Il fantastico viaggio di Ulisse, narrato da Dante potrebbe retrodatare la scoperta delle Americhe: l’ipotesi, condotta con criterio scientifico, ci proviene da un appassionato esperto del Divino Poeta: se fosse vero?
Questo articolo è stato scritto il 26 maggio 2002. Molto prima, quindi, dell’interessamento di Benigni all’opera del sommo maestro.
BUONA LETTURA
La lettura del 26° Canto dell’Inferno – dall’Opera: “La Divina Commedia” di Dante Alighieri – si impernia nel personaggio di Ulisse, figura affascinante ed ardimentosa, al punto che alcuni critici letterari lo considerano il personaggio chiave di tutto il poema.
Nel mito dell’ultimo viaggio dell’itacense ( Ulisse era re di Itaca, isoletta del mare Egeo), Dante incita l’umanità ad impegni titanici.
Quasi un novello Prometeo, l’Ulisse/Dante esprime un senso di ribellione nei confronti di ogni sapere acritico, un rifiuto
dell’ “Ipse Dixit”(Dogma), un desiderio insopprimibile di conoscenza che rappresenta la linea di demarcazione tra gli uomini “Bruti”( non colti), i molti, resi ignavi dall’ignoranza, e coloro, i pochi, che ardiscono verso “l’Assoluto”.
E’ lo stesso coraggio, lo stesso ” folle volo ” che, nella notte tra il 20 e il 21 luglio1969, sostenne tre nuovi Ulisse – Armstrong, Neal e Collins – alla conquista dello spazio, fieri di aver lasciato l’orma vivificatrice della ragione e della scienza umana sul silente e pallido nostro satellite. L’ “orazion picciola” con la quale Ulisse incita i suoi compagni, non promette né gloria, né onori, ma indica il fine più nobile al quale l’uomo deve tendere, anche se è consapevole della propria “follia” che, comunque, non è mai umiliazione, anche se rasenta l’empietà.
Anche il fantastico viaggio ultraterreno di Dante è “sublime follia”, ancorché sostenuto dalla Grazia Divina; ma, col suo Poema, il “Ghibellin Fuggiasco” (così lo chiama il Foscolo) ci richiama alla mente le due più grandi intuizioni del pensiero filosofico presocratico: l’ “ESSERE” di Parmenide ed il ” DIVENIRE” di Eraclito; laddove il secondo non è altro che la molecolarizzazione dell’INFINITO scientifico che si sublima nell’ESSERE metafisico. Qui preme, invece , decodificare, con un’analisi logico-deduttiva, il messaggio che, abilmente, Dante cela nel descrivere il viaggio d’Ulisse, senza essere connotati dall’armonia metrica e stilistica dei versi.
Per correttamente procedere nell’indagine prefissami, è necessario premettere alcune considerazioni storiche. Fin dagli albori della civiltà, l’uomo ha sognato, e poi realizzato, il dominio delle acque e dei cieli; e la storia della navigazione ci documenta sulle imprese nautiche dei Fenici, dei Greci, dei Cartaginesi e di tutti quei popoli la cui civiltà si è sviluppata lungo i lidi del Mediterraneo ( in medium terrarum). Certamente i Fenici varcarono le ” Colonne d’Ercole”, ma solo per discendere sia lungo le coste dell’Africa occidentale, sia per risalire lungo la penisola iberica fino alle coste della Scozia, senza, però, perdere mai di vista il riferimento terrestre delle coste. Impresa nautica di grande valore fu quella del vichingo Erik il Rosso, verso la fine del VI secolo dopo Cristo, che riuscì a varcare il Nord-Atlantico fino a raggiungere le coste del Labrador.
Ma nessuno si era mai sognato di sfidare l’alto mare Atlantico nel suo tratto mediano e più vasto.
Bisognerà attendere l’impresa di Cristoforo Colombo – avvenuta quasi due secoli dopo la stesura del Divino Poema – perché si attuasse il tracciato di una rotta marina di cui, a mio avviso, Dante era a conoscenza, ma che non poteva indicarla con chiarezza, per non incorrere nell’anatema dei teologi e scienziati del suo tempo, rigidamente aristotelici, tolemaici e tomistici (toccherà a GALILEI sperimentare ,a sue spese, quell’assurdo dogmatismo, oltre due secoli dopo ).
Ma Dante celò abilmente il proprio enciclopedico sapere con l’uso intenso del mito, dell’allegoria, della metafora, riuscendo a far filtrare, per i posteri, preziose conoscenze: a riprova di ciò, valga la perspicace intuizione del grande interprete dantesco: il francese GUENON, che avvisa gli esegeti del Dante a tenere in considerazione la famosa terzina del canto IX dell’Inferno -vv. 61-63 – che così recita: ” O voi ch’avete gli intelletti sani / mirate la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani”.
Ad un’analisi logico-sintattica della cennata terzina, ci si accorge come essa sia volutamente slegata dal contesto narrativo del canto in questione; essa terzina è un sorta di “ablativo assoluto”, ossia, un ammonimento sciolto da ogni rapporto immediato con la narrazione, ma che si riconnette a tutto il Poema, per quanti hanno a cuore conoscenza e sapere.
Con tale premessa, ed evitando ogni connotazione romantica che sale dai versi, l’Ulisse/Dante narra “dove per lui perduto a morir gissi” ( verso 84, canto XXVI Inf. ) e spiega, in modo enigmatico, ma emblematico, la rotta seguita, una volta superate le Colonne d’Ercole, o, meglio, l’attuale Stretto di Gibilterra: “sempre acquistando dal lato mancino” (verso 126, canto XXVI, Inf.).
Con questo, apparentemente labile, indizio, in effetti, Dante dà indicazioni sulla rotta che, primo fra tutti, Colombo percorrerà nel 1492, e cioè, dopo quasi due secoli dalla stesura del Divino Poema .
Bisogna aggiungere che, al tempo di Dante, l’unico strumento nautico, necessario per tracciare le rotte marine, era l’Astrolabio, inventato già nel II secolo avanti Cristo dal famoso matematico ed astronomo IPPARCO di Nicea. Si dovrà attendere, però, il 1731, allorché l’Astrolabio venne sostituito dal Sestante, per merito del matematico inglese J.Hadley, il quale, per verità, denomino la sua invenzione Ottante, in quanto il settore circolare era graduato con ampiezza di 45°; il successivo sviluppo della suddetta sezione fu portato a 60°,e, da ciò, la denominazione di Sestante.
Ritornando al racconto del viaggio di Ulisse, altro indizio di rotta è dato dalla durata della traversata: “Cinque volte racceso e tante casso / lo lume era di sotto della luna, / poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo ” (vv. 130-132 , canto 26°Inf.). Quindi, cinque mesi di navigazione, o, meglio, quasi 130 giorni di viaggio, se si tiene conto della durata delle lunazioni.
Quale poteva essere l’approdo finale di quel viaggio? –
Simbolicamente, Dante indica la “Montagna bruna” del Purgatorio; verosimilmente, invece, la meta ultima è da individuare nel mar Caraibico.
Proviamo a tracciare, ora, l’ipotetica rotta, confrontandola con quella percorsa da Colombo.
E qui soccorre, anche se Dante non lo nomina, l’aiuto dell’Astrolabio che consentirà, a Colombo, di tenere la rotta che, da Palos, lo condurrà all’approdo del 12 ottobre del 1492, virando gradatamente sempre a sinistra, col timone inclinato di quel tanto di gradi necessari a riflettere l’indicazione della rotta stessa, ricavata ogni singola notte.
E’ a tutti nota l’importanza dei paralleli e dei meridiani durante una qualsiasi navigazione; se consideriamo l’equatore – massimo circolo ideale della superficie terrestre, intersecantesi con l’asse perpendicolare che passa per il centro della terra – si ricava la longitudine e la latitudine; conseguentemente, lo Stretto di Gibilterra si posiziona, sulle carte nautiche, circa, tra il 35° di latitudine Nord e il 17,5° di longitudine ovest; sviluppando la rotta angolare indicata da Dante, questa termina, al massimo, nel mar Caraibico. Dalla semplice e non appariscente indicazione dantesca
“sempre acquistando dal lato mancino” – si ricava una rotta mediana, bisettrice dell’angolo ideale formato dagli assi cartesiani della latitudine e della longitudine, per come ha provato Colombo allorché sbarcò, dopo appena 30 giorni di navigazione ( sostò per quasi tutto il mese di Settembre del 1492 alle Canarie per riparare le sue caravelle che avevano riportato avarie durante il primo tratto di navigazione) sull’isola di Guanahana o, San Salvador, oggi Watling e dopo cinque giorni, sull’isola di Cuba. Ancora un piccolo balzo e il grande Genovese avrebbe potuto buttare le ancore ell’attuale baia di Palm Beach, in Florida.
Ma c’è un’ulteriore e decisiva indicazione della rotta, che non è citata nel 26° canto dell’Inferno; bisogna spostare l’indagine, rileggendo attentamente il 1° canto del Purgatorio. Allorché Dante e Virgilio risalgono dall’Inferno, sbucano sulla spiaggia del Purgatorio, su quella “montagna bruna” che era stata tanto funesta ad Ulisse . Questa misteriosa isola si trova agli antipodi di Gerusalemme, e precisamente nell’emisfero australe, la cui caratteristica è rappresentata da una costellazione, visibile solo in quella parte del suddetto emisfero: è la CROCE del SUD, abilmente metaforizzata dal Poeta nel simbolismo delle 4 Virtù Cardinali, così descrivendola: ” I’ mi volsi a man destra, e posi mente /all’altro polo vidi quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente ” ( vv. 22 – 24, I canto Purg.).
Essa costellazione si compone, in verità, di 17 stelle, fra le quali brillano, molto più appariscenti, le quattro stelle a forma di croce e che, da Colombo in poi, consente ai naviganti di individuare la rotta per il Polo Sud. C’è da restare meravigliati ed attoniti di fronte a quest’ultima indicazione.
Come, e da chi, e da che cosa Dante aveva saputo dell’esistenza e della ubicazione della Croce del Sud?
Qualche critico ha azzardato l’ipotesi che Dante avesse ricevuto notizie in merito da racconto – diario di Marco Polo, l’autore del famoso “Il MILIONE”.
E’ facile obiettare che il viaggiatore veneziano partì da ovest verso est ,da Venezia alla Cina, attraverso l’Asia, e mai avrebbe avuto occasione di conoscere quella costellazione, mentre il viaggio di Ulisse si svolge da est ad ovest.
Ad oggi, rimane insoluto il mistero che avvolge l’intuizione dantesca della rotta atlantica. E, alla stregua dei grandi drammi d’avventura, Dante fa inabissare il suo eroe in prossimità della “Montagna Bruna”, non per intimorire gli uomini e distoglierli da imprese che travalicano le conoscenze umane; tutt’altro. Il Poeta vuole solo avvertire che ogni azione umana è degna di rispetto, se il fine, a cui tende, è nobile; ma, scade, se il fine è la superbia o la tracotanza. Il viaggio di Ulisse e lo stesso peregrinare del Poeta nei regni ultraterreni sono un inno al coraggio, all’audacia che non è mai temerarietà, anche se Ulisse, e Farinata degli Uberti, e Capaneo, e Brunetto Latini (il dolce maestro che insegnò a Dante ” come l’uom s’eterna” (i personaggi più interessanti della Cantica Inferno), scontano peccati ideologici e comportamentali, anche se nella vita sociale e politica ben meritarono. Ma l’ansia di giustizia che pervade Dante attiene ad un alto rigorismo morale, quasi anticipando gli imperativi categorici di kantiana memoria e che possiamo riassumere nella massima del “pereat mundus sed fiat lex” (la legge sopra tutto).
Un’ultima notazione consente, ove ce ne fosse bisogno, di conoscere, più a fondo, quanta alta fosse ,in Dante, la fiducia nella ragione; nella ” orazion picciola”, che l’Ulisse/Dante tiene ai suoi compagni , c’è un altro significativo verso che vale la pena analizzare: ” O frati,…….. non vogliate negar l’esperienza / di retro al sol, del mondo sanza gente ” ( vv. 116 – 117 ,del canto 26° Inf.).
Quel richiamo all’esperienza pone ulteriori interrogativi, ardui a risolversi. Cosa intendeva Dante per ” esperienza”? Anticipava, forse, il pensiero lockiano, o, addirittura, l’interpretazione kantiana, o precorreva, di oltre 4 secoli il pensiero illuministico? Se s’intende, per esperienza, quel particolare fenomeno di riverbero della realtà sui nostri sensi, allora la nostra conoscenza si riduce ad una registrazione passiva della realtà, del “fenomeno”. Se, invece, si usa l’intelletto, inteso come facoltà originaria dell’uomo, si ha la conoscenza intellettiva che ha, per finalità, il riordino delle sensazioni, alla luce del principio di contraddizione, e per scoprire se, al di là del fenomeno, esista un “primo motore immobile”, un “NOUMENO” (l’Energia Ordinatrice) da raggiungere.
Il Dante/Ulisse va oltre il principio di contraddizione, (va oltre le “Colonne d’Ercole”) che, per necessità logica, si basa sul carattere della possibilità; la quale ultima presuppone, sempre, un dato reale, che, se dovesse mancare, renderebbe nullo il pensabile e il possibile.
Ma Ulisse “vola” oltre il pensabile, nel mondo “sanza gente “, col cuore intrepido, con il “lume” della sola ragione che si confronta con “l’inconoscibile”, ma certo dell’intuizione pura dell’intelletto, anticipando quella fiducia fideistica nella ragione umana che caratterizzerà quel grande movimento di pensiero che va sotto il nome di “ILLUMINISMO” e che Kant sintetizzò nel motto ” SCIRE AUDE” :osa conoscere.
Ora, però, è necessario porre un limite a queste interpretazioni del pensiero dantesco. Ad altri spetterà varcare le innumerevoli “Colonne d’Ercole” che lo spirito umano si pone, per quell’insaziabile sete di sapere, brillantemente intuita dall’IO ficthiano, ma, soprattutto, per affermare l’unicità ed insostituibilità dell’uomo che scruta, curioso, fin dall’antro della primitiva caverna, gli estremi confini dell’Universo.
Queste sintetiche considerazioni non hanno la pretesa di offrire un ulteriore contributo alla già notevole critica letteraria sull’opera dantesca; al contrario, esse vogliono manifestare l’ansia di un ammiratore del Divino Poeta per un interrogativo ancora irrisolto e che viene amplificato mercé la comunicazione mediatica, nella speranza di suscitare un’affettuosa provocazione.
Giuseppe Chiaia (28 maggio 2002)
Fine Letterato, Docente e Dirigente scolastico, ha incantato generazioni di discenti col suo vasto Sapere. Ci ha lasciato (solo fisicamente) il 25 settembre 2019 all’età di 86 anni. Resta, nella mente di chi lo ha conosciuto e di chi lo “leggerà”, il sapore della Cultura come via maestra nei marosi della Vita