Sappiamo benissimo che alcuni vocabolari ammettono la bontà del termine succube tanto per il maschile quanto per il femminile; classificano, cioè, l’aggettivo (ma anche sostantivo) tra quelli che appartengono alla seconda classe la cui terminazione in –e è valida sia per il maschile sia per il femminile.
Per alcuni dizionari, insomma, succube sarebbe come gli aggettivi ambivalenti facile, difficile, forte, deteriore, ecc. Hanno anche l’’accortezza’, però, di informare il lettore che la forma succubo è da preferire.
Il Dop, dizionario di ortografia e di pronunzia della Eri, avverte che succube è meno bene di succubo, il che significa che è meno corretto e in lingua una parola o è corretta o non lo è: non può essere corretta a metà.
La stampa, a nostro modesto avviso, essendo una dispensatrice di cultura dovrebbe adoperare solo termini corretti per intero, non a metà. Una mezza verità corrisponde a una bugia e una parola meno corretta corrisponde a uno strafalcione.
Scriviamo e diciamo, dunque, succubo per il maschile singolare, succuba per il femminile singolare, succubi e succube rispettivamente per il maschile e per il femminile plurale. Succube, insomma, anche se è la forma più comunemente adoperata – con l’imprimatur di alcuni vocabolari – è da ritenere errata; la sola forma corretta è succubo, e vediamo perché.
In latino esiste il verbo succubare (letteralmente: giacere sotto) dal quale è derivato il sostantivo femminile succuba che era uno spirito maligno dalle sembianze di donna, appunto. Questo spirito aveva il compito di disturbare il sonno delle persone. Con il trascorrere del tempo da questo femminile succuba è stato generato il maschile succubo, nel significato di uomo assoggettato al dominio di una donna e, per estensione, uomo di carattere debole, insicuro, che si sottomette alla volontà degli altri.
Succube, quindi, non ha motivo di esistere e ci meravigliamo del fatto che alcuni dizionari registrino questa voce, come lo Zingarelli, che recita testualmente:
succube, variante di succubo, modellata sulla grafia del francese succube.
Sostantivo maschile e femminile.
1) Nella demonologia cristiana, demonio che, assumendo aspetto fittizio femminile, si unisce sessualmente a uno stregone o a un invasato.
2) Est. Chi soggiace completamente al volere di un altro: è succube del marito. Succubo, forma maschile tratta dal latino succuba(m), concubina, composto di sub, sotto e di un corradicale di cubare, giacere, s.m. (f.-a)”.
Il vocabolario Sandron, invece, è ‘più onesto’ linguisticamente, non parla di una forma variata:
succubo (meno bene succube, che però è forma di più largo uso) s.m.
1) propriamente, demone che anticamente si riteneva assumesse gli aspetti di una donna, e che, durante la notte, avesse rapporti carnali con gli uomini.
2) (f.-a), est. persona che per mancanza di una ferma volontà si sottopone, soggiace alla volontà altrui. Usato anche con valore di aggettivo: è una donna debole, succuba del marito e dei figli.
Voi, gentili amici, se siete amanti del bel parlare e del bello scrivere ─ è proprio il caso di dirlo ─ non siate… succubi dei vocabolari o della stampa: adoperate sempre le forme corrette, cioè succubo, succuba, succubi e succube.
A cura di Fausto Raso
Pubblicato su Lo SciacquaLingua
Giornalista pubblicista, laureato in “Scienze della comunicazione” e specializzato in “Editoria e giornalismo” L’argomento della tesi è stato: “Problemi e dubbi grammaticali in testi del giornalismo multimediale contemporaneo”). Titolare della rubrica di lingua del “Giornale d’Italia” dal 1990 al 2002. Collabora con varie testate tra cui il periodico romano “Città mese” di cui è anche garante del lettore. Ha scritto, con Carlo Picozza, giornalista di “Repubblica”, il libro “Errori e Orrori. Per non essere piantati in Nasso dall’italiano”, con la presentazione di Lorenzo Del Boca, già presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, con la prefazione di Curzio Maltese, editorialista di “Repubblica” e con le illustrazioni di Massimo Bucchi, vignettista di “Repubblica”. Editore Gangemi – Roma.