“La durata delle cose, misurata a periodi, specialmente secondo il corso apparente del sole”: questa è la definizione generica del concetto di “tempo” fornita da un comune dizionario della lingua italiana.
Eppure, proprio attorno a tale categoria ed a ai suoi molteplici significati (di ordine storico, filosofico, o di natura astronomica), si è come addensata una coltre di fumo accecante, densa di luoghi comuni e rozze ovvietà, che sono persuasioni assai diffuse nella vita quotidiana di noi tutti. Gli stereotipi sul “tempo” paiono proliferare senza soluzione di continuità, e quasi tutti, eccezion fatta per quei fenomenali campioni della lingua e del sapere umano, se ne servono abitualmente, forse inavvertitamente, magari per riempire il vuoto raccapricciante di certe conversazioni, in altre parole per coprire i “tempi morti” della nostra esistenza.
Sovente infatti, ci capita di ascoltare asserzioni totalmente insensate, che farebbero inorridire le nostre menti qualora fossimo soltanto un po’ più attenti e riflessivi, meno pigri o distratti.
“Ammazzare il tempo”, tanto per citare uno dei casi più dozzinali, è un modo di dire quantomeno sciocco perché non significa nulla se non che si uccide la propria esistenza.
La persona che “ammazza il tempo”, cioè che impiega malamente il proprio tempo vitale, non sapendo cosa fare, non avendo interessi gratificanti, né occupazioni di tipo mentale (come leggere e scrivere) o di carattere fisico (come gli sport), tali da motivare il vivere quotidiano, non coltivando passioni che potrebbero impreziosire la qualità del proprio tempo esistenziale, finisce per annichilire sé stessa, divenendo un essere ansioso, depresso, accidioso, ma non ozioso.
Invero, l’otium dei latini (che per il cristianesimo più bigotto, influenzato da filosofie mistiche orientali e da una forma volgarizzata dello stoicismo, rappresenta il vizio supremo: infatti, l’accidia è compresa tra i “vizi capitali” osteggiati dalla tradizione giudaico-cristiana), che era l’ideale di vita proprio della cultura classica greco-romana (ispirata, invece, da una concezione epicurea, nutrita da orientamenti filosofico-esistenziali che privilegiavano la ricerca della felicità e del piacere di vivere quali finalità somme da perseguire in quanto capaci di liberare l’intrinseca natura della persona umana ), era ed è la condizione dell’individuo privilegiato, del ricco padrone di schiavi, padrone della propria e dell’altrui vita, della persona che non è costretta a lavorare per sopravvivere, che non deve travagliare e può dunque sottrarsi alle fatiche materiali necessarie al procacciamento del vitto e dell’alloggio, non ha bisogno di stancarsi fisicamente perché c’è chi si affanna per lui, e può dunque godersi le bellezze, il lusso e quanto di piacevole la vita può offrire.
L’ otium, in altre parole, è il modus vivendi del padrone aristocratico, del patrizio romano, del parassita sfruttatore del lavoro servile, che non fa nulla ed ha a sua disposizione tutto il tempo per poterlo occupare nella “bella vita”, ovvero in un’esistenza amabile e gaudente per sé, quanto detestabile e dolorosa per i miseri che nulla posseggono, neanche il proprio tempo, sprecato ed annullato per ingrassare e servire i propri simili!
Tutto ciò è vero, purtroppo. È vero, infatti, che non tutti detengono il privilegio o la fortuna (che dir si voglia) di avere molto tempo libero disponibile, da poter spendere in diverse e divertenti attività (la radice etimologica dei vocaboli “diverso” e “divertente”, è la medesima: entrambi derivano dal latino “di-vertere” che sta per “deviare”, ovvero “variare” ).
Anzi, la grande maggioranza degli individui sulla Terra, ancora oggi è costretta suo malgrado a travagliare, a patire, insomma a lavorare per sopravvivere, chi cacciando e vivendo primitivamente, chi coltivando la terra, chi sprecando otto, nove ore a sgobbare in fabbrica, o ad annoiarsi in ufficio, chi occupandosi inutilmente di “affari”, ossia di faccende non gratificanti ma stressanti e frustranti, al solo scopo di lucrare e speculare!
È d’uopo invece, comprendere che il tempo (quello vitale) degli individui, dell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi, rappresenta una risorsa di valore inestimabile, non sul piano economico-materiale, ovvero nel senso venale e più triviale (un altro luogo comune, vergognoso e detestabile, recita: “il tempo è denaro”, ed è abitualmente pronunciato dai cosiddetti “uomini di affari”, i signori del denaro e della finanza, i paperon de’ paperoni, ovvero i parassiti e i nullafacenti della società odierna, gli arrivisti e i carrieristi, gli approfittatori dell’altrui tempo, dell’altrui denaro e dell’altrui ingenuità, gli sfruttatori del lavoro sociale e dell’esistenza dei più miserabili e sventurati), bensì da un punto di vista più propriamente estetico-spirituale, che comprende la sfera del piacere, della bellezza, del godimento, dell’intelligenza, della cultura, dell’arte, dell’amore, della fantasia, dell’immaginazione, della felicità, cioè la dimensione creativa, ludica, libidinosa, della vita.
Il tempo, nella maggioranza delle esistenze individuali, viene sprecato e speso male, se non malissimo, ovvero viene “ammazzato”, svuotato di ogni senso proprio, sicché è la propria vita ad essere abbruttita ed impoverita, e la persona umana si sente avvilita, inutile, quasi disperata, priva di stimoli, di interessi, di entusiasmo, di voglia di vivere.
Il “tempo”, nella fattispecie quello climatico, è frequentemente citato quale insulso e comodo oggetto di conversazione, nel desolante vuoto dell’incomunicabilità e dell’alienazione moderna, quando con sgomento si scopre di non sapere cosa dire, di quali argomenti chiacchierare, con un interlocutore qualsiasi o con un compagno d’occasione, o magari con una personalità oltremodo imbarazzante, la cui ingombrante presenza ci infonde soggezione, oppure quando ci si sente mentalmente affaticati e non si è in grado di elaborare idee originali o di sostenere valide argomentazioni, ovvero perché non si è molto abili o educati all’arte della conversazione e della comunicazione.
Il “tempo atmosferico”, come tema di dialogo e di confronto interpersonale, risulta perciò una sorta di via di scampo o di “uscita di sicurezza” dall’imbarazzo, dalla stanchezza e dal vuoto dell’incomunicabilità, dalla povertà intellettuale, ma in realtà conduce all’abisso dell’ovvietà e della noia, allo squallore dell’ipocrisia, precipitando infine nel baratro dell’angoscia e dell’ignoranza più becera. Frasi trite e ritrite del tipo “che tempo fa oggi?” o “il tempo minaccia…” ecc., talvolta sono spie inequivocabili, che tradiscono la soggezione emotiva, la goffaggine e l’imbarazzo personale, l’incapacità e l’ingombrante difficoltà di comunicare, il conformismo esistenziale e culturale, oppure indicano un atteggiamento di astuzia, di falsità, di “temporeggiamento” (paradossalmente, il “tempo”, come categoria atmosferica, è in taluni casi adoperato quale espediente per “temporeggiare”, vale a dire “prendere tempo”, così da poter pensare ad altro, in attesa che qualcosa accada!), ovvero esprimono il desiderio di indugiare oltre, l’ansia di “guadagnar tempo” (appunto!), magari perché si tenta di approfittare di qualcosa o di qualcuno. Da questo punto di vista, i luoghi comuni e le convenzioni sul “tempo”, inteso nella più comune accezione meteorologica, si sprecano a dismisura, e quel concetto , sì tanto nobile e complesso, finisce per essere assurdamente involgarito e banalizzato come in nessun altro caso, al solo fine di camuffare un pauroso vuoto di idee, per dissimulare propositi malvagi, per mascherare, in modo maldestro, emozioni, intenzioni, stati d’animo o quanto possa apparire indice di vulnerabilità.
Intorno al senso meteorologico-atmosferico del concetto di “tempo”, si “addensano” (tanto per usare una metafora in tema) “nuvole” di inanità linguistiche, vere e proprie “tempeste” di frasi convenzionali, “uragani” di luoghi comuni. Dietro il facile espediente del “tempo” quale argomento di conversazione fin troppo scontato ed ordinario (esiste una sfilza di sinonimi altrettanto prevedibili, da sputare sulla carta, a riguardo), sovente si annidano secondi fini o cattive intenzioni, oppure motivi di timidezza, ingenuità, goffaggine, se non proprio un’ignoranza abissale, magari anche un’indolenza mentale, un’abitudine al conformismo ed alla miseria intellettuale, una carenza di idee proprie ed originali, uno stato di profonda immaturità culturale. Si potrebbe ironicamente (o cinicamente) osservare che, in questi casi, il “tempo” (vale a dire il “clima”, quale banalissimo oggetto di conversazione) può “annebbiare” la mente e “ottenebrare” lo spirito, nella misura in cui ci si abitua (sciaguratamente) alla più deteriore condizione esistenziale, ossia alla pigrizia intellettuale, che è l’esatto contrario dell’otium di cui si è già spiegato il senso più vero e più nobile, che non è “sfaccendare” o “non fare nulla” (ossia “sprecare il tempo”, “oziare” nel senso capitalistico-borghese di non esercitare “negotium”, che è l’attività per accumulare denaro, intraprendere imprese lucrose, siglare “affari d’oro”, e via discorrendo).
L’otium non è propriamente lo stato del “fannullone”, quantunque si sia già spiegato chiaramente che esso rappresenta una condizione privilegiata, appartenente ad un’élite aristocratico-classista che non deve fronteggiare le difficoltà quotidiane della sopravvivenza materiale. In un certo senso, l’otium (in quanto negazione del “negotium”) è una virtù, un talento, che presuppone molteplici e diverse qualità creative, anzitutto l’abilità e la capacità di impiegare il proprio tempo libero realmente disponibile, per migliorare e valorizzare progressivamente e costantemente la qualità della propria esistenza, grazie ad una serie di impegni gratificanti quali la lettura di bei libri, la visione di bei film, l’ascolto di buona musica, l’amore (in tutte le sue dimensioni, compreso quello carnale), le buone amicizie, la buona gastronomia, le belle arti, il godimento delle bellezze naturali e di ogni altra gioia o piacere che la vita è in grado di offrirci, soltanto se lo volessimo, solamente se sapessimo organizzare il nostro tempo, e se davvero ne avessimo la possibilità.
Lucio Garofalo