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Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più. (Tiziano Terzani)

Papy, ti dispiace molto l’aver dato via la tua vecchia Alfa Romeo, quella cui eri tanto affezionato?” – “No.” – “Strano… hai sempre dichiarato il tuo attaccamento verso ciò che rappresentava una specie di diario esistenziale… lo hai anche scritto più volte, nei tuoi articoli… come si fa a cambiare idea in maniera così radicale? Non si corre il rischio, in questo modo, di diventare freddi sul piano emotivo? Tu ci hai spiegato l’importanza del credere in un valore… la pensi diversamente anche su questo? In una sua vecchia canzone, quando tu avevi la mia età, Antonello Venditti chiedeva al suo compagno di scuola se fosse riuscito a salvarsi dal fumo delle barricate o se, invece, avesse deciso di entrare in Banca, anche lui… Tu ci hai trasmesso (anche con l’articolo “La solitudine dei numeri primi”)  l’idea di un rivoluzionario non disponibile al compromesso; siccome ti avverto, a volte, ironico sul tuo sentirti un po’ vecchio, con Mariarita ci siamo domandate se per caso, a dispetto dei tuoi buoni propositi adolescenziali, alla soglia dei tuoi 60 anni ( e avendo deciso di utilizzare una di quelle perfette auto tedesche che tu ritenevi fredde e impersonali), non fossi diventato un Borghese!”

Cari Lettori, rifacendomi alle riflessioni iniziali di Tiziano Terzani ho rispolverato con delicatezza, dalla mia memoria, questa (per me) preziosa sintesi di un dialogo con mia figlia Valentina, avvenuto una sera di sei anni fa nei garage del palazzo dove noi abitiamo. Ebbene, confesso di aver provato non poca difficoltà per articolare una risposta che fosse adeguata alle aspettative delle mie due figlie, in grado di chiarire senza demotivare

“Il giorno in cui il bambino si rende conto che tutti gli adulti sono imperfetti, diventa un adolescente; il giorno in cui li perdona, diventa un adulto; il giorno che perdona se stesso, diventa un saggio.” (Alden Albert Nowlan)

Care Figlie, come qualcuno ha scritto, la grande malattia del ventesimo secolo è la perdita dell’anima. E, per esperienza professionale posso dirvi che quando trascuriamo la nostra parte più intima, essa ricompare in vari disturbi fra cui, il più grave, è senz’altro quello della perdita di significato in ciò che facciamo…

I miei genitori hanno sempre accolto (in un modesto ma dignitoso appartamento di circa 90 metri quadrati) ogni parente avanti negli anni che si trovasse in difficoltà. In forza di ciò, io ho vissuto la mia infanzia mutuando molto di ciò che sono: una sorta di “numero primo” che, nella propria solitudine, “sente” una non appartenenza ad un contesto indisciplinato e fuorviante e va quotidianamente alla ricerca del senso della vita. Carico di dubbi ma, con, in testa, l’aspirazione a qualcosa di più elevato delle solite mete materialistiche della Società dei consumi. 

Come spesso ho detto e scritto, mio zio Pietro (fratello di mia madre) mi ha insegnato, ad esempio, quanto fosse importante, per lui (negli anni cinquanta del secolo scorso) recarsi negli stabilimenti di Arese, per ritirare personalmente le sue fiammanti Alfa Romeo e viverle, fin dai primi chilometri, alla stregua di un modello ideale capace di regalare momenti unici e irripetibili.

Care Figlie, ereditando simili principi, come ben ricorderete (anche se tu, cara Valentina, avevi soltanto pochi mesi di vita) non appena ho potuto (il 14 aprile del 2000), ho varcato la soglia di una porta di cristallo dai battenti serigrafati con i due simboli di Milano in evidenza: il serpente della famiglia Visconti su campo blu chiaro, e la croce rossa su campo bianco.

Finalmente, per me, la possibilità di provare ad assaporare lo stato d’animo dello “zio” (a cui, dicono, io somigli molto, fisicamente e come modo di pensare) coronare il sogno di siglare un contratto con cui legarmi ad un simbolo: l’operosità del genio italiano e il senso di appartenenza a quella razza in estinzione che non chiude gli occhi quando soffia il vento del pericolo ma, al contrario, continua a cercare una soluzione.

Due sentimenti, contrastanti, in quel momento.

Stupore nel notare che Mariarita si rifiutava di scendere da una fiammante GTA nero metallizzato, implorandomi di comprare proprio quel gioiello e leggero fastidio nell’osservare che, chi mi aveva accolto in concessionaria (cioè, il venditore), ignorava che, dietro una modulistica prestampata, in realtà, si celava l’opportunità di toccare con mano, quell’avvenimento storico trasfigurato e arricchito di particolari inventati dalla fantasia popolare, che si chiama leggenda.

Care Figlie, a distanza di più di venti anni da quello “storico” (per me) momento, non ho dimenticato che, la credibilità in se stessi si costruisce, prevalentemente, attraverso la verifica delle qualità e dei valori che siamo in grado di generare e trasmettere. Ciò che continuo a vedere e ad ascoltare, proveniente da un Mondo che fatico a riconoscere, mi ha fatto capire che, per evitare il freddo interiore, un po’ tutti non si possa fare a meno di parametrarsi, magari inconsapevolmente, col proprio “Se” bambino e con tutti i riferimenti che, in quel caleidoscopio emotivo, finiscono col farti credere vero anche quello che, vero, non è.

Sono d’accordo sul fatto che noi non siamo solo quello che mangiamo o l’aria che respiriamo ma molto di più: i panorami che abbiamo introiettato, le carezze che ci hanno donato, le favole con cui ci hanno addormentato da bambini, i libri che abbiamo letto, la musica che abbiamo ascoltato e le aspirazioni che ritenevamo adeguate al nostro considerarci invincibili

Dov’è il problema?

Fra le sagome degli alberi che si stagliavano sulle mura bianche dei monasteri, vidi l’ombra di un passante riflessa dalla Luna. Camminava lento, con la testa un po’ curva come chi, assorto negli inutili pensieri sul senso della vita, segue un funerale. Ero io”. (Tiziano Terzani)

La disillusione, l’essere costretti ad ammettere che, diventare grandi, significhi assumersi quelle responsabilità che cancellano dal tuo volto anche l’ombra di quel sorriso che, prima, trasmettevi da ogni poro.

Care Figlie, ogni giorno che passa mi accorgo del mio bisogno di costruire, anche se con la fantasia, una dimensione di realtà a misura di sostenibilità interiore.

Purtroppo, quell’insieme di persone organizzate a difendere il proprio egoismo a danno di chiunque che, spesso, prende il nome di “Società civile”, riconosce i sognatori e li marchia come psicotici e diversi da sé, pretendendo di reinglobarli in un sistema paradossale, composto da un sincizio in cui, ciascuno, vuole la sua nicchia.

Questo, la Medicina, la chiama CURA.

Ed io, da medico, ho scoperto che dietro quello che NON si dice, esiste un Mondo che attende qualcuno in grado di comprendere tutto quello che c’è, oltre l’apparente visibile.

Ed ecco che, alla base dei miei silenzi e (in parte) della ricerca della solitudine, c’è il bambino cresciuto un po’ troppo lontano dai richiami di una infanzia (cosiddetta) normale, fatta di “gruppo” e di scoperte fra coetanei.

E quindi, andando contro la mia abitudine di cavalcare da solo, ho cercato appartenenze. Non tanto per inserirmi in gruppi di potere quanto, piuttosto, per risolvere la mia propensione al rifiuto del lavoro di squadra e dandomi la possibilità di mutuare visioni diverse dalla mia. Continuando, comunque, lo studio e la ricerca introspettiva capace di ridurre presunzione e arroganza di chi, pur avendo un fratello, è cresciuto da figlio unico.

Come ho avuto modo di affermare altre volte, Io non ho affatto dimenticato che, quattro, sono le domande importanti della vita:

Cosa è sacro;

Di cosa è fatto lo spirito;

Per cosa vale la pena vivere;

Per cosa vale la pena morire.

Resto convinto anche del fatto che il minimo comune multiplo, sia l’Amore.

È solo che non sento più il bisogno di sentirmi figlio di qualcuno perché i miei genitori (così come mio “zio”), sono ormai parte integrante di me e i loro insegnamenti si modificano contestualmente al mio divenire, ogni giorno, più forte e più pronto ad accettare il futuro e, con esso, quello che sarà il mio Destino.

Nell’osservare lo scorrere dei granelli del tempo a mia disposizione, come quando dietro un dipinto ne scorgi un altro ancora più prezioso, ho spesso pensato alla leggenda di Neverland. Questo nome (per me alquanto evocativo) nasce dallo spirito della storia di un famoso autore scozzese: James Matthew Barrie (vissuto fra il 1860 e il 1937).

Stranamente, le sue commedie apparivano non abbastanza convincenti sul piano emotivo per cui non riscuotevano il successo che avrebbero meritato. Probabilmente ciò era dovuto ad una sorta di blocco per essere cresciuto con il dolore della perdita, in giovanissima età, di suo fratello David e della conseguente prostrazione materna.

Quello che gli cambia la vita è un incontro casuale con Sylvia Llewewn Davies e i suoi quattro figli, un giorno, mentre seduto a scrivere sulla panchina di un parco, si trovava in compagnia del proprio cane.

Da questa fortuita conoscenza si sprigiona un grande interesse per i quattro bambini, con i quali trascorrere molto del suo tempo libero e scoprire che, uno, Peter, è taciturno e sorride raramente, non avendo mai superato lo shock della perdita del padre.

James gli si affeziona particolarmente e, un po’ alla volta (forse, risvegliando in lui l’antica e mai sopita sofferenza), crea, con la sua fantasia, una delicata storia basata proprio sui quattro fratellini.

Il risultato è Peter Pan, una commedia che, il giorno della messa in scena (il 27 dicembre 1904) riesce a smuovere l’animo del pubblico (tra i quali anche 25 orfanelli invitati a proprie spese proprio) riscuotendo un grande successo.

Care figlie, un po’ come nell’immagine di copertina di questo editoriale, mi sento abbastanza simile al Peter “ingrigito” e un po’ ingrassato che, però non ha smesso di credere che, se si VIVE ogni giorno, non si invecchia mai: semmai si diventa “preziosi”, in quanto capaci di avere sempre qualcosa in più da raccontare.

Mia madre, vostra nonna, ogni volta che mi vedeva in difficoltà di fronte agli impegni della vita, mi raccontava un delicato spunto di riflessione di Khalil Gibran: “ Caro Giorgio, dicono che prima di entrare in mare Il fiume trema di paura. A guardare indietro tutto il cammino che ha percorso, i vertici, le montagne, il lungo e tortuoso cammino che ha aperto attraverso giungle e villaggi. E vede di fronte a sé un oceano così grande che a entrare in lui può solo sparire per sempre. Ma nessuno può tornare indietro. Il fiume deve accettare la sua natura ed entrare, quindi, nell’oceano. A quel punto (e solo in quel modo) il fiume scoprirà che non si tratta di scomparire nell’oceano ma di diventare oceano”.

Insomma non mi mancano gli elementi che, apparentemente, ho lasciato alle mie spalle. Sono imprescindibilmente in me. Forse, un giorno, mi concederò la libertà di reintegrarmi a pieno con il mio bambino interiore.

Vi chiedo solo di non credere a quello che la Società, scioccamente definisce come il risultato di un decadimento cognitivo perché, come ha scritto James Matthew Barrie, “C’è un’isola chenonc’è per ogni bambino(a prescindere dalla sua età). E sono tutte differenti”

Mio zio Pietro, tra l’altro (come spesso scrivo), mi ha anche spiegato il valore della Libertà come insieme di luoghi, persone e opportunità che ci aiutano a crescere, collezionando esperienze che vanno a definire il nostro carattere e insegnandoci la differenza fra ciò che è giusto e ciò che non lo è… aiutandoci a capire cosa essere e cosa diventare… legittimandoci nell’essere, autenticamente, noi stessi.

Questo Valore, care Figlie, se significa veramente qualcosa, ispira il modo in cui il mondo cambia. E appartiene, quindi, a tutti. Ma non è di nessuno.

Nessuno m’ha mai detto “Volerai”. Nessuno m’ha promesso “Non morirai”. Eppur senz’ali ho già volato tanto e “ora” senza alcun rimpianto, di promesse mancate, di cose incompiute, senza pena aggiunta mi preparo a volare un’altra volta (Tiziano Terzani)

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un particolare ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per gli ottimi aforismi suggeriti

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