenso di una tempesta

Un sottile affanno da struggimento

Come un fischio in testa anche il rischio è appena un momento

Salta il buio e va e punta dritto al sole

Finché hai musica e un pugno di parole

Vivi questa vita finché puoi suonare

E sogna finché hai voce e amore per cantare

Che ancora non sei in croce se hai un cuore e dieci dita

“Il bambino chiama la mamma e domanda: Da dove sono venuto? Dove mi hai raccolto? La mamma ascolta, piange e sorride mentre stringe al petto il suo bambino: Eri un desiderio dentro al cuore” (RABINDRANATH TAGORE)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Eugenio Filice (per averci suggerito di parlare di Elisabetta e Carlo d’Inghilterra) e ad Amedeo Occhiuto, per la preziosa collaborazione,

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