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In questi giorni di sobbalzi Istituzionali, di agguati e perfide tirannie sul carcere, sulle leggi, sulle persone detenute, c’è quanto occorre per  soppesare il mal di pancia di un paese, il malessere-disagio sociale che recide il valore delle relazioni. E’ sufficiente smanettare nella rete, saltellando da un blog all’altro, c’è il furore e la rabbia che deriva dalla non conoscenza della realtà quella vera in cui la galera sopravvive, un metodo assai poco propenso a educarci a conoscere per davvero quanto ci circonda.

Di fronte a questo pasticcio delle intenzioni, delle pratiche consolidate del potere che non è servizio, nello sparare nel mucchio, nel fare di tutta l’erba un fascio, accade di re-inventare veri e propri castelli di sabbia, narrative affascinanti, ma fuorvianti le responsabilità di parolai interessati e intenzionali, incapaci di mettere in campo una giustizia equa, una solidarietà costruttiva, che non dimentica le priorità di tutela a garanzia delle vittime di soprusi e omertà, ma che da questo punto di partenza rilancia nuove opportunità di riparazione e riconciliazione da parte del detenuto.

La Società non è qualcosa di astratto, che si riduce al parlato, al raccontato, è piuttosto una comunità fatta di  persone, di istituzioni, di regole autorevoli da rispettare.

Come è possibile parlare di centinaia di cittadini detenuti in 41 bis scarcerati per il covid-19?

Tre detenuti posti agli arresti penitenziari, tre, non trecento e neppure seicento, soltanto tre. E ognuno in età avanzata, ciascuno con patologie gravissime conclamate, incompatibili con la galera, come afferma la legge, non il primo che s’alza la mattina e decanta la propria arringa acchiappa voti.  Per non parlare dei centri clinici carcerari completamente inefficaci e addirittura quasi privi di personale.

Il carcere è società, non certamente una manciata di feudi out rispetto alle normative statuali, ma soggetti fondanti lo stato di diritto, eppure il carcere è diventato quotidianamente un caso che desta interrogativi, inquietudini, sordamente rispedite al mittente.

Dentro le celle ci sono persone che scontano la propria pena, persone che lavorano, altre che svolgono il proprio servizio volontaristico, si tratta in ogni caso di cittadini, siano essi detenuti, o che prestano la loro professionalità, che consegnano il loro tempo alla speranza di tirare fuori insieme il meglio da ogni uomo privato della libertà. Ma ciò può essere raggiunto unicamente operando con lo strumento dell’educare, non con la solita reiterata omertà  per impedire la comprensione, la possibilità di una parete di vetro, dove osservare quel che accade, o purtroppo non accade per niente, perché il diritto è sottomesso e violentato dal sovraffollamento, dagli eventi critici che poi non sono mai così inspiegabili, dai problemi endemici all’Amministrazione.

Il rispetto per il valore di ogni persona ha urgenza di essere inteso non come qualcosa di imposto, ma come una condizione esistenziale da raggiungere attraverso l’esempio di persone autorevoli, anche là, dove lo spazio ristretto di un cubicolo blindato, non dovrebbe mai annientare la dignità del recluso.

Se è vero che le vittime sono quelle che soffrono dimenticate nella propria solitudine, se i parenti delle vittime se la passano peggio dei colpevoli, occorre davvero fermarci a riflettere, pensare quale società desideriamo, di conseguenza quale carcere condividere, e non rimanere indifferenti a un penitenziario ridotto all’ ingiustizia di una afflizione fine a se stessa.

Forse come ha ben detto qualcuno:  le intelligenze del nostro tempo dovrebbero mobilitarsi per creare un sistema penale del ventunesimo secolo. I giuristi ripensando la pena, gli altri immaginando i modi con i quali è possibile ristabilire la relazione tra la comunità e chi l’ha ferita. Altrimenti il potere penale continuerà a lacerare la comunità, imponendo la purezza dell’ordine dello Stato sul disordine della vita.

Vincenzo Androuss

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