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Pubblicato su Lo SciacquaLingua

Come imparammo a suo tempo, a scuola, i verbi italiani si dividono in tre coniugazioni.  Appartengono alla prima i verbi il cui infinito presente finisce in “-are” (amare); alla seconda quelli il cui infinito finisce in “-ere” (credere); alla terza, infine, i verbi che terminano in “-ire” (sentire).      Alcuni, però, hanno una terminazione particolare in quanto si discosta da quella delle tre coniugazioni;  sono  verbi, che chiameremo “strani”, il cui infinito presente finisce in “-arre”, “-orre” e “-urre”. Tra questi i piú comuni sono “trarre”, “porre” e “condurre”.  Come classificarli, dunque? A quale coniugazione appartengono? Tutti e tre alla seconda perché sono le forme contratte del latino “tràhere” (trarre), “pònere” (porre) e “condúcere” (condurre). 

A questi bisogna aggiungere “fare” e “dire” – entrambi appartenenti alla seconda coniugazione, nonostante qualche grammatico (“saccente”) dissenta – perché anch’essi sono le forme sincopate dei verbi latini “facere” e “dicere”. Qualche osservazione, ora, sui verbi (sempre della seconda coniugazione) “tacere”, “piacere” e “giacere”. 

I suddetti verbi, dunque, presentano una particolarità che la maggior parte delle grammatiche non riportano: il raddoppiamento della consonante “c” – nonostante il tema o radice ne contenga una sola – in alcune persone del congiuntivo e dell’indicativo. Perché, dunque, questo raddoppiamento improprio? La motivazione è “storica” e va ricercata nel fatto che il nostro idioma è un “miscuglio” di dialetti. La prima persona plurale del presente indicativo e congiuntivo di ‘tacere’ (ma anche di ‘giacere’ e ‘piacere’) – noi tacciamo – ha subíto l’influenza del dialetto meridionale che – al contrario di quello settentrionale, veneto in particolare – tende al raddoppiamento delle consonanti. Si dica e si scriva, dunque, noi ‘tacciamo’ nell’accezione di “fare silenzio”, nessuno potrà essere ‘tacciato’ (accusato) di ignoranza linguistica, anzi…

A cura di Fausto Raso

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