Posted on

Capita, spesso, di interpellare un ufficio pubblico attraverso il telefono; a rispondere, c’è sempre una voce atona, fredda, metallica (forse perché disumanizzata da una immemorabile ripetitività della mansione) che vi chiede generalità, motivo della telefonata, persona con la quale intendete colloquiare; e qui comincia l’angoscia !

Il centralinista, in quel momento, possiede un dominio spropositato: può decidere di trasferire, o meno, la vostra chiamata; può, sadicamente, imporvi un’attesa così lunga che vi trasforma da soggetto di diritti ad oggetto inutile e disprezzato, al punto che, incapaci di ogni reazione, siete spinti a riagganciare il telefono, con l’ulteriore beffa di un passivo di scatti telefonici a vostro carico, specialmente se trattasi di telefonino, mentre un senso di costernata sfiducia nel servizio pubblico ci assale, per cui siamo costretti, quasi sempre, a rinunciare dal compiere altri identici ed infruttuosi tentativi.

Almeno, queste sono le disavventure che mi capitano! Per cui, armato di pazienza decido di recarmi personalmente in quelle sedi, inutilmente tentate col telefono.

Ed immancabilmente, all’ingresso di qualsiasi ufficio, sia esso comunale, provinciale, regionale o statale, c’è sempre un “vigilante ” armato sino ai denti , se è un uomo; oppure, se è una donna, ti inonda del fumo di una puzzolente sigarette, mentre alza il capo seccatamente svogliata, perché è stata disturbata dallo sferruzzare su un lavoro a maglia.

Negli uffici statali, di solito, c’è, dietro una grigia ed incolore scrivania, un usciere, appesantito dagli anni, dall’adipe e dalla gotta che vi apostrafa rudemente con un: “Desidera ?” e noi, con voce la più garbata possibile, esponiamo il motivo della visita; e quello, valutando con una occhiata la persona che gli sta di fronte, o indica percorsi accidentati che si snodano in ammuffiti e bui corridoi (nei quali ci si perde sistematicamente), o, se “gli gira”, vi risponde che quel giorno l’ufficio è chiuso per il pubblico, o che l’impiegato addetto, quel giorno non è in servizio; e così, ogni baldanzosa speranza che ci ha sorretto in quel frangente, si spegne di fronte agli occhi glauchi ed inespressivi dell’usciere arrivato, (dopo una vita trascorsa a consumare il fondo dei pantaloni e le maniche di una giacca, dal colore indecifrabile, su di un ” trono” sdrucito di pelle) al terzo livello della carriera.

A riprova di ciò, vale la pena accennare a quanto mi è capitato, a tal proposito, alcuni mesi or sono;

dovendo contestare una contravvenzione alla circolazione stradale, mi sono recato presso la sede di una polizia municipale; dovunque, un nugolo di vigili, indaffarati in un andirivieni che ricorda molto una circolare della Regia Marina Borbonica del 1842 denominata “Facite ammuina” , mentre, per le strade, il traffico impazza: ed ecco, seduto al solito tavolino, spoglio e scostante, un altro vigile urbano che mi domanda il motivo della mia presenza; spiegatogli succintamente il motivo, mi indica una porta, mi fa intravedere una scala, mi specifica a quale porta bussare, mi richiede un documento di riconoscimento, mi rilascia un “passi” e, finalmente, mi inoltro, cauto e spaesato, pronto a mostrare il “cartellino” appuntatomi sulla giacca al minimo “alt” .

E, mentre arranco su per una scala, la quale, una volta, doveva vantare un lucido rivestimento di travertino, ancorché afflitto dalla mia coxartrosi, comprendo pienamente, nel suo sinistro significato, la durezza della prima terzina del 3° canto dell’Inferno dantesco, quella che recita: “per me si va nella città dolente…” con quel che segue.

Giuseppe Chiaia (8 febbraio 2003)