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“Ti sento nell’aria che è cambiata; ti sento passarmi nella schiena. Ti sento nel mezzo di una strofa: lo stomaco si chiude, Il resto se la ride appena ridi tu. Ti sento e parlo di profumo. T’infili in un pensiero e non lo molli mai. Io ti sento al punto che disturbi, al punto che è già tardi. Rimani quanto vuoi: qui con la vita non si può mai dire. Arrivi quando sembri andata via. Ti sento dentro tutte le canzoni In un posto dentro che so io…” (Luciano Ligabue – Ti sento)

Premessa

Nel 1992, un ricercatore israeliano di nome Raphal Mechoulan, della Hebrew University di Gerusalemme, scopre, durante un ciclo di esperimenti, che il cervello dei mammiferi produce sostanze che hanno caratteristiche simili alla marijuana e all’hashish e vengono definite, appunto, endocannabinoidi. Questa acquisizione ha portato gli ambienti scientifici a concludere che, sul piano strettamente biochimico, ogni essere umano ha, in potenza, la possibilità di riprodurre gli effetti euforizzanti di questi elementi, senza effetti collaterali, però.

Procedendo con gli studi di laboratorio, ci si è resi conto del fatto che, topi geneticamente modificati hanno dimostrato che la mancanza di queste molecole di endocannabinoidi, determina una maggiore sensibilità al dolore, un difficile controllo della fame e non pochi problemi nella gestione dello stress con notevole produzione di ansia.

Uno degli aspetti più particolari e, a suo modo,”eccitanti”, legati alla scoperta del recettore degli oppiacei era la constatazione che non ha alcuna importanza se si è una cavia, una FIRST LADY o un tossicodipendente: abbiamo tutti nel cervello esattamente lo stesso meccanismo fatto per creare la felicità ed “espandere” la capacità di percepire la propria coscienza.

Encefaline o Endorfine?

L’unico motivo che giustifichi l’esistenza di un recettore degli oppiacei nel cervello consiste nel fatto che il corpo stesso produce una sostanza chimica organica che si adatta a quella minuscola serratura, cioè un oppiaceo naturale. Questa sostanza fu inizialmente battezzata col nome di encefalina, (dalla radice di una parola greca che significa “testa”). In seguito, nel corso di un’accesa competizione per rivendicare la priorità della scoperta, fu ridefinita (da ricercatori americani) endorfina, nel senso di “morfina endogena”. Questa è la definizione rimasta nell’uso scientifico corrente.

Il termine cannabinoide, si riferisce alle sostanze estratte dalla Cannabis sativa, o canapa indiana, fonte naturale dell’hashish e della marijuana. Questa pianta, della famiglia delle cannabinacee, cresce allo stato selvatico in varie parti del mondo, raggiungendo i 3-5 metri di altezza. Il primo documento storico a riportarne l’utilizzo, è un erbario imperiale cinese del 2727 a.C., ma si ritiene che se ne sia usufruito in ambito religioso, medico o personale (per scopi stupefacenti) ancora prima. Nell’Ottocento, veniva usata terapeuticamente sotto forma di tintura alcolica sia in Europa sia negli Stati Uniti, dove è rimasta legale fino al 1937. La Cannabis contiene più di 400 sostanze chimiche diverse, ma il principale composto psicoattivo è il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), la cui struttura è stata determinata nel 1964.

I principali effetti della Cannabis sono definiti “psicoattivi” e amplificano, di fatto, degli stati d’animo latenti. Questo meccanismo si determina ogni qual volta il suo principio attivo, il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), appunto, si lega a un recettore chiamato cannabinoide-1 (CB1). I topi a cui manca questo recettore sono quasi immuni all’hashish, ma manifestano i disturbi descritti prima.

Ma per quale ragione ci sono recettori per una sostanza prodotta da una pianta?

“Tu che conosci il cielo saluta Dio per me e digli che sto bene, considerando che non conosco il cielo però conosco te. tu che conosci il cielo e poi conosci me le sai le mie paure mi sa che sai il perché… che non conosco il cielo.” (Luciano Ligabue – Tu che conosci il cielo)

Per essere precisi, non sono gli endocannabinoidi a simulare gli effetti della marijuana, ma è quest’ultima che imita l’azione chimica degli endocannabinoidi del cervello. Comunque, lo scopo principale, pare, sia quello di proteggere i neuroni dai rischi dell’iperattività.

Raphal Mechoulan tra l’altro, si è reso conto del fatto che, ai recettori CB1 (presenti non in tutto il cervello ma concentrati in determinate aree la cui distribuzione suggerisce che il sistema cannabinoide endogeno assolve a specifiche e considerevoli funzioni) si lega anche un acido grasso, prodotto dai neuroni, ribattezzato “anandamide”, dalla parola ananda, che in sanscrito significa beatitudine. Poco tempo dopo, Daniele Pomelli e Nephi Stella, dell’Università di California a Irvine, hanno individuato una seconda sostanza con le stesse proprietà. Il nostro cervello, insomma, produce marijuana in proprio, e in diverse varietà.

Ruoli “Cruciali”

I recettori degli endocannabinoidi sono concentrati in specifiche regioni dell’encefalo. Per questo motivo hanno un ruolo cruciale nello svolgimento di diverse funzioni neuropsichiche. La loro distribuzione spiega anche alcuni comportamenti associati al fumo di marijuana e fa prevedere il potenziale bilancio tra conseguenze positive e negative di farmaci che minano gli effetti degli endocannabinoidi in pazienti che soffrono di dolore cronico o altri disturbi.

Per esempio, molti recettori “Cannabinoide-1” (CB1), si ritrovano nell’ipotalamo, che svolge un ruolo fondamentale nel controllo dell’appetito, e nel cervelletto, che controlla il coordinamento muscolare. Sono molto diffusi anche nell’ippocampo, una regione importante per la formazione della memoria, e nell’amigdala, che è coinvolta nell’emozioni e nella gestione delle tensioni ansiogene. Infine i CB1 si trovano anche nella corteccia cerebrale, sede delle principali funzioni della nostra coscienza.

“Specchietto” indicatore

Dato il ruolo degli endocannabinoidi, non è difficile riconoscere i segni principali che indicano il consumo di sostanze psicoattive come hashish o marijuana. Tra gli altri, atteggiamento calmo, scarso coordinamento motorio, percezioni sensoriali alterate e, a volte, attacco irrefrenabile di fame.

Feedback controcorrente e protezione dall’epilessia

“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno, giuro che lo farò, e oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò. Quando la donna cannone d’oro e d’argento diventerà, senza passare dalla stazione l’ultimo treno prenderà. E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà, dalle porte della notte il giorno si bloccherà, un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà e dalla bocca del cannone una canzone suonerà. E senza fame e senza sete e senza aria e senza rete voleremo via” (Francesco de Gregori – La donna cannone).


La cosa apparentemente anomala nel ruolo svolto dagli endocannabinoidi a livello di modulazione intersinaptica (cioè dello scambio di informazioni fra un neurone e l’altro), consisteva nella direzione della comunicazione invertita. Di solito, quando un neurone si attiva, l’impulso elettrico viaggia in un primo momento lungo il suo prolungamento chiamato assone, fino al termine del medesimo: il “bottonicino presinaptico”. In questa terminazione dell’assone, la corrente provoca la liberazione dei neurotrasmettitori, e il messaggio elettrico si trasforma in messaggio chimico che attraversa questo minuscolo spazio tra i neuroni, raggiungono il recettore del neurone successivo (il bottoncino post sinaptico dendritico) e lo fanno “accendere”. In questo modo, l’impulso si propaga, nella giusta direzione, per tutto il sistema nervoso.

Gli endocannabinoidi, invece, sono sintetizzati nella membrana cellulare del neurone ricevente, e attraversano lo spazio sinaptico al contrario, raggiungendo il neurone precedente. Qui, si determina uno “scambio di vedute” per cui, alla fine, si smette di produrre sostanze eccitatorie favorendo una distensione dell’umore e determinando una sorta di protezione dei neuroni nei confronti di eccitazioni elettriche eccessive come accade, ad esempio, nelle scariche epilettiche.

Spiega Andreas Zimmer, il neurobiologo dell’Università di Bonn che ha contribuito a definire il meccanismo di comunicazione retrograda: “Gli endocannabinoidi sono un sistema di feedback con effetto inibitorio. Il neurone ricevente segnala a quello trasmittente: Messaggio ricevuto. Smettila di bombardarmi, ho capito!”.

Un “rimedio” antico?

Secondo il cronista arabo Ibn al Badri, gli effetti inibitori dell’hashish erano noti già nel XV secolo alla corte del califfo di Baghdad, dove fu usato per guarire gli attacchi di epilessia il figlio di un alto funzionario. Le crisi epilettiche si verificano quando nel cervello si scatenano tempeste di segnali bioelettrici inviati tutti insieme, perché non c’è alcun segnale inibitorio per fermarli. Oggi vi sono persone epilettiche che fumano regolarmente Cannabis per controllare gli attacchi. Attenzione, però, perché, dal momento che l’organismo modula i suo messaggi in maniera complesse e, soprattutto in stretta sinergia con il “comparto” psichico, succede che, in tante altre persone la stessa terapia peggiora le crisi.

La maggioranza degli esperti è comunque d’accordo che la funzione principale degli endocannabinoidi consiste nel proteggere i neuroni dall’iperattività. Beat Lutz, chimico e medico dell’Università di Mainz, in Germania, sostiene che è come se il cervello si fosse costruito una sorta di freno d’emergenza a cui ricorrere in caso di bisogno. “Quando si profila la minaccia di una tempesta neuronale, per scongiurarla vengono liberati gli endocannabinoidi Questo meccanismo di protezione assolve a una funzione importante, che va ben al di là dell’epilessia. È probabile che si tratti di un principio di validità generale: se il cervello ha un problema, produce endocannabinoidi”.

Proteggersi dal Parkinson?

A medesime conclusioni è arrivato il gruppo del prof. Andrea Giuffrida all’Università del Texas a San Antonio su malati di Parkinson. In certe regioni del cervello di questi pazienti muoiono i neuroni che producono la dopamina (un neurotrasmettitore che serve a coordinare gli impulsi legati ai movimenti) causando i disturbi tristemente famosi (tremore a riposo, etc.). siccome esiste anche una tossina che ha un effetto simile, ovvero distrugge i neuroni dopaminergici in modo da provocare sintomi simili al Parkinson, Giuffrida l’ha iniettata nei topi del suo laboratorio pochi minuti dopo avergli somministrato un cannabinoide sintetico. Risultato: il cannabinoide ha protetto i roditori dall’effetto distruttivo della tossina.

Endorfine e paure

Le ricerche stanno spiegando anche gli effetti psicologici dei cannabinoidi. Dopo aver addestrato le “solite” povere cavie da laboratorio ad aver paura di un certo stimolo, si è poi insegnato loro che lo stimolo non era più minaccioso, cancellando la paura. Tuttavia, agli animali privati sperimentalmente dei recettori CB1 (I captatori di endorfine, per intenderci) la paura non sparisce. Un simile esperimento, dimostra che gli endocannabinoidi, sono essenziali nell’attenuazione delle emozioni negative e nello smaltimento delle conseguenze delle sindromi da stress post-traumatico e delle fobie.

Le preoccupazioni scientifiche

“Eccomi qui, grumo di mastice e sangue topazio. Grida di gioia e indicibile strazio. Abbracci e baci d’intorno, ricomincia ogni giorno nuova vita o ritorno? E ogni volta è così: strappo violento e spavento inaudito fronte bagnata segnata col dito e poco c’è da sapere: con passo incerto cadere, senza mai darlo a vedere…Eccomi qui, soldato semplice e sangue corallo e poco c’è da sapere: curarti e darti da bere senza mai darlo a vedere” (Pacifico – Ricomincia ogni giorno).

A chi propone la somministrazione di farmaci (o altre sostanze psicoattive similari, come ad esempio, la marijuana) gli esperti di neuroscienze, però, pongono delle obiezioni non trascurabili. Il cervello, infatti, è un sistema delicato, fatto di stimolazioni e inibizioni e gli endocannabinoidi lo mantengono in equilibrio. Tutti i prodotti di sintesi, invece, non arrivano solo nelle sedi “opportune” ma si diffondono in tutto il cervello, provocando effetti diversi, tra cui vertigini, sonnolenza, problemi di concentrazione e ragionamento e, inoltre, possibili danni a livello delle zone deputate alla memorizzazione.

Conclusioni

Non rimane che imparare a rispettare i principi in base ai quali, il nostro organismo, “spontaneamente”, produce endorfine. Una sana attività fisica (che aiuti a recuperare un momento di accordo conciliativo con se stessi, evitando inutili stress), una buona compagnia (amici e affetti, in particolare), l’applicazione di pratiche di meditazione e rilassamento autogeno, la lettura di un buon libro e l’ascolto di musica che “piace”. Questi sono esempi da prendere in seria considerazione. Per chi, invece, vuole “vivere” in maniera soddisfacente e continuativa, elevati standard di qualità , non rimane che l’osservazione di due, fondamentali, punti d’arrivo: autostima e autoaffermazione.

“Io e il mio cane… addormentati, da un nascondiglio rasserenati. Nessuna impresa, nessuna attesa Così… Io e il mio cane, lo stesso passo a cercare il mare. Scende in strada corre e vola: è il suo modo di ridere, di cantare a squarciagola . Io e il mio cane, caduti in piedi. Se non ci vedi mai più tornare sappiamo di un posto che non si vede da qui: E non c’è giorno che non sia così” (Pacifico – Io e il mio cane)

Bibliografia

  • Ulrich Kraft – Mente & cervello n.23, anno IV, settembre-ottobre 2006 – Ed Somedia
  • Wilson R.I. e Nichol R.A. – Endoanabinoid signaling in the brain – Scienze – Vol. 296
  • Bilkei – Gorzo A. e altri – Early Age – Relted Cognitive impairment in Mice Lacking Cannabinoid C1 Receptors – Procedings of the National Academy of Sciences – Vol. 102 n° 43

Dr. Giorgio Marchese – Medico Psicoterapeuta – Docente di Fisiologia Psicologica e Vicedirettore Scuola di Specializzazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID Roma / Bari / Rimini (13.02.2007)

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