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La prima stesura di questo articolo risale al 15 aprile 2015. A distanza di poco più di sette anni si è ritenuto di riproporne l’interessante tematiche, opportunamente arricchita nella forma e nei contenuti.

BUONA LETTURA

“Se mi vuoi, sono esattamente come te, posso darti tutto quello che ho… però! Se mi vuoi, prova a chiedermi una carezza, per scoprire che la paura è una certezza. E sale e sale e salirà, quest’ansia che ci unisce… E passa ma non passerà quest’attimo che cresce. Amarsi ancora, ma senza tempo…
Se mi vuoi, ho bisogno di una mano anch’io, ho il tuo sguardo che mi stringe da un po’. Però, se mi vuoi, manda via questa tristezza perché la vita passa in fretta” (Pino Daniele).

Paura: emozione, spesso improvvisa, che si determina in relazione a situazioni o nei confronti di persone o cose che costituiscono pericolo o che vengono avvertite come minacciose e che comporta turbamento, smarrimento, ansia.

“Soltanto una cosa rende impossibile un sogno: la paura di fallire” (Paulo Coelho).

ESISTE UN RAPPORTO FRA LA PAURA E LA RIDUZIONE DELLA STIMA DI SE’, CHE GENERA INSICUREZZA?

C’è un rapporto di dipendenza diretta in quanto che, la riduzione della stima di sé e la difficoltà in merito a sensazioni di insicurezza, amplificano lo stato d’animo che poi genera la paura e, di conseguenza, si innesca un meccanismo tutt’altro che virtuoso ma un po’ perverso, a seguito del quale si amplifica lo stato di tensione che sfocia in ansia ed anche in qualcosa di più.

Stiamo discutendo, in fondo, di tutto quello che gira intorno alla paura e di ciò che rappresenta il mondo delle emozioni che si determinano a seguito di questo stato d’animo che abbiamo imparato a conoscere e riconoscere fin da quando eravamo bambini; infatti, chi di noi non ricorda con interesse e comunque con viva sensazione di partecipazione, a volte conflittuale, tutte quelle favole che si accompagnavano a sensazioni di paura? Quante angosce per via di quell’uomo nero pronto a portarci via!

Ma, poi, perché “nero”?

Avrebbe potuto essere di qualunque altro colore! Il nero, è qualcosa che ci impedisce di scoprire cosa c’è dietro quell’angolo al di là del quale si trova la nostra strada chiamata “domani”. Il nero, come colore, attira tutti i fotoni della luce solare o artificiale e non ne restituisce alcuno; di conseguenza è come un sipario scuro oltre il quale non si riesce ad andare: ecco perché si innesca e si instaura la paura generando, tra l’altro, una scia di “fantasmi nel sottosuolo dell’inconscio”.

“Volta il viso verso il sole e le ombre cadranno dietro di te”. (Proverbio Maori)

IN DEFINITIVA, CHE COS’È LA PAURA E PERCHÉ NOI NON GRADIAMO LA SENSAZIONE DI PAURA?

La paura è, sul piano neuropsicofisiologico, una condizione di allarme. Infatti, ogni qual volta noi temiamo di trovarci di fronte ad un pericolo (che poi sia reale o presunto tale, poco importa) si genera un aumento di quella tensione interna “fisiologica” che, a livello basale, ci accompagna durante tutto l’arco della giornata grazie all’attivazione del sistema neurovegetativo, soprattutto per ciò che concerne la componente ortosimpatica.

Tale condizione di metabolismo basale è indispensabile in quanto ché equivale (operando un paragone automobilistico) ad avere un motore costantemente acceso in maniera tale da essere sempre pronti a partire quando la necessità lo richieda.

Solo che, questo, ha il suo rovescio della medaglia, perché siamo pronti a scattare, a volte, per un nonnulla. Ciò dipende da quanto gli eventi della giornata, poi, si sommano a quella condizione di tensione fisiologica e ci complicano la gestione delle emozioni dal momento che, superato un certo livello di sopportazione, il sistema neurovegetativo (che si divide in due parti essenziali: la componente che attiva e ci prepara allo stress e quella che invece ci mette in condizioni di rilassarci) si stara e, di conseguenza, finiremo col trovarci in una condizione di intensa accelerazione che è quasi continua nell’arco delle ventiquattro ore. Un simile “strapazzo”, più passa il tempo e meno saremo disponibili a sopportarlo.

Tornando al concetto di paura, il problema non è tanto la reazione d’allarme, perché è una condizione fisiologica (infatti gli individui che di, fronte ad un pericolo, non aumentano l’attenzione nei confronti di ciò che costituisce un elemento nuovo o comunque una condizione di apparente difficoltà, corrono il rischio di mettere a repentaglio la propria sopravvivenza, dal momento che un evento difficile non può essere trattato come una normale amministrazione a meno che, di professione non ci si trovi ad impattare contro condizioni complesse e “ad alta tensione” nei confronti delle quali si sviluppa un’abitudine) quanto, piuttosto, il modo di rapportarsi ad essa.

Iniziare un nuovo cammino spaventa. Ma, dopo ogni passo che percorriamo, ci rendiamo conto di come fosse pericoloso rimanere fermi”. (Roberto Benigni)

Quando l’attenzione è eccessiva, possiamo reagire attraverso tre grosse e importanti strade possibili: quella prevalentemente aggressiva (attraverso la fuga o l’attacco, ciò che in natura troviamo più spesso); quella di tipo affettivo (ad esempio, la paura di perdere l’affetto di chi ci circonda e la conseguente produzione di conflitti interiori); quella che prevede la manifestazione di perdita della propria stima.

Quante volte, ad esempio, produciamo dei sensi di colpa se ci troviamo di fronte situazioni in cui riteniamo di aver torto, di far soffrire qualcuno, di non essere stati all’altezza di una situazione…

COSA ACCADE IN QUEI CASI?

Si determinano condizioni “penose”, sul piano interiore, perché abbiamo imparato, fin da piccoli, a sentirci in difficoltà, credendo che a seguito delle nostre azioni qualcuno avrebbe sofferto; poi, magari, ciò non è accaduto, ma questo è quello che ci hanno insegnato. Di conseguenza, tenteremo di fuggire dalla situazione oppure, paradossalmente, di “aggredire” il contesto e le persone coinvolte; in tal modo è come se tentassimo di cancellare con una spugna, o con un cassino, il teatro delle operazioni.

Tutto questo, alla fine, comporterà una caduta sul piano della stima personale e, quindi, della sicurezza esteriore, nei confronti di altre situazioni che crediamo si possano evidenziare e nei confronti delle quali riteniamo (a questo punto e a giusta ragione) non essere in grado di mostrarci per ciò che, invece, sarebbe il sistema più adeguato.

La paura è inversamente proporzionale allo sviluppo dell’identità e della propria autostima?

Nessuna paura che mi calpestino. Calpestata, l’erba, diventa sentiero”. (Blaga Dimitrova)

L’autostima è l’apprezzamento che ognuno dà a se stesso, intendendo con tale termine la valutazione positiva delle qualità che vengono percepite come proprie. Questo meccanismo è attivato dal “rispecchiamento” materno (con cui si trasmette piacere e accettazione) e dalla sua responsività (che dimostra disponibilità).

Definiamo con identità, inoltre, la modalità con cui gli individui fanno esperienza di se’, anche in relazione agli altri determinando, di fatto, il rapporto che ognuno ha con se stesso rispecchiando i contenuti del suo mondo interno.

Ad esempio, un’esperienza interiore stabile e “integrata” di sé e degli altri, consente di “tollerare” meglio l’inevitabile ambivalenza di aspetti positivi e negativi presenti in ognuno. al contrario, un’identità “diffusa” (o “dispersa”) renderà meno adattabili nell’accettare le sfumature caratteriali, rendendo prigionieri di una visione del mondo per opposti: o completamente “bianco” o del tutto “nero”.

Di conseguenza, peggiore è il rapporto che si ha con la propria persona, più difficile è riuscire a dialogare con il proprio mondo interiore; è un po’ come camminare in due persone ma avere difficoltà di comunicazione: qualunque evento non può essere affrontato insieme, ma ciascuno si pone in maniera autonoma e non sempre questo giova alla risoluzione del problema, anzi, a volte lo complica.

Se un individuo si apprezza poco, è chiaro che ritiene di essere poco incline al superamento delle difficoltà, per cui il rapporto con se stesso è poco maturo e produttivo. Minore è l’autostima e, ovviamente, maggiore sarà la reazione d’allarme che noi chiamiamo “paura”; soprattutto, sarà più difficile gestire quella reazione d’allarme perché ci riterremo non idonei ad affrontarla in maniera adeguata.

Se credi di essere troppo piccolo, per fare la differenza, prova a dormire con una zanzara.(Dalai Lama)

IL SENSO DI COLPA, E’ LEGATO ALLA PAURA?

Premettendo che il senso di colpa (quando non è esagerato e pervasivo) nasce dal superamento del Complesso Edipico, è, comunque, legato alla paura in maniera diretta e indiretta. Infatti, il senso di colpa si genera in conseguenza della paura di far soffrire qualcuno a seguito di nostri errori; più ne siamo convinti e più la paura aumenta. Aumenta, infatti, la paura di doverci trovare nuovamente di fronte a situazioni simili: diventa un meccanismo concatenato con andamento circolare, addirittura ossessivo. Si utilizza il termine “ossessivo” perché, a volte, quando non si riesce a risolvere problematiche legate alla paura, la nostra mente è costretta ad affrontare le situazioni creando idee “circolari” (che girano in tondo) all’interno delle quali, paradossalmente, ci rifugiamo, per non pensare più all’incapacità di gestire situazioni come quelle appena descritte.

SI PUÒ AVERE PAURA DELLA PAURA?

Sembra un gioco di parole ma, dietro, c’è una profonda verità. Effettivamente, si può tollerare poco o male la reazione d’allarme generata dalla paura; infatti, le persone che producono ansia, che in alcuni casi può sconfinare in condizioni più pesanti quali i disturbi di panico, avvertono l’allarme in funzione dell’allarme fisiologico e quindi hanno paura di affrontare le situazioni più difficili.

Tutto questo implica un’accelerazione di preoccupazione, con uno stato di stress che diventa sempre più incandescente, sino al punto di non riuscire più a gestirlo.

IL SENSO DI COLPA CHE RENDE LA VITA “DIFFICILE” (RENDENDOLA PIENA DI CONFLITTI) FA PARTE DA SEMPRE DEL “PACCHETTO” ESSERE UMANO?

No. Dipende dall’ambiente in cui noi siamo cresciuti, da chi ci ha impartito quest’insegnamento, tramite parole, spiegazioni, rimproveri e, soprattutto, con il modo di agire; infatti, se, sin da bambini, siamo stati a stretto contatto con persone che producevano sensi di colpa, abbiamo acquisito (come spugne) quei pacchetti software comportamentali, che sono entrati nella nostra memoria e che entreranno in gioco ogni qual volta si instaureranno delle condizioni un po’ al limite.

“I delitti sono proporzionati alla purezza della coscienza, e quello che per certi cuori è soltanto un errore, per alcune anime candide assume le proporzioni di una mostruosità”. (Honoré De Balzac)

In pratica, di fronte a nostre scelte, in base alle quali presumiamo che qualcuno resterà male, creiamo dei sensi di colpa a causa del dispiacere. E’ chiaro che entrerà in gioco anche una gestione non corretta dell’aspetto affettivo, in questi casi vuol dire che si è ricchi di affettività di tipo conflittuale.

Come si può gestire un tale circolo vizioso?

L’importante è sapere, con onestà, che ciò da noi compiuto era il massimo delle nostre possibilità in quel momento; di conseguenza, di più non poteva essere proposto. A queste condizioni, non possiamo sentirci in colpa.

CI SI PUÒ LIBERARE DAI SENSI DI COLPA “MOLESTI”? E SE SÌ, COME?

E’ una domanda interessante, perché è un problema che coinvolge tantissime persone; basta capire perché si generano i sensi di colpa.

E’ ovvio che abbiamo imparato a generarli perché, quando eravamo piccoli, abbiamo ritenuto corretto il comportamento di persone che consideravamo stimabili, le quali ci hanno insegnato che sentirsi in colpa è un gesto di responsabilità. Per questo è necessario operare una valutazione logica e stabilire, in funzione del danno che abbiamo provocato, la reale condizione di oppressione conseguente alla responsabilità. Ad esempio, se ho premuto un tasto ed ho ucciso una persona perché magari si è aperta una botola, è logico sentirsi in colpa, dato che ho privato questo individuo della vita (anche se, comunque, bisognerebbe valutare il grado di “intenzionalità consapevole”).

Invece, quando qualcuno non è contento di quello che dico o di ciò che ho fatto, posso, semmai, mettermi in condizioni di valutare se sono stato corretto nel rapporto con me stesso. Mi basta anche sapere, come ho detto prima, che era il massimo che potessi esprimere in quel momento; ovviamente, non è un modo per nascondersi e trovare delle giustificazioni da sostenere ad ogni piè sospinto e cioè, affermazioni del tipo “io sono fatto così, prendere o lasciare; in questo momento sono così e non posso fare di meglio”, ma bisogna mettersi in condizione di poter essere diversi in maniera incrementale sul piano positivo. Quindi, se oggi ho dei limiti, domani ne avrò di minori e dunque, creerò meno problemi a me e agli altri.

In questo modo, conciliando con se stessi ed esprimendo uno spirito critico ma costruttivo, si affronta la vita per ciò che concerne gli obiettivi a breve, medio e lungo termine; soprattutto, si rende il rapporto con gli altri più a dimensione umana.

L’assenza di paura non significa arroganza. Quest’ultima è, in se stessa, un segno di paura. L’assenza di paura presuppone la calma e la pace dell’anima. Per ottenere ciò, è necessario avere una viva fede in ciò che, credi, sia giusto fare. (Gandhi)

LA PAURA CI ACCOMPAGNA TUTTA LA VITA?

Ci sarebbe da augurarselo perché, altrimenti, vorrebbe dire che siamo poco curiosi e poco interessati a quello che la realtà ci propone.

Dal momento che la paura è una reazione d’allarme e l’allarme si determina quando attiviamo i circuiti relativi all’attenzione, questa significa che siamo attenti e accorti a quello che ci viene dal mondo esterno, ma anche ad alcune sensazioni del nostro mondo interno; magari, siamo anche interessati ad affrontarli nella giusta maniera per cui, anche se l’idea di essere accompagnati dalla paura tutta la vita potrebbe crearci un senso di angoscia, vista nella maniera corretta ci stimola a diventare migliori e si trasforma in una sorta di garanzia che ci “costringe” ad operare delle scelte concrete in grado di condurci alla maturazione e alla saggezza.

E se sono gli altri che ci fanno sentire in colpa?

Dipende sempre da come noi “viviamo” gli altri: una persona può provare ad instillare dei dubbi su di noi o in noi, facendoci pensare in maniera conflittuale; poi, però, attraverso una valutazione logica, tutto questo può essere risolto, dal momento che siamo capaci di riuscire a solidarizzare, in maniera corretta, con noi stessi e, quindi, capaci di proteggerci perché la stima di noi è garanzia di risultato positivo, per noi e per gli altri.

E se l’altro non si sa adattare, non si rischia di pregiudicare i rapporti affettivi?

Questa è un’affermazione realistica. Vorrei, però, aggiungere alcuni elementi omessi: il fatto di non generare dei sensi di colpa, anche se qualcuno prova a lamentarsi dei nostri comportamenti, non vuol dire che dobbiamo rifiutare (magari violentemente) l’altro.

Bisogna avere il coraggio di cercare la verità, nella realtà, senza la paura della solitudine. (Giovanni Russo)

Noi possiamo essere disponibili (ovviamente quando ce la sentiamo) a dialogare e a ragionare per mettere in condizione chi soffre per causa nostra di capire che, in realtà, un accordo può essere raggiunto attraverso, magari, un maggior rispetto da parte sua nei nostri confronti. A volte, infatti, veniamo messi nelle condizioni di dover scegliere tra il far soffrire qualcuno o soffrire noi stessi; quando, invece, non dovremmo trovarci in circostanze simili: c’è sempre una soluzione, basta essere d’accordo nel volerla cercare.

Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella “zona grigia” in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva. Bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi. (Rita Levi Montalcini)