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Più o meno 34 anni fa, “entrava in servizio permanente” una molecola che ha creato una svolta nelle prescrizioni degli psicofarmaci: la Fluoxetina, commercialmente conosciuta, col nome di Prozac (diventato tanto comune tra le persone, da essere inserito nell’Oxford English Dictionary)

Con questo farmaco (il capostipite di una lunga serie di “nipoti”) ci si è mossi, neurologicamente parlando, per cercare di migliorare l’efficacia (ritardandone l’assorbimento) di un neurotrasmettitore chiamato serotoninina che, quando “dialoga” con l’ipotalamo, determina la percezione di un umore migliore.

Una soluzione definitiva per la depressione?

Niente più vuoti esistenziali, paure immotivate e improvvise, lunghe notti insonni e lente ma, inesorabili, discese verso i gradini dell’inferno emotivo?

Diversi esperti, ancora oggi, ammettono di non aver mai accettato completamente la soluzione chimica della depressione: basti ricordare le parole trancianti di Inving Kirsch (Docente di Medicina alla Harvard Medical School e al Beth Israel Deaconess Medical Center,  professore emerito di psicologia all’Università di Hull e Plymouth nel Regno Unito e all’Università del Connecticut negli Stati Uniti) che paragonò l’effetto del farmaco a quello di un semplice placebo.

Eppure, nel Mondo, più di 40 milioni di persone assumono medicinali che ritardano (come la Fluoxetina, appunto) il riassorbimento della serotonina.

Non possiamo non tener conto, inoltre del fatto che, comunque, al di là della soluzione terapeutica adottata (sia essa chimica, legata alla psicoterapia, al counseling o, ancora, alla combinazione dei diversi approcci), la depressione rappresenta, oggi, una condizione sempre più diffusa, nel Mondo del (post?) COVID…

Lo provano i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco: gli antidepressivi sono al quarto posto tra le diverse classi di medicine da prescrizione. Ciò che più allarma è, sicuramente, il trend di consumo di questi farmaci: in dieci anni si è passati da 8,18 dosi giornaliere per 1000 abitanti alle 50 per mille del 2017, fino ad arrivare alle quasi 100 dei giorni nostri.

Qui, qualcosa, non quadra.

Si potrebbe affermare che, aumenta il consumo di antidepressivi perché, oggi, il disturbo viene diagnosticato con maggiore perizia. Rimane il fondato sospetto, comunque, che sempre di più, ogni volta che proviamo a connettere il cervello nella risoluzione dei problemi del quotidiano o, peggio, per ipotizzare strategie atte ad affrontare pianificazioni a medio – lungo termine, la risposta, in termini di stato dell’umore, vira verso le perturbazioni più “nere”.

D’altronde, la psicoanalista Melanie Klein ha spiegato (proseguendo gli studi di Freud) che il bambino nei primi mesi di vita, passa da una ”posizione” mentale nella quale crede di poter dividere il mondo in buoni e cattivi (definita “schizoparanoide) ad un’altra nella quale si accorge che in ognuno c’è, al tempo stesso del buono e del cattivo (posizione depressiva). A quel punto, comincia a farsi strada il timore di poter danneggiare la parte “buona” con i propri sentimenti di ambivalenza e si sviluppa la percezione che, qualcosa, muoia dentro, ogni giorno un po’ di più. Siccome il riferimento affettivo è dato dal legame con la propria madre, questo sentimento di angoscia si proietta sull’immagine di lei generando la paura di perderla.

Questa, secondo la teoria della Klein, creerebbe i presupposti, nel bambino come nell’adulto, della depressione cosiddetta endogena.

Freud  stesso, fina dal 1920 aveva descritto la differenza fra il lutto (che è conseguente alla perdita reale di qualcosa o di qualcuno e può essere elaborato e metabolizzato)  e la melanconia (che rappresenta un lutto senza fine e senza la possibilità di elaborazione) che è connotata da un profondo e doloroso scoramento, disinteresse per il mondo, perdita della capacità di amare con avvilimento del sentimento di sé, che culmina nell’attesa delirante di una punizione.

In tempi più moderni, lo psicoanalista francese Paul Claude Racamier, ha parlato di LUTTO ORIGINARIO, che  costituisce la traccia ardua, viva e durevole di ciò che si accetta di perdere come prezzo di ogni scoperta.

Il Lutto Originario ci riporta ai primi momenti della nostra vita quando abbiamo simbolicamente voltato le spalle ad una Madre “indistinta” (una sorta di “atmosfera”) accettando di perderla ma, al tempo stesso, rimpiangendola, per ritrovare una madre esterna e distinta da noi, come un Oggetto esterno che desideriamo e del quale, nel tempo, introietteremo ciò che ci renderà solidi e tranquilli

“Grazie alla grande fiducia che abbiamo nella scienza, diamo ormai tutto per scontato. Si crede di sapere e non si sa. Viviamo come se, questo, fosse il solo dei Mondi possibili, un mondo che promette sempre una qualche felicità. Una felicità a cui ci avvicineremo con un progresso fatto sostanzialmente di più istruzione (che istruzione!), più benessere, e ovviamente più scienza. Alla fine dei conti, tutto sembra ridursi a un problema di organizzazione, di efficienza.

Che illusione!

Ma è così che ci siamo tarpati le ali della fantasia, che abbiamo messo il bavaglio al cuore, che abbiamo ridotto tutto il mondo al solo mondo dei sensi, peraltro obnubilati!” (Tiziano Terzani).

Racconta Tagore (il grande poeta bengalese) che, una sera, leggendo al lume di una candela, un saggio di Benedetto Croce, rimane all’improvviso al buio, per un improvviso colpo di vento: improvvisamente, la stanza, è invasa dalla luce della Luna.

Memorabili i suoi versi, in proposito: “La bellezza era tutta attorno a me, Ma il lume di una candela ci separava. Quella piccola luce impediva Alla bella, grande luce della luna di raggiungermi”.

A ben guardare, la nostra vita quotidiana è piena di piccole luci che ci distraggono dal renderci conto che, da qualche parte, ce n’è una più grande e più importante, che rappresenta, di fatto, l’emblema dei valori fondamentali.

Il campo di valutazione della nostra mente, si è ristretto in maniera ragguardevole. Così come si è ristretta la nostra libertà.

Quello che facciamo è subire o, nella migliore delle ipotesi, reagire. Reagiamo a quello che ci capita, che leggiamo, che vediamo alla TV, a quello che ci viene detto. Però, restando condizionati da modelli culturali e sociali prestabiliti, finiamo per reagire in maniera stereotipata.

Aggiungendo lo stress e il tedio del quotidiano, non abbiamo il tempo di fare altro. C’è una strada già tracciata e procediamo per quella. Senza rifletterci troppo.

Bisognerebbe, invece, tracciarsi il tempo di vivere con attenzione ogni momento. Ci si dovrebbe, ad esempio, esercitarsi ad agire per nuovi orizzonti, più che a reagire in maniera poco produttiva. Un ostacolo si frappone fra noi e il nostro obiettivo? Meglio individuare un correttivo alla strategia, che imprecare e affannarsi sempre sulla stessa strada!

L’accelerazione del cambiamento che, puntualmente, vive la realtà in cui siamo immersi, può dare le vertigini. Per l’ansia di trovarsi esposti ai venti della crisi ma, anche, per l’ebbrezza di accorgersi che, il frutto del sudore della nostra fronte, si sta trasformando in una impresa possibile.

Per stare al passo dei Tweet, degli smartphone e del furto di tempo che è diventato il leggere le mail o veleggiare nei Social, bisogna saper cambiare, adattandosi allo stress.

Come si fa?

Sì, l’ashram era, per tanti versi, uno strano posto. Strano certo per me che, abituato da una vita a stare in mezzo alla gente e a scorrazzare per il mondo per raccontarne le storie e i mille problemi, improvvisamente mi ritrovavo lì, isolato da tutto, senza radio, senza televisione, senza giornali, con un unico problema su cui riflettere, ora dopo ora, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana: “Io, chi sono?” I sassi non se lo chiedono. Non se lo chiedono le piante. E neppure gli animali, che per tanti versi sono gli esseri più vicini a noi nel creato, sembrano domandarsi: “Io, chi sono?” Una mucca non cerca di avere un’opinione di sé, un corvo non si arrovella a capire che cosa lo distingue da una rana. Ma l’uomo? (Tiziano Terzani)

Qualsiasi essere umano, si interroga sulla natura del suo essere. In maniera consapevole o meno. E, da sempre, è angosciato dall’incertezza della risposta.

Praticamente, ci guardiamo intorno, vediamo quello che ci circonda e ci vengono in mente, almeno, un paio di considerazioni, logiche e poco rassicuranti.

La prima. Tutto ciò che osserviamo, è fuori da noi. Il Mondo ci appare come distinto dal nostro essere: un qualcosa da cui ci si sente separati. Siccome, in aggiunta, tutto quello che dobbiamo affrontare, ci appare “più grande” delle nostre capacità, finiamo col sentirci vulnerabili come una piccola onda che, intimorita dalla vastità dell’oceano, vorrebbe essere un’onda più grossa, per non venire schiacciata dalle altre onde. Al tempo stesso, una forza contro cui non riusciamo ad opporci, ci spinge a varcare quei confini che, gli antichi, chiamavano col nome di “Colonne d’Ercole”, verso l’ignoto che, comunque, ci fa paura.

La seconda. In un modo o nell’altro, ognuno di noi, alla stregua dei bambini, si convince del fatto che il Mondo esista solo in quanto (e nel modo in cui) riusciamo a vederlo. Dal momento che partiamo dalla nostra percezione della realtà, non riusciamo a comprendere quello che poteva esserci prima dell’inizio di tutto e cosa potrà accadere nel futuro: anche quello più immediato. Ecco che cerchiamo di lenire le nostre pene, confidando in un’entità creatrice, da cui dipenderebbe il destino del “sistema”.

In sostanza, non riuscendo a percepirci come “parte” del Mondo e cercando conforto sentendoci, “intimamente”, onnipotenti, radichiamo in questa contraddizione la nostra perpetua insoddisfazione. E la nostra tristezza esistenziale.

Fermo restando che, il credere reale solo quello che riusciamo a percepire costituisce una forte limitazione (secondo questo principio, ad esempio non dovrebbe esistere quel mondo dell’inconsapevole che “regola” il sistema neurovegetativo (che fa funzionare i reni, ci fa respirare, modifica il battito del nostro cuore e consente tante altre meraviglie), la verità e che la vita è una start – up, cioè un’impresa ad alto contenuto di innovazione e competenza.

Bisogna, allora, avere il coraggio di cambiare, restando su una strada per il tempo necessario a dare un contributo significativo. A noi e a tutto quello che ci circonda. Ecco, come si trasformano le tribolazioni in un’eterna avventura.

Tutto cambia.

La vita, in fondo, ci costringe a muoverci su un fronte globale, senza radicamenti (perché tutto cambia, in continuazione) e senza oasi protette. È vero, alcuni si arroccano in rigide corporazioni (che sono diverse dalle lobby, le quali rappresentano gruppi di pressione che servono a generare un utile speculativo) che costituiscono la base per la stagnazione in cui tutto si muove (e, apparentemente, cambia) per restare sempre uguale.

“È necessario che tutto cambi, se deve rimanere così com’è!” (Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

Però alla fine, la Natura ci insegna che un fiume, qualunque ostacolo incontri, trova sempre la strada verso il mare. Allora si corre un pericolo: quello di accettare l’idea del doversi confrontare col nuovo, per lo più, non come frutto di una scelta ma, semmai, come conseguenza di un contesto. In questo modo, però, si rischia di non avere sviluppato gli strumenti culturali, la preparazione giusta, la capacità psicologica di adattarsi a quello che il Mondo ci chiede. Soprattutto in una dimensione di economia “liquida” come quella contemporanea. 

Chi ha il coraggio di cambiare, sa che, quando si riparte, si ricomincia sempre da zero (Luca Majocchi – già A.D. Unicredit),

Quando si cammina in un ambito di continua trasformazione (alla stregua delle molecole dell’acqua o, meglio ancora, di un gas) le certezze sono veramente poche. La propulsione, allora, può determinarsi dal perseguimento della soddisfazione di aver scelto di rompere con schemi collaudati ma obsoleti.

il bello dello spirito Tuareg è che conosci il viaggio ma non la meta. E questo, non tanto per mancanza di razionalità, quanto per la ricerca di nuove opportunità. Se io lavoro per una meta predefinita, ho una sola chance possibile: o centro quella meta, o la mia vita è un fallimento. Se, invece, mi impegno su uno spettro più ampio e sono pronto a cogliere quelle che si presentano (o che so dove andare a cercare), mi lascio aperte più possibilità di realizzazione” (Francesco Delzìo – docente LUISS)

Ma perché la vita è difficile?

Per una conseguenza. Infatti, per lo più, non siamo preparati a sostenere i compiti che ci troviamo di fronte, ogni giorno. Ognuno di noi è dotato di un sistema “psiconeurologico” che funziona (per legge di Natura) con modalità di autoapprendimento. Anche quando le informazioni ce le impongono gli altri, ciascuno, in maniera molto personale, applica un approccio differente, che crea una diversa motivazione. E una conoscenza specifica che varia, in relazione a chi finisci col diventare.

Ed ecco che, sempre più spesso, ci si sente inadeguati rispetto a ciò che si pensa essere lo standard stabilito da altri: di conseguenza, un po’ alla volta, si preferisce non “mettersi in gioco” attivando la paura di mostrarsi, come protezione.

Però, se mi proteggo, per paura di espormi, genero una incoerenza nei confronti dell’autoapprendimento, appunto. Chi accetta di fare esperienza (e di trarne tesoro) ha, sempre, meno difficoltà di altri (quelli più “stanziali”) a mettere in piedi una strategia operativa ad hoc, per la risoluzione dei problemi. Dai più semplici ai più complessi.

Un altro elemento importante da valutare è l’affidabilità nei propri confronti.

Tutto ciò che ci si propone di fare, ad esempio, deve aver superato, preliminarmente, il vaglio dell’accordo con se stessi, secondo il seguente principio: “Io ho deciso di applicarmi; quindi, debbo onorare l’impegno”.

Quello dell’affidabilità è il perno su cui ruota tutto perché, se sono affidabile sono, anche, adeguato.

Infatti, nel momento in cui scoprirò il mio limite, lo dichiarerò, con lo scopo di andare “oltre”, migliorando la mia preparazione. In questo modo, determino un alleviamento delle tensioni, non ho più bisogno di nascondere le mie insicurezze e la vita si semplifica.

Al tempo stesso, però, migliorandosi, si ha sempre maggior bisogno di approfondire e/o diversificare per evitare di annoiarsi per via dell’assuefazione. Ma questi elementi nuovi, bisogna saperli cercare. Ad un certo punto, potremmo esser tentati dall’idea di fermarci, per la stanchezza.

E quindi?

L’uomo dà il meglio di sé quando è stimolato dalla speranza d’un premio, dalla paura dell’insuccesso o dalla luce di una stella (Anonimo)

Nel nostro sistema di pensiero, è stato inserito un meccanismo che non ci consente di restare indenni da una simile decisione. Infatti, nel caso in cui tirassimo i remi in barca, la nostra vita si riempirebbe di insoddisfazioni legate ad una sorta di inedia mentale: di fatto, avremmo decretato la fine della ricerca basata sulla curiosità. Un po’ come aver deciso di impedire ad un bambino, l’esercizio del diritto di giocare.

Allora, noi possiamo scegliere fra il continuare a navigare (lottando contro i fenomeni avversi) consumando la vita in una continua ricerca in cui la meta è il viaggio (un po’ come i Tuareg), oppure decidere di scendere dalla giostra.

Nel 1999, viene prodotto Matrix, un film cult di fantascienza aderente ai principi olistici del senso della vita. Una delle particolarità della storia, consisteva nella possibilità di scegliere se osservare la nuda realtà oppure, con un’opportuna pillola, rimettersi a sognare, all’interno di un mondo virtuale. Matrix, appunto.

Per noi umani “reali”, la pillola serve, al massimo, a lenire i legittimi disturbi legati ad una condotta inadeguata. Ma, più tentiamo la via dell’oblio, maggiore sarà la ribellione della nostra mente che, invece, è programmata per andare verso il nuovo.

Insomma, inevitabilmente, finiamo per trovarci di fronte ad un bivio con, a destra, la via della pillola (che ci riduce il fastidio e ci consente di mantenere la decisione di fermarci, che comporta l’uscita dal “gioco” e il proiettarci in un modulo senza prospettive) e, a sinistra, la via del cammino (che non garantisce riposo ma che ci costringe a lavorare per costruire il nostro tentativo di essere adeguati)

Dentro di noi esistono i “codici sorgenti”, quelli in cui è contenuto il disvelamento dei misteri esistenziali.

Il problema è che non li sappiamo leggere. Nè, tantomeno, qualcuno potrebbe aiutarci. La chiave consiste nell’auto apprendimento. Che è la base della necessità di continuare a fare esperienza! La crisi esistenziale si evidenzia ogni qual volta mi domando: “Ma verso dove debbo andare?”

Infatti, ogni volta, siccome sono diventato più esigente, il piatto è più costoso. Allora mi viene il dubbio che, forse, non ne vale più la pena. E nasce la crisi

Itaca

Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino… pensi mai al marinaio a cui manca pane e vino? Capitano che hai trovato principesse in ogni porto… pensi mai al rematore che sua moglie crede morto? Capitano, le tue colpe pago anch’io coi giorni miei mentre, il mio più gran peccato, fa sorridere gli dei… e se muori e’ un re che muore: la tua casa avrà un erede; quando io non torno… a casa entran dentro fame e sete. Capitano che risolvi con l’astuzia ogni avventura, ti ricordi di un soldato che ogni volta ha più paura? Ma, anche la paura, in fondo, mi dà sempre un gusto strano: se ci fosse ancora mondo, sono pronto… dove andiamo? (Lucio Dalla)

La crisi, però, non è un fine corsa ma, piuttosto un’opportunità: quella di stare scomodi, per essere costretti a prendere una decisione

Lascio o raddoppio?

Se lascio, smetto di soffire. E comincio a morire Se raddoppio, continuo a soffrire e morire ogni giorno, godendo sempre meglio del tempo residuo. È questa la condanna alla vita!

Se avessimo le ali per fuggire la memoria, molti volerebbero. Abituati a esseri più lenti, gli uccelli, con sgomento, scruterebbero la folla di persone in fuga dalla mente dell’uomo (Emily Dickinson)

Allora, a che serve soffrire?

A costringerci a cercare una soluzione, al di là della paura. 

Veramente sano

Veramente “sano” non è semplicemente colui che si dichiara tale, né tanto meno un malato che si ignora come tale…

Veramente sano è un soggetto che conserva in sé i limiti della maggior parte della gente e che non ha ancora incontrato difficoltà superiori al suo bagaglio affettivo e alle sue facoltà personali difensive o adattive…

Veramente sano è colui che si permette un gioco abbastanza elastico della ricerca del piacere e del senso di responsabilità, sia sul piano personale che su quello sociale, tenendo in giusta considerazione la realtà e riservandosi il diritto di comportarsi in modo apparentemente aberrante in circostanze eccezionalmente “anormali”.

(“Jean Bergeret”  – Personalità normale e patologica )

La nostra vita si spende in questo tipo di cammino.

  • Generiamo degli equilibri che ci dovremmo godere (altrimenti non avrebbe senso ottenerli);
  • L’equilibrio non dura molto perché lo consumiamo, sia dal punto di vista chimico (biochimico, organico) che, anche, psicologico (perché c’è il meccanismo dell’assuefazione);
  • Man mano che nasce il disagio in noi, perché quell’equilibrio è saltato (lo abbiamo consumato, ce lo siamo goduto, etc.) ci mettiamo, prima, a riflettere e, poi a cercare… e, quindi, ci muoviamo per andare ad appagare quello che serve per costruire un nuovo equilibrio che ci renderà migliori di come ci trovavamo, prima di iniziare a faticare, dal momento che (come uno sportivo) avremo impegnato le nostre capacità e saremo più allenati.
  • Ovviamente, dovremo goderci anche il successivo equilibrio in maniera tale che, quando ci sarà la necessità di andare a ripristinarlo, saremo motivati a continuare. Altrimenti la vita diventa un non senso che passa da un fastidio all’altro.

È anche da qui, che nasce il senso della vita….

“La capacità di amore empatico, di gioire del piacere e di sopportare il sentimento di lutto, costituiscono, tutte assieme, le condizioni di qualunque sanità psichica” (P.C. Racamier)

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