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“Tutti gli esseri umani vogliono essere felici; peraltro, per poter raggiungere una tale condizione, bisogna cominciare col capire che cosa si intende per felicità”. (Jean-Jacques Rousseau). 

Cari Lettori non è, per me molto difficile trovarmi disponibile a rispondere ai quesiti che la gente mi pone. Questo, non tanto per arroganza o presunzione quanto, piuttosto, per una sorta di “verifica” interiore, al fine di scoprire quante cose non so.

Rammento, però, di quando ho ricevuto l’invito a partecipare, come relatore, ad un aperitivo filosofico in cui discutere di Felicità. Ancora oggi mi è chiara la sensazione di disagio interiore. Avrei, di sicuro, preferito che si parlasse dell’angoscia esistenziale. 

Sofferenza, quindi.

Mi domando, a questo punto, che senso abbia impegnarmi nello studio della mente umana se l’obiettivo non porta a vivere meglio, magari attraverso una migliore conoscenza.

Ho saputo da un amico che, il famoso Cesare Musatti, fondatore della Società Italiana di Psicoanalisi, alla domanda: “Qual è il suo stato d’animo, guardando il Mondo?” – pare che, così, abbia risposto: “Mi sento come una grande Mamma un po’ angosciata all’idea dei suoi figli sparsi in un ambiente così ostile!”

Dal momento che sto cercando di scoprire cosa sono diventato per, poi, capire meglio se (e quanto) io possa apprezzare il bello e il buono della Felicità, operando un’analisi introspettiva potrei dividere, sul piano temperamentale e caratteriale (come specchio dell’Anima, ovviamente) la mia vita (finora condotta) in quattro fasi importanti:

da zero a dodici anni (connotata dall’allegria tipica dell’età, simile, a volte a quella descritta dal Leopardi quando parla di chi sorride fidente trovandosi sull’orlo di un precipizio);

da tredici a venticinque anni (in cui, lo stato d’animo prevalente, è stato caratterizzato da una condizione di angosciato esistenzialismo per il sentirmi troppo piccolo di fronte ad un Universo troppo grande…);

da ventisei a quarant’anni (periodo di rinascita interiore, frutto dell’analisi personale condotta con il “Maestro” Giovanni Russo che mi ha consentito di dare colore e respiro a tutto ciò che mi ha circondato, con non poche crisi di maturazione, tanto dolorose quanto necessarie);

da quarantuno anni ad oggi (noto, in me, un sorriso convinto, nonostante il peso degli anni e dei tanti impegni, nella consapevolezza che nulla, o quasi, è come sembra alla luce delle disillusioni e che, di conseguenza, anche dentro di me, c’è molto, ancora da mettere a posto).

Cari lettori, qualcuno sostiene che, col progredire anagrafico si scopre che la felicità non la raggiungi inseguendo gli obiettivi che ritenevi importanti: non tendi più a prevalere come un gladiatore nell’Agone del quotidiano; cominci a capire che l’Amore di (o verso ) qualcuno non è, di per sé, un valore assoluto; non cerchi più le emozioni intense; non credi più all’importanza della scalata nel sociale…

Una sorta di pace interiore, insomma… ma con un sottofondo di leggera inquietudine che ricorda quell’angoscia dei momenti cruciali.

Forse perché, come sosteneva Ferdinando Pessoa, noi non ci realizziamo mai perché siamo due abissi: un pozzo che fissa il cielo.

Ma, allora, cosa ci vuole per essere felici?

Siccome esistono termini che vengono considerati sinonimi, proviamo ad intenderci sul loro reale significato. Solo allora, sapremo cosa cercare per determinare in noi, la sensazione di piacere. Comunque lo vogliamo chiamare.

Quand’è che possiamo definirci contenti?

Ognuno di noi crede di esserlo, quando è carico di gioia e sprizza gaiezza. Ebbene, questo termine deriva dal Latino “contenere”: quindi, il diritto di sentirci “contenti” ogni volta che avremo l’animo appagato e lo dimostremo con dolce, calma e beata tranquillità!

Allo stesso modo, ci troveremo pervasi di Gioia (dal LatinoIocum iocare), a condizione di avere uno stato d’animo particolarmente positivo in conseguenza di qualcosa che piace come un gioco. E (sempre secondo la derivazione etimologica) se la gioia deriva da una condizione amorosa (verso un partner, un elemento divino, etc.), allora diventa “Gaudio”!

Quindi, saremo Allegri (dal Latino Alacer) quando ci sentiremo motivati e disposti a darci da fare, per goderci la vita.

E felici?

Ricordo di aver chiesto a mia madre, tanto tempo fa, di aiutarmi a capire come amare la vita. Lei mi spiegò che “Felicità” è un termine di derivazione latina (Felicitas), che si riporta al verbo greco Feo (PHYO)con il significato di produttore di Fecondità: in sostanza ricchezza interiore.

Ricavai, allora, di poter definire la felicità come quello stato d’animo di “pienezza” emotiva che consegue al raggiungimento di un obiettivo importante per il quale ci si è impegnati a fondo; è tipico dell’essere umano realista (che sa valutare correttamente il positivo ed il negativo della vita sapendo apprezzare ciò che ha e quello che può ottenere) il quale ha acquisito, mediante l’esperienza, la capacità di produrre benessere, cioè quella condizione temporanea, conseguente allo stato di equilibrio metabolico psicofisico (OMEOSTASI) che deriva dall’appagamento dei propri “bisogni” (personali e sociali).

Sempre che la nostra personalità non soffra di troppe conflittualità irrisolte…

E allora, guardandomi “dentro” non posso non notare la necessità di migliorare quegli aspetti che, gli esperti chiamano “le funzioni dell’IO” (la “mediazione” tra Es e Super-Io; la capacità di un buon esame di realtà, una oggettiva immagine di sé; un corretto orientamento spazio-temporale; una adeguata capacità di giudizio; un controllo delle pulsioni; una tolleranza delle frustrazioni, etc.)

Volendo essere pragmatici…

… ho percepito la necessità di crearmi e, soprattutto, consapevolizzare degli obiettivi di vita:

  • a “breve” temine;
  • a “medio” termine;
  • a “lungo” termine.

Fra i miei obiettivi a “breve” termine…

“Se stai bene di pancia, di polmoni e di piedi, tutte le ricchezze del mondo non potrebbero aggiungere nulla alla tua felicità” (Virgilio). Imparare ad utilizzare correttamente i 5 sensi che la Natura mi ha donato dando importanza, ad esempio, a tutto quello che, nonostante tutto, nel mio quotidiano, va bene (efficienza psicofisica – eventi positivi cui non si dà importanza);

E crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose… e impari che il profumo del caffè, al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano gli aromi di una cucina, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve, fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che, in sordina, allargano il cuore” (Il gabbiano Jonathan Livingstone).

Nei miei obiettivi a “medio” termine…

Propormi dei progetti mediante i quali ottenere una realizzazione (relativa a quel progetto) e che riguardi uno dei seguenti capisaldi dell’esistenza:

  • Lavoro;
  • Emozioni affettive;
  • Tempo libero da dedicare al rapporto con la mia Identità;

Come obiettivi a “lungo” termine…

Imparare a vivere secondo una dimensione umana corretta, riuscendo ad appagare sempre meglio il senso di Autostima e quello di Autoaffermazione:

  • ponendomi domande “intelligenti”;
  • cercando risposte adeguate;
  • applicando, nella vita quotidiana, i risultati delle buone riflessioni;
  • facendo tesoro delle esperienze conseguenti;
  • mantenendo il gusto verso il nuovo… così come fanno i bambini!

Abbiamo soltanto la felicità che siamo in grado di capire. (Maurice Maeterlinck)

Cari Lettori, ritengo di poter essere ascritto nell’elenco di coloro a cui piace studiareProbabilmente leggo meno libri di quanto dovrei…Non riesco a trovare energia mentale a sufficienza. Ad una certa ora, il mio cervello reclama la propria libertà dalle costrizioni cui lo sottopongo. E allora, dopo aver assorbito molte letture saggistiche (monografie tematiche di approfondimento), mi resta una certa voglia di entrare nelle vite degli altri. Ma non come psicoterapeuta. Solo per curiosare in punta di piedi.

Ecco che, nel tempo, ho imparato a dare importanza a quello che ascolto e osservo, durante ogni istante della mia giornata. Percorro molti chilometri in automobile e, da un po’, anche in bicicletta. Ma, quando ci riesco (poche volte, ahimè), mi perdo, a piedi, sui monti della Sila, lungo sentieri che non ci trovi nessuno. Sono questi, i momenti in cui uso l’auricolare del mio Device per ascoltare palinsesti radiofonici culturali e scientifici, conditi da musica e parole. Oppure osservo Sally, uno dei Barboncino di famiglia, che mi dà lezioni sulle Leggi di Natura.

E allora immagino, come in alcuni versi di Lucio Dalla, di volteggiare sopra i tetti delle città, mescolarmi con l’odore del caffè, fermarmi sul naso della gente mentre leggono i giornali; girare il cielo per fermarsi, ogni tanto a curiosare qua e là volare con la polvere dei sogni inseguendo ogni battito del cuore, per capire cosa succede dentro e da dove viene, ogni tanto, questo strano dolore…

Seduto sulla spiaggia deserta cerco di concentrare la mia mente su un vecchio detto indiano che nel dormiveglia mi è entrato in testa e non se ne va: “L’uomo dice che il tempo passa. Il tempo dice che l’uomo passa” (Tiziano Terzani).

Come si fa ad incolpare chi ti rende, col suo modo di essere, particolarmente sensibile?

Eppure, forse, mia madre avrebbe potuto contenersi, allorquando mi ha riempito di tutto ciò che mi ha, un po’ alla volta, facilitato il “sentire” empatico…

Si perché quando impatti con quella realtà che ti costringe ad ammettere che, in fondo, nessuno ti cede quello che ritiene essere importante (Nemmeno quando diventa superfluo) anche se a te serve come l’aria, essere particolarmente “sensibili”, aumenta il disagio e la sofferenza.

E nonostante mi sia convinto del fatto che la libertà sia, senza dubbio, un valore primario, quando ti accorgi di essere una preziosa porcellana in mezzo a vasi e mazze di acciaio, a volte puoi solo decidere il sistema e la tempistica, per togliere il disturbo. Magari prima possibile.

Ogni tanto mi fermo a pensare, soppesando le idee… in fondo, come alcuni cani di quartiere, avrei voluto soltanto un pezzetto di giardino nella cui vegetazione nascondermi. E, da lì, osservare il Mondo, per capire la differenza che c’è, se c’è, fra l’Inferno e il Paradiso.

Ecco, se fossi stato un cane, credo che (magari senza l’irruenza dei barboncini della mia famiglia) mi sarebbe piaciuto saltellare felice accanto ad una mano affettuosa, anche a dividere il nulla. Ma con grande sentimento. L’affetto sincero, infatti, può far vivere di rendita. Famiglia, spesso, ha il vero significato quando trovi qualcuno a guardarti le spalle e, al tempo stesso, a sorriderti e tranquillizzarti anche quando ti trovi sul bordo di un precipizio. La tranquillità consiste nel sapere che, all’occorrenza, si andrà giù insieme.

Che bello, togliersi per un po’, il peso delle tante responsabilità….

I giri mentali cui sottopongo la mia mente visto e il mestiere che svolgo e i valori che perseguo, mi identificano con chi passeggiando sotto la pioggia come un randagio nella notte, vede uomini lasciarsi andare, donne pentirsi di scelte che non avrebbero rifatto e bambini con uno sguardo a metà fra l’ingenuità e la malvagità come via necessaria alla contestualizzazione che ti evita di sparire fra i flutti dell’indifferenza.

Ecco, io provo a star loro accanto, cercando di dire poco o nulla, per tentare di far capire che la vita, spesso, è una questione di punti di vista e di osservazione. Dipende da dove ti siedi e cosa decidi di guardare.

In fondo, anche questo è Amore. Un modo di condividere ciò che la solitudine insegna.

Corriamo spensieratamente verso l’abisso, non prima di aver messo qualcosa tra noi e lui per impedirci di vederlo (Blaise Pascal)

Cosa credo che mi riserverà il futuro? Più o meno quello che sarò stato in grado di realizzare con la mia opera e con il mio modo di essere. Certo, si tratterà di conciliare due opposti estremismi: quello che vuole il Sociale e quello che si aspetta la mia Identità.

Quindi, credo, continuerò a vivere nel confronto con gli altri, individuando percorsi di “esposizione” sociale (perché è solo così che ti puoi garantire quella libertà relativa che ti consente l’autonomia dal dipendere dal potente di turno) pur con l’aspirazione di un contesto bucolico dove il denaro, ad esempio, non conta e il lavoro si svolge solo perché ti piace farlo.

Cari Lettori come sempre, l’immagine di copertina genera attinenza con quanto riportato nell’articolo. In questo caso, però, assume un valore in più soggettivo: mi rivedo, infatti, nel bambino che, allontanandosi dal proprio oggetto transizionale (l’orsetto di peluche, che ricorda il contatto col materno perduto) protende lo sguardo verso la Luna che, esotericamente rappresenta le profondità del nostro Io nascosto, tenendo il conto dei vari cicli della vita (come, ad esempio, le maree) per calcolare il tempo della semina e quello del raccolto.

Riconosco, in me, la presenza di più di un pensiero felice: il momento del primo abbraccio materno, la nascita delle mie figlie, ad esempio, l’incontro con i begli occhi che mi hanno amato e che ancora mi portano “dentro”, le prospettive di realizzazione futura…

Credo, però, che la luce in fondo al mio tunnel sia il punto in cui la mia creatività raggiungerà l’apogeo della Libertà. Quando, cioè, la mia Identità si fonderà con l’essenza di cui tutti siamo composti, in un quel luogo di Energia e materia Oscura dove smetti di esistere come Persona per diventare parte del “Tutto”. Dove, per intenderci, quello che il bruco chiama “fine del Mondo”, il resto del mondo, lo chiama “Farfalla”.

C’è un’ape che si posa su un bottone di rosa: lo succhia e se ne va. Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa. (Trilussa)

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per gli spunti di riflessione

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