Posted on

Te ne sei andata via, oh madre mia! Ti sorregge un giovane ragazzo, oh madre mia, con un fiore bianco davanti! Oh madre mia, con me anche mia moglie… Oh madre mia, te ne sei andata per sempre! (Pivio e Aldo de Scalzi)

Cari Lettori, come sosteneva lo scrittore e giornalista Gilbert Keith Chesterton, le fiabe non dicono ai bambini che esistono i Draghi perché, loro, già lo sanno. Le fiabe, semmai, gli spiegano che i Draghi possono essere sconfitti.

Ecco, con semplicità, vorremmo incrociare questa tenera riflessione con l’altrettanto delicata immagine di copertina che vede un cucciolo di leone, perdersi (fiducioso e sicuro) nella propria Madre Leonessa e provare a cucire, il tutto, in una struggente melodia che è stata la colonna sonora di un film che ha spiegato la possibilità di realizzare quello che, il Mondo, chiama “Miracoli”

Ogni tanto accade che, irrefrenabilmente giunga, nella vita di ciascuno, il momento di fare un po’ di pulizia. Nell’attesa di riposizionare questioni esistenziali, si comincia con l’eliminare un po’ di confusione dai cassetti, come una sorta di catarsi simbolica. Ed è stato così che, come una pergamena dissepolta, abbiamo ritrovato una indimenticabile dedica, ad una mamma speciale.

Mamma, ricordi?

Fosti tu a darmi, il primo, tenero abbraccio… mi hai concesso il privilegio di dare l’ultimo a te. Un triste addio sulla Terra per ritrovarsi uniti nella dimensione dell’amore infinito che unisce una mamma ai propri figli, andando oltre la morte, al di là del tempo e dello spazio.

Mamma, puoi credermi…

In entrambi i casi, quell’abbraccio è stato appagante, caldo, intenso… come solo una madre sa dare e che solo un figlio può capire.

Oh, Mamma…

Sdraiata sul tuo ultimo giaciglio… così simile ad un esile filo d’erba nel mezzo di un morbido prato su cui poter rotolare, dal quale, ancora farsi dolcemente accarezzare. Da accudire e amare. (Mariano Marchese)

Madre è un termine comune a quasi tutte le lingue del mondo e significa “misuratrice, ordinatrice”, da cui tutto trae origine, in maniera ordinata. Ecco quindi, che, etimologicamente, identifica “ciò che produce”“che contiene” e, quindi, porta in sé, la sorgente, la causa prima.

E allora, forse è per questo che di fronte ad un pericolo, ognuno di noi esclama, inconsapevolmente e irrefrenabilmente: “Oh… mamma mia!”. Che diventa “Oh, Madre mia!” quando siamo avvinti da un grande dolore, o dal vuoto dell’angoscia esistenziale.

Ecco perché, quando allentiamo l’abbraccio da questa generatrice e, osservandola allontanarsi scendendo verso quel Gange che è l’epilogo della vita terrena, ci sentiamo così precari.

Oh, Madre mia!

il termine precario deriva dal latino e identifica una posizione ottenuta, a seguito di preghiera, per concessione altrui e, di conseguenza, condizionata (nella qualità e nella durata) dalla volontà del concedente.

Il concedente…

Ciascuno di noi viene concepito e cresce in un mondo femminile che, fisicamente (quindi, senza voler mancare di rispetto ad alcuna), può essere definito come un “contenitore attivo equivalente ad un terreno di coltura capace di induzione epigenetica, anche se condizionato dall’esterno”. Cioè, un organismo in grado di fornire tutto quello che serve (dalle primordiali frequenze di oscillazione elettromagnetica, all’aria, al cibo…) per far si che, cellule a forma di mora, diventino un bambino!

Quel che resta insostituibile della madre è la testimonianza che può esistere ancora, nel nostro tempo, una cura che non sia anonima, una cura che ami il particolare più particolare del soggetto, una cura capace di accogliere la rugiada che viene alla luce del giorno… Ed è proprio questo amore che la maternità (nonostante tutte le trasformazioni ipermoderne che ne hanno modificato la fenomenologia) ha il compito di custodire.
Massimo Recalcati – 
Le mani della madre)

Quanto espresso da Massimo Recalcati, sulla scorta delle riflessioni di Jacques Lacan (come ho avuto già modo di precisare) era stato, a suo tempo, intuito da Carl Gustav Jung con il concetto di Inconscio collettivo e Inconscio Individuale e spiegato da Giovanni Russo con il concetto di Energia Universale condensata nell’Energia Vitale Umana:

Cioè, sostanzialmente, l’evoluzione (nell’arco di tempo compreso dal Big Bang per oltre 15 miliardi di anni, fino ai giorni nostri) degli elementi fondamentali dell’Universo (l’Energia vitale sotto forma di gas, polvere di stelle, etc. governata e “istruita” da elettromagnetismo, gravitazione, interazione forte e debole) è stata condensata nel nostro DNA.

Questo filamento a doppia elica che dà vita ai cromosomi deve essere inteso, quindi, come un enorme deposito di informazioni che si sono modificate in milioni di anni per consentirci di apparire sotto forma umana, in grado di funzionare, per ciò che è indispensabile (duplicazione cellulare, metabolismo, impulsi nervosi, “istinti pulsionali”) a prescindere da modelli educativi impartiti.

In pratica è come se, Madre Natura, avesse plasmato (dai primi batteri fino alle forme di vita più evolute) le trasformazioni necessarie a dar luogo ai “complessi” e “articolati” Esseri Umani i quali, alla stregua di un Computer appena comprato, sono in grado di funzionare (per le elementari ma fondamentali operazioni inconsapevoli) grazie ad un sistema operativo installato dal “Costruttore/Costruttrice Madre” che verrà, in seguito, arricchito di programmi dall’ambiente (Famiglia, Scuola, Società in generale) capaci di attivare la nostra capacità di contestualizzarci in maniera consapevole.

L’ARCHETIPO, dunque, è il sistema operativo capace di “guidare” il nostro sviluppo embrionale intrauterino (in pratica quando da una cellula indifferenziata, lo zigote, un po’ alla volta diventiamo piccoli esseri umani pronti a venire al mondo).

Almeno all’inizio della nostra vita extrauterina, ci leghiamo fortemente alla mamma (riconosciuta per via degli odori e degli umori… ma non solo) come fonte primigenia di vita e di appartenenza.

Nel prosieguo, in base alla corretta estrinsecazione o meno dei vari fattori di attaccamento, molto del carattere materno, condizionerà le nostre scelte sul piano, soprattutto, del rapporto con il potenziale compagno (di vita o del momento).

Ma perchè la mamma è così importante?

Perchè, per ognuno di noi è “casa”; infatti, siamo cresciuti in lei e conosciamo, di lei, anche quello che, a lei, è nascosto (la sua frequenza respiratoria, la peristalsi intestinale, gli equilibri idroelettrolitici del liquido amniotico, i rilasci ormonali…. la sua vita più intima, insomma, proprio dal di “dentro”). Ecco perchè, alla nascita, noi cerchiamo quella “cosa” che ci ricorda la “casa”.

Moderni studi di psicobiogenetica delle cure maternali, hanno dimostrato l’assunto della “memoria implicita delle esperienze” di D. Winnicot per cui si è arrivati a comprendere che, quando la “casa” (in questo caso, le attenzioni materne fin dai primi istanti della nostra venuta al mondo) è troppo accogliente o troppo poco accogliente, ci sentiamo oppressi o abbandonati.

Per essere aiutati a “crescere”…

Una mamma “sufficientemente buona” dovrebbe, prima far credere al bambino di avere un potere immenso su tutto e, dai due/tre anni di vita in poi, “disilluderlo” aiutandolo ad accettare il fatto che, senza impegno, non otterremo alcun risultato.

“Tu non sei più vicina a Dio di noi: siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende, benedette le mani. Nascono chiare in te dal manto, luminoso contorno: /io sono la rugiada, il giorno, /ma tu, tu sei la pianta” (Rainer Maria Rilke – “Le mani della Madre”)

Le mani non sono, forse, il primo volto di quel primo soccorritore all’esordio traumatico della nostra vita e che ci salva dal precipizio dell’insensatezza, che è nostra Madre?

“La mano che fa dondolare la culla è la mano che regge il mondo”.
(William Ross Wallace)

In funzione di quanto abbiamo percepito e accettato l’idea che la mamma non è proprietà esclusiva e che, anzi, rappresenta un elemento esterno a noi (costanza dell’oggetto), l’angoscia che ne consegue, la scarichiamo addosso a lei e alle figure femminili di riferimento (psicologicamente o fisicamente) oppure ce la teniamo dentro, nell’attesa di una Donna adeguatamente “responsiva”, in grado di ricordarci la reverie materna

Ed è per questo che, come scritto qualche rigo più sopra, ogni volta che ci si trova in difficoltà, l’espressione più usata è “Oh, Madre mia!”

Che ora è? Chiedesti

Le quattro. Sono le quattro del pomeriggio

Allora posso dormire?

Dormi, se vuoi, dormi…

Buona notte.

In modo semplice, quasi banale, Te ne andasti abbandonando il male

(Enzo Ferraro)

A questo punto del nostro “viaggio” che celebra la figura della Madre, proviamo a domandarci cosa “resta” di lei nel tempo del declino della rappresentazione del Padre.

La Psicoanalisi ha celebrato questa “funzione” attraverso il meccanismo Edipico, ben sintetizzato dai “tre tempi” di Jacques Lacan.

Il primo tempo, della confusione simbiotica fra Madre e Bambino, con la prima che tende (simbolicamente) a voler riportare dentro di se’ il figlio e, quest’ultimo che la vorrebbe (altrettanto simbolicamente) “vampirizzare”…

Il secondo tempo, dell’apparizione traumatica e “interdittiva” della parola del Padre, che (simbolicamente) “risveglia” la diade madre – bambino dal “sonno incestuoso” con due “moniti” ben chiari: uno rivolto alla Madre (“Non puoi divorare il tuo frutto!”) e uno rivolto al figlio (“Non puoi tornare da dove sei venuto!”) che non mortificano tale relazione ma la liberano da perversioni incestuose…

Il terzo tempo, della “donazione” paterna, che si pone a cavallo fra il “Desiderio” e la “Legge” rendendo possibile, nel figlio, la creazione di binari di regole non imposte ma capite e accettate che viene resa possibile dalla validazione materna, che ne riconosce implicitamente l’autorevolezza.

“Gli uomini reggono il mondo. Le madri reggono l’eterno, che regge il mondo e gli uomini”. (Christian Bobin)

Vero è altresì che personaggi del calibro di Jacques Lacan Melanie Klein, hanno descritto in maniera inquietante il desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di uno spaventoso coccodrillo. “In questa versione la madre, anziché fungere da riparo dall’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno che quello interno”.

L’ipotesi è che nell’inconscio di ogni madre (anche di quella più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli) risieda una spinta indomita a fagocitarli.

Ogni uomo deve definire la sua identità nei confronti di sua madre. Se non lo fa, ricade semplicemente tra le sue braccia e ne viene fagocitato. (Camille Paglia)

Prendendo spunto da quanto spiegato da Paul Claude Racamier nel suo “il genio delle origini” (Raffaello Cortina Ed.), appena uscito dai cambiamenti della nascita, il neonato entra, con la madre, in una intensa relazione di mutua seduzione che serve (almeno all’inizio) a mantenere un accordo perfetto nel quale, insieme (madre e bambino), è come se si calassero nelle acque “amniotiche” di una lago senza increspature.

Tutto ciò mira ad escludere (o a ridurre fortemente)le tensioni che provengono dal mondo interno e le stimolazioni che arrivano dall’esterno, capaci di intorbidire questo rapporto idilliaco (serenità narcisistica ideale) che non cerca e non vuole differenziazioni (foriere di separazioni) ma che crea una simbiosi in grado di determinare una ammirazione reciproca con origini indecidibili.

“Guardate il bambino che guarda la mamma; guardate la mamma che guarda il bambino: guardateli entrambi” (P. C. Racamier)

Il “Lutto delle origini”: Che la forza sia con noi…

Cari Lettori, la natura non finisce mai di sorprendere coi propri miracoli: così come consente la fuoriuscita del nascituro dalla propria madre attraverso due incredibili rotazioni nel canale del parto (senza le quali sarebbe impossibile valicare il muro del bacino materno), allo stesso modo costringe il nuovo nato a subire un indispensabile distacco psicologico definito “lutto originario”.

Tale sofferenza ci riporta ai primi momenti della nostra vita, quando abbiamo simbolicamente voltato le spalle ad una Madre “indistinta” (una sorta di “atmosfera”) accettando di perderla ma, al tempo stesso rimpiangendola per ritrovare una madre esterna  e distinta da noi, come un oggetto esterno che desideriamo e del quale, nel tempo, introietteremo ciò che ci renderà solidi e tranquilli.

“Così noi viviamo: per sempre prendendo congedo…” (Rainer Maria Rilke)

In base a come saremo stati aiutati a metabolizzare questo primo incontro con la “morte”, vivremo tutti i successivi distacchi esistenziali in maniera fisiologicamente sopportabile oppure come la perdita di una parte fondamentale di noi. E, questo, diviene terreno fertile per la condizione di depressione maggiore.

“Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.  Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù” (Pier Paolo Pasolini – Supplica a mia madre)

Con gli occhi di una mentalità più moderna possiamo ipotizzare che, con molta probabilità, più che una madre fagocitante avremo colei che non impedisce al figlio di muoversi verso la vita ma, semmai (forse per via di proprie paure inconsce), tenta di proteggerlo, simbolicamente, nella propria bocca alla stregua dei pesci incubatori orali che custodiscono, in tal modo, i propri avannotti fintanto che non diventano grandi abbastanza da nuotare verso l’ignoto.

Sarà quel che sarà…

…ma, probabilmente possiamo, da figli, considerarci come degli alianti in attesa del distacco dall’aereo madre che ci ha portato lì, dove ci giocheremo vita e destino con le correnti ascensionali, confidando sulla benevolenza della Madre di tutte la Madri. E, ciascuno, ci veda chi vuole.

Le verità che contano, i grandi princìpi, alla fine, restano due o tre. Sono quelli che ti ha insegnato tua madre da bambino. (Enzo Biagi)

Oh, Madre mia… Si può fare!

Madre, sin da quando ero bambino ho cercato il tuo calore… ricordi quando infilavo le mie dita fra le tue avvicinando il mio volto sul tuo grembo? Già uomo, mi sono abbandonato a te, capace di farmi tornare bambino accarezzando i miei riccioli ribelli. Madre, mi mancano tanto la tua saggezza, quanto quegli occhi, specchio della mia anima. Mi hai insegnato a cercare il sole oltre le nuvole per illuminare i miei pensieri: oggi dietro quel tramonto, cercherò te. Ciao Mamma… semplicemente, Grazie! Tuo figlio Mariano.”

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un affettuoso ringraziamento a Mariano Marchese per le sue delicate e profonde riflessioni e ad Amedeo Occhiuto per aver suggerito alcuni degli aforismi pubblicati in questo editoriale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *