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Pubblicato su Lo SciacquaLingua

Oggi vogliamo parlare di un termine linguistico poco conosciuto perché ignorato dai sacri testi o, per lo meno, non trattato sufficientemente: la diatesi.

Non lasciatevi “intimorire” dal nome, che forse sentite per la prima volta, l’argomento è piú semplice di quanto si possa immaginare. Con il termine “diatesi”, tratto dal greco “diàthesis”, derivato di “diatithémai” (’disporre’), composto di “día” (attraverso) e “dithèmai” (porre), si intende il genere del verbo e la sua “disposizione” attraverso le sue flessioni. Cerchiamo di spiegarci meglio. La diatesi indica la categoria grammaticale del verbo che esprime il rapporto di relazione che intercorre tra il verbo stesso e il soggetto agente e a cui corrisponde una flessione verbale specifica. La diatesi, insomma, in termini “terra terra”, è la comune forma di un verbo, che può essere attiva, passiva e riflessiva e indica – come si diceva – il rapporto del verbo con il soggetto e l’oggetto. Semplice, no? La diatesi è attiva, quindi, quando il soggetto coincide con l’agente dell’azione (il medico visita l’ammalato); passiva quando l’agente non è il soggetto stesso (il malato è visitato dal medico); riflessiva quando l’azione ricade sul soggetto che diventa, nello stesso tempo, oggetto (Giulio si lava).La diatesi passiva e quella riflessiva – ci sembra superfluo ricordarlo – si possono avere solo con i verbi transitivi: lodare, “sono lodato” (diatesi passiva); lavare, “mi lavo” (diatesi riflessiva). A questo punto non si confonda, per carità, la diatesi linguistica con quella medica (l’”origine etimologica” è la medesima), che è la “disposizione”, vale a dire la capacità individuale di ogni corpo a contrarre, sopportare e superare ogni malattia. Da parte nostra, cortesi amici, ci auguriamo che voi siate in grado di “diatesizzare”, cioè di sopportare pazientemente le nostre modeste disquisizioni sulla lingua.

A cura di Fausto Raso

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