Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico – SFPID
Direttore Sara Rosaria RussoTitolo originaleUna lettura psicodinamica del ruolo del padreA. ADDIS, E. BERARDI, D. BONFINI, L. CASINELLI, A. DI NAPOLI, A. LENZERINI, L. LONGI, A. NAPOLI, C. NOTARI, G. E. PERFIDO, R. ROMANO, S. SCIROCCALE, M. P. SOTGIU, C. VOLTA,Allievi IV anno S.F.P.I.D.
TUTOR : DOTT. AMATO FARGNOLI, psicologo, psicoterapeuta psicodinamico, docente S.F.P.I.D.
Abstract:
Nella famiglia il padre è sempre stata una figura marginale, in quanto si dava molto spazio alla relazione diadica madre-bambino; una relazione non solo di “nutrimento” biologico, ma anche e soprattutto psichico. Oggi, invece, si sta assistendo sempre più ad un’ulteriore modificazione del sistema famiglia, in cui sembra rinsaldarsi l’idea che padre e madre siano entrambe figure fondamentali, che apportano elementi differenti nella vita della loro prole da un punto di vista sia relazionale che nel percorso evolutivo e psicologico. Riconoscere una certa importanza al ruolo del padre, significa poter rintracciare su due diversi versanti (materno e paterno), quello che sta all’origine di determinate patologie psichiche e di alcune fissazioni, regressioni o difficoltà dell’individuo.
Parole chiave:
funzione, padre, sviluppo, evolutivo, complesso, edipico, nevrosi, super-io, borderline, pre-psicosi, psicosi, forclusione.Introduzione
Nell’antica Roma, nella famiglia era riconosciuto un unico ruolo, quello del “pater familias”, egli era il capo della casa e possedeva il potere non solo su ciò che vi si trovava, ma anche su chi vi viveva.
Quando nasceva un figlio, il padre poteva decidere se accogliere il bambino oppure poteva rifiutarlo, in quest’ultimo caso lo abbandonava in un luogo pubblico; in altri casi, aveva la possibilità di tenere il figlio e di venderlo poi come schiavo.
Dunque, il “pater familias” aveva il diritto di vita e di morte sui propri figli, ma dalla fine della Repubblica in poi si costituirono delle leggi per tutelare i figli dai possibili abusi dei padri, e nel periodo imperiale, i rapporti tra padri e figli iniziarono ad essere maggiormente improntati su una relazione di affetto e di cura.
Una visione certo molto lontana dalla nostra, relativa al modo di esercitare l’autorità paterna e soprattutto al modo di vivere i rapporti familiari, che tuttavia fa riflettere su come nel corso del tempo ci sia stato un cambiamento radicale delle relazioni interpersonali all’interno del nucleo familiare, e in particolar modo un cambiamento significativo delle idee e del ruolo rappresentato dal padre e dalla madre.
Alle origini, in riferimento alla famiglia romana, una madre assente, che sembrava avere l’unico compito di mettere al mondo un figlio, e un padre che invece poteva “disporre” di questo figlio; percorrendo la storia, si assiste ad un radicale cambiamento e ad una nuova immagine, in cui è la madre a prendere potere e a “disporre” di questo figlio, con una totale assenza del padre questa volta, fino a chiedersi che posto egli possa occupare.
La letteratura infatti ha dato ampio spazio alla relazione madre-bambino, una relazione di “nutrimento” non solo biologico, ma anche e soprattutto psichico, contemplando poco la paternità come funzione, relegandola sullo sfondo di una relazione essenzialmente diadica.
Oggi si assiste ad un’ulteriore cambio d’immagine, in cui sembra consolidarsi l’idea che padre e madre sono figure fondamentali, che portano elementi diversi nella vita dei figli, elementi che in una relazione di armonia ed equilibrio, conducono il bambino ad un adeguato sviluppo psicologico.
L’articolo si inserisce in questa cornice di riferimento e intende seguire l’evoluzione della figura del padre secondo una lettura psicodinamica.
In particolare, mette in evidenza come in modo parallelo, ciò che è avvenuto nel corso del tempo, nella formazione della famiglia e nella definizione dei ruoli e delle relazioni, si può ritrovare nel modo in cui l’immagine paterna si struttura e si definisce nel percorso evolutivo dei propri figli, riconsiderando questa figura in modo più completo, mostrandone soprattutto le funzioni rispetto allo sviluppo psichico all’interno di un’organizzazione nevrotica, borderline e psicotica.
Nello specifico, focalizza l’attenzione sulla rilevanza del termine padre in ambito psicoanalitico, dove Freud, agli inizi lo impiegava nella stessa accezione adottata dagli antropologi, quando fanno riferimento alla famiglia nucleare, composta da padre, madre, figli, che costituiscono i riferimenti fondamentali della prima organizzazione psichica individuale.
In tal senso, il padre è considerato a livello simbolico, come padre dell’onda primitiva che interdice l’endogamia e a livello reale come padre che interdice l’incesto nello scenario del complesso edipico e non dimentichiamo che per la bambina rappresenta la prima forma di amore verso il maschile.
A questa seconda accezione fa riferimento Lacan, con l’espressione “Nome del Padre”, sottolineando la funzione simbolica del padre, che in quanto rappresentante della legge, è più decisiva della sua funzione reale di genitore, per consentire al bambino il passaggio dal registro del bisogno a quello del desiderio, che trova la sua espressione nella domanda dell’Altro.
Spetta al padre, la formazione della coscienza morale, nel permettere di interiorizzare i confini tra ciò che è giusto e ciò che non lo è e consente di assimilare i “NO”. Spinge, inoltre, a superare le limitazioni intellettuali ed emotive che legano i figli alla famiglia. Il padre oltre che sostenere la sua compagna, deve saper cogliere il momento in cui rientrare nella coppia per favorire l’allentamento della “simbiosi” madre- bambino. Con il padre il bambino consolida una relativa autonomia dalla “madre onnipotente”.
Su questi aspetti è stato definito l’articolo, avendo come riferimento i principali esponenti della psicoanalisi, delineando il ruolo del padre nelle organizzazioni psichiche e infine, riportando un caso clinico, tenendo in questo modo conto soprattutto di ciò che nello sviluppo determina le differenze che possiamo poi osservare nello sviluppo “reale”, nella vita e nelle relazioni vissute da quei bambini che diventano adulti, portando dentro di sé profonde ferite.
Non c’è questione di Edipo se non c’è il padre e inversamente parlare di Edipo vale a introdurre come essenziale la funzione del padre
Quando si parla di ruolo paterno non sempre si ha chiaro il peso e la centralità della funzione. Il ruolo della figura materna è stato più volte delineato e sembrerebbe avere certezze ed essere maggiormente ancorato ad una cultura condivisa legata a dinamiche di accudimento, affettive e di sostegno, di scambi emotivi e comunicativi ritenuti validi da tutti, soprattutto nei primi mesi di vita, come rilevanti ai fini di una sana crescita fisica e psicologica del bambino.
La figura paterna, invece dal punto di vista del ri-conoscimento condiviso del suo ruolo trova faticosamente lo spazio sia all’interno della propria famiglia sia soprattutto, nei riguardi di se stesso. Un tempo, il padre, era addirittura escluso dall’educazione quotidiana della prole ed era considerato come l’autorità remota, quella cui, dopo la primissima infanzia, si ricorreva affinché sanzionasse i capricci e il mancato rispetto delle regole importanti.
Ma il padre è molto più che un’autorità remota.
Ri-conoscere significa andare a riscoprire all’interno della propria conoscenza diretta e transgenerazionale, ciò che di fatto ovvio non è! Il padre partecipa alla nascita del figlio in modo indiretto in quanto il tutto avviene al di fuori di lui, la gravidanza, il parto, addirittura la conoscenza dello stato gravidico e la comunicazione dell’evento sono “poteri” gestiti dalla madre che decide come e quando condividerli con il proprio partner. Il ruolo della madre è centrale nei primi mesi di vita, quello del padre risulta apparentemente secondario.
E’ un ruolo di riferimento e di contenimento riguardo alle ansie e alle incertezze. Uno sguardo esterno che, proprio perché meno coinvolto e con-fuso nella coppia, può interpretare e restituire contenuti puliti e funzionali alla narrazione della storia stessa.
Quella paternità, vissuta come secondaria, di fronte ad un piccolo col quale non si può “dialogare” nello stesso modo e con gli stessi strumenti che possiede la madre, viene ora sentita nel pieno della sua funzionalità, allorquando sia la madre che il piccolo, lo sentono come l’altro che si interpone tra di loro e si intromette nella loro intimità e darà nel tempo la serenità all’una e la possibilità all’altro di favorire il distacco dalla fusione dell’unione primordiale.
Questo “Altro” sarà colui al quale il piccolo si rivolgerà per abbandonare il collo della mamma ed è rappresentativo di tutti gli “altri” con cui il piccolo dovrà nel tempo confrontarsi.
L’equilibrio nella coppia e la relazione sana con il piccolo, verrà favorita proprio dalla figura paterna che sarà in grado di stimolare e riportare a regime la storia coniugale insieme alla nuova avventura genitoriale. Nella prima fase della relazione madre-bambino (primi mesi di vita) non esiste conflitto, il padre è ancora per il neonato una figura periferica della quale sente raccontare. Dal punto di vista del piccolo c’è ancora assenza di angoscia, non c’è deprivazione e le “regole” sono marginali.
Nei confronti della mamma, invece, la presenza o meglio la “funzione” paterna agisce quale riduttore di ansie, facilitatore della separazione del nucleo simbiotico madre-figlio e, successivamente riequilibratore del rapporto coniugale. La “forza” della coppia coniugale e genitoriale si impone rispetto al figlio come una determinante salda di regole, principi e contenuti affettivi da una parte e dall’altra come un modello genitoriale che si ama reciprocamente e che separatamente ama il figlio.
Nel processo evolutivo del figlio, il padre deve essere in grado ora di proseguire nella sua funzione di limite e di contenimento in modo deciso e netto pur tuttavia mantenendo un livello di vicinanza adeguato tale da far sentire la passione della funzione e l’affetto che la caratterizza.
Per quanto riguarda la funzione paterna si apre così un nuovo concetto di cui Lacan è fautore: padre simbolico, padre reale, padre immaginario.
Queste tre espressioni designano sia tipi di padre aventi una funzione in un’operazione, sia delle relazioni nelle quali non importa quale figura paterna possa essere impegnata. Esse non stanno tuttavia sotto la stessa insegna. Il padre immaginario (della privazione) e il padre reale (della castrazione) sono degli agenti d’operazioni che una stessa persona può incarnare in differenti momenti. Per esempio, il padre immaginario succede, nel tramonto dell’Edipo, al padre reale, agente della castrazione. E’ piuttosto nella patologia che queste figure sono incarnate da persone differenti.
Il concetto di Padre simbolico fa riferimento all’elevazione della parola padre al rango di simbolo, di significante. Ma il padre simbolico non è solamente l’emblema del padre o il padre nel simbolico: esso si caratterizza per l’opposizione della presenza e dell’assenza, il padre invece è anche un partner reale, che risponde, quando lo si chiama.
Il concetto di Padre immaginario, invece,è quello che è incluso nelle relazioni immaginarie, sul modello di quelle di somiglianza, che siano d’aggressività o d’idealizzazione. In generale si tratta del padre tremendo e minacciante. A lui si indirizza il rimprovero del bambino di averlo fatto “così male”. La sua emergenza nel tramonto dell’Edipo contribuisce a generare il super-Io.
Il concetto di Padre reale, si rapporta al registro dell’impossibile che sfugge al simbolico, pur essendo al cuore di questo. C’è del reale nel padre simbolico. È per il tramite del padre reale, che il padre simbolico, mitico, interviene. “Reale” prende allora il senso di designare l’effettività dell’operazione, la castrazione di cui ogni individuo è l’agente. Si designano dunque due estremità che sembrano antinomiche: il reale che sfugge nella nozione di padre simbolico e l’agente definito, incarnato che realizza l’operazione simbolica di castrazione. Il padre reale occupa così un posto impossibile. Per questo non si analizza il padre reale. Il reale, l’impossibile del padre, s’incontra in un personaggio dell’ambiente del bambino, che non è forzatamente il genitore. La funzione del padre reale non procede dall’atto, egli non è nient’altro che un effetto di linguaggio.Il ruolo del padre nel soggetto Nevrotico
Freud segna per primo la funzione precoce del padre in parecchi dei suoi lavori, dal 1898 al 1914 quando scrive che “…fra le imago che si sono formate in un’infanzia di cui di solito si è perduto il ricordo, nessuna è più importante, per il giovane e per l’uomo adulto, di quella del proprio padre…“.
Da sempre, una necessità organica introduce nel rapporto col padre un’ambivalenza emotiva la cui rappresentazione più importante la possiamo ravvisare nella manifestazione più impressionante nel mito greco del Re Edipo. Il bambino deve amare e ammirare suo padre, che lo vede come il più forte, il migliore e il più saggio delle creature, in fin dei conti Dio stesso non è altro che un’esaltazione di questa immagine paterna, così come essa si presenta nella vita psichica infantile. Ma contestualmente l’altro aspetto di questa relazione affettiva, è che, nel padre si vede anche l’essere che nel suo strapotere disturba la nostra vita pulsionale, egli diventa il modello che non vogliamo più solo imitare ma anche togliere di mezzo, per poter prendere il suo posto. Ora l’impulso affettuoso e quello ostile verso il padre continuano a sussistere l’uno accanto all’altro spesso per tutta la vita senza che l’uno possa eliminare l’altro. In questa coesistenza degli opposti risiede il carattere di quella che chiamiamo “un’ambivalenza emotiva”.
Nel corso della fanciullezza avviene un mutamento in questo rapporto con il padre, la cui importanza non sarà mai sottolineata a sufficienza. Il fanciullo comincia ad uscire dalla stanza dei bambini, ad affacciarsi al mondo reale; a questo punto scopre delle cose che scalzano la sua originaria ammirazione per il padre e determinano il suo distacco da questo suo primo ideale. Egli scopre che suo padre non è l’essere più potente, più saggio e più ricco della terra.
Che cos’è il ruolo del padre se non un interrogativo e una scoperta costante che ogni paziente fa in se stesso per mesi e per anni?
Come disse lo storico Braudel ” …la storia non è altro che un costante interrogativo sui tempi passati in nome dei problemi e della curiosità – nonché delle inquietudini e delle angosce – del tempo presente che ci circonda e ci assedia…”.
Nel percorso sotterraneo di ciascun essere umano alla scoperta delle proprie origini, non sempre è possibile trovare un padre reale o simbolico, poiché a volte viene forcluso.
Il ruolo del padre esiste ogni qualvolta c’è un padre con un determinato ruolo, una madre che lo permette e un figlio capace di identificazione introiettiva: esso esige un conflitto triangolare.
Dopo Freud il lavoro fu ripreso da Melanie Klein, la quale affermò che il bambino cerca degli aspetti del padre nel corpo della madre. Nella sua teoria la Klein sviluppa inoltre, un’idea sul complesso edipico precoce collegando a tale “complesso” le angosce precoci quando dice “A causa del predominio dell’angoscia e del senso di colpa si ha una fissazione libidica straordinariamente forte alle prime fasi dello sviluppo e, in interazione con essa, una tendenza esorbitante a regredire a tali fasi. Di conseguenza lo sviluppo del complesso edipico è ostacolato e l’organizzazione genitale non può stabilirsi saldamente” (Klein, 1974).
Il ruolo del padre viene assolto quando le angosce primitive del bambino sono contenute, ossia quando esiste l’holding (il contenimento e il sostegno) o quando il ruolo paterno esiste come presenza psicologica e non soltanto fisica, il vero nutrimento del Sé è l’attenzione affettiva come attenzione psicologica.
Il ruolo del padre ha un importanza speciale e notevole ai livelli pre-edipici. La sua assenza è alla base della psicosi e solo in seguito viene il ruolo del padre a livello edipico.
Il ruolo del padre è uno dei ruoli del piccolo gruppo, o gruppo primario nel quale si sviluppa il bambino. È un ruolo di holding, di contenimento degli affetti, delle angosce e delle paure. Esso è complementare e indissociabile dal ruolo materno ed entrambi costituiscono un processo dialettico e simmetrico.
Il padre deve essere disponibile a ricevere identificazioni proiettive e a rinviarle modificate e deve esser capace, anche, di resistere alle identificazioni proiettive invadenti o parassitarie come sostiene la Mahler.
La recettività del padre deve essere completata dal ruolo materno, poiché per il padre essere recettivo non vuol dire essere donna o femminile, bensì, riuscire a contenere il bambino, creargli un involucro psicologico, una pelle che lo copre, e tale compito riguarda entrambi i genitori.
La costanza del ruolo e la stabilità affettiva sono fondamentali per essere credibili per il bambino, poiché la mancanza di costanza può provocare disillusioni o traumi che possono far perdere le introiezioni avvenute in precedenza o i rapporti interni con l’oggetto buono che viene scoperto nel gesto d’amore della coppia.
La scena primaria è, uno spazio teatrale pieno di personaggi come in un gioco di personaggi materni e paterni in movimento. La mancanza di un terzo genera delle difficoltà per la concezione dello spazio tridimensionale. Il ruolo del padre o padre reale hanno un ruolo principale nel Complesso di Edipo; la sua organizzazione e la sua risoluzione sono fondamentali per la strutturazione mentale e l’evoluzione armonica dell’identità.
Il ruolo del padre è quello di un decodificatore di messaggi, di un rettificatore, di un facilitatore del gruppo primario. Una parte del ruolo del padre consiste nel dare una coerenza affettiva alle sensazioni e alle percezioni del mondo degli oggetti viventi che circondano il bambino, ciò è indissociabile dal ruolo della madre. Il padre dovrà permettere e aiutare l’identificazione sessuale maschile, la differenza tra i sessi e la conclusione finale di un lungo processo evolutivo che si raggiunge solo dopo aver potuto identificare il dentro e il fuori, l’Io e il Tu, lo spazio mentale, pieno anche del vuoto (?), la creazione della nozione psicologica di pelle che avvolge e contiene con una voce, un odore, un tatto e una melodia noti. (D. Anzieu)
L’introduzione del concetto di identificazione primaria Freud la descrive ne ” L’Io e l’Es”, (1922) dice infatti “…Questo ci riporta alla formazione dell’ideale dell’Io, giacchè dietro ad esso si cela la prima è più importante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria…”, poi aggiunge che “…forse sarebbe più prudente dire “con i genitori”, in quanto padre a madre, prima che sia conosciuta con esattezza la differenza tra i sessi e la mancanza del pene, non sono valutati differentemente…“.
A tal riguardo M. Klein parla del trauma dello svezzamento come il primum movens della triangolazione edipica, infatti prima dello svezzamento non ci sarebbe oggetto né materno né paterno distinto, ma un oggetto parziale combinato materno-paterno: il capezzolo/seno.
Questo stadio preliminare ad ogni differenziazione oggettuale sarebbe, quello in cui si costituisce quella parte del Sé che Bion (1962) ha chiamato “contenitore”, E.Bick (1967) “pelle psichica”; D. Anzieu (1974) “Io-pelle”.
Il nevrotico è colui che ha costituito questo “involucro psichico”, un contenitore, capace di contenere la conflittualità del suo funzionamento mentale e di integrare gli elementi della bisessualità nella sua tessitura.
L’individuazione del bambino e lo sviluppo del suo mondo psichico suppongono che le pregnanze materne si biforchino sulle prominenze paterne. È questo incontro felice e creativo di forme che consente un funzionamento nevrotico, mentre se ciò fallisce siamo nella psicosi.
Il ruolo del padre nel nevrotico equivale alla forza del Padre che elimina il limite per creare il confine come punto di riferimento dove convergono in maniera uguale due o più parti, ciò consente al bambino di entrare nei confini dell’universo grazie al senso di fiducia e alla stima ricevuta, per poi sviluppare, una buona autostima, autonomia e autoefficacia che sono i cardini dell’identità
Il ruolo del padre, dunque, non esiste come cosa-in-sé. Tale ruolo è al contrario, un lungo processo dinamico e dialettico di creazione e apprendimento che probabilmente non finisce mai. Un processo in movimento e non una statica definizione
Il ruolo del Padre nel soggetto Borderline
Alla base dell’ organizzazione borderline di personalità viene identificato un disturbo delle relazioni precoci tra genitori e figli.
Nella presente sezione si è cercato di dare una descrizione di alcune delle teorie che hanno individuato una qualche responsabilità paterna nella patogenesi del Borderline.
Molti studi hanno chiarito come le rappresentazioni intrapsichiche delle prime relazioni nel bambino corrispondano a delle riproduzioni già presenti nei genitori che li portano a rispondere ai bisogni del figlio in base alle loro esperienze con le proprie figure di accudimento.
Masterson e Rinsley in particolare hanno individuato l’origine della patologia in una fissazione nella sottofase di riavvicinamento del processo di separazione-individuazione, nel quale la madre invia al bambino dei messaggi ambivalenti: da un lato incoraggia i comportamenti di attaccamento e dall’altro scoraggia le spinte all’autonomia. Emerge una profonda ambivalenza nel rapporto e uno stile di attaccamento invischiato e il padre appare come un uomo severo e distante.
Il padre ricorda una madre autoritaria e poco disponibile affettivamente e la figura paterna si può definire assente. Emerge uno stile di attaccamento distanziante.
Secondo Bloch è importante che, durante l’adolescenza vi sia da parte delle figure significative la risposta di accettazione e sostegno al movimento di emancipazione del figlio nel sostenere il senso di sicurezza e nel diminuire l’emergere del senso di colpa.
In questo processo la funzione paterna si propone come l’elemento della diversità nel rapporto madre-bambino e agisce come stimolo all’indipendenza e allo sviluppo delle risorse personali necessarie ad un’esistenza autonoma. Tale ruolo può essere compromesso da vari fattori:
- Assume le funzioni di accudimento che sono prevalenti nel ruolo materno relegando la madre al solo ruolo di fattrice;
- Viene meno la funzione di terzo essenziale nel favorire il processo di un graduale distacco dalla posizione di dipendenza;
- Nel padre è presente la convinzione che il figlio sia stato la causa di un danno per lui per questo c’è una richiesta di risarcimento che provoca nel figlio una colpevolizzazione.
Si tende a dare molta importanza alla famiglia per cui le situazioni esterne vengono ridotte ad un ruolo marginale e svalutate. Sul versante intrapsichico di conseguenza si svilupperà la percezione della propria incapacità a vivere un’esistenza indipendente
L’unica soluzione è quindi la sottomissione all’autorità paterna che comporta la rinuncia alla propria identità separata la quale si manifesta spesso con comportamenti reattivi, spesso auto ed etero-aggressivi, espressione di un senso di ribellione impotente.
Bergeret (1994) in quello che egli chiama il secondo organizzatore della vita psichica, ovvero il Complesso di Edipo sottolinea in tutta la sua importanza la funzione paterna.
Se il bambino ha avuto accesso all’Edipo, ma a causa di frustrazioni provenienti da entrambi i genitori non ha potuto superarlo, si troverà, secondo Bergeret, in una fase di pseudolatenza precoce che gli impedisce la strutturazione del Super Io, aprendo così la strada alla struttura di personalità Borderline.
Appare importante a livello evolutivo Lichtenberg (1989), il quale ipotizza l’esistenza di un processo di attaccamento padre-bambino, simile al concetto di “preoccupazione materna primaria”, descritto da Winnicott nel ‘56 anche per la figura paterna.
L’autore cita a questo proposito una ricerca svolta da Greenberg e Morris (1972) su un campione di trenta padri di neonati primogeniti, i quali avrebbero dimostrato l’esistenza di un processo da loro definito “assorbimento” che derivava da un forte coinvolgimento del padre con il proprio figlio. Il bambino veniva valutato “attraente, bello e perfetto”. I padri mostravano il desiderio di contatto “fisico” con il bambino sostenendone la piacevolezza e riportavano un accresciuto senso di autostima ed euforia.
Secondo Lichtenberg “l’assorbimento” sarebbe parallelo alla “preoccupazione” materna.
In particolar modo appare importante il coinvolgimento attivo del padre nel gioco con il proprio figlio. I bambini preferirebbero il padre per la socialità e il gioco. La madre sarebbe, invece, indicata come preferenza nei momenti di tensione.
La madre tenderebbe ad essere considerata, nella coppia, come responsabile dell’accudimento e dell’alimentazione.
Il padre, sostiene Lichtenberg, contribuirebbe “alla diversità delle esperienze del bambino, preparandolo alla stimolazione più variata cha accompagnerà la sua capacità di gattonare e camminare”.
Nel processo di separazione-individuazione sono di particolare importanza i tentativi di allontanamento dalle figure di accudimento e sarebbe possibile sostenere il ruolo svolto dalla figura paterna in questo importante processo. Esso, infatti, influenzerebbe, di conseguenza, i processi di costruzione dell’identità, che appare fortemente compromesso nella personalità Borderline.
Anche Kohut (1981), parla del Sé, riferendosi al processo di “internalizzazione trasmutante”, come costituito di due “poli”, determinati dalle relazioni precoci del bambino.
Entrambi i poli possono portare ad un sano sviluppo del Sé e la personalità si organizzerebbe intorno a due tendenze: una costituita da grandiosità ed esibizionismo che verrebbe espressa sotto forma di “sana ambizione o sicurezza di sé” (Greenberg & Mitchell, 1983) e determinata dall’oggetto-Sé riflettente che, in genere, corrisponderebbe alla figura materna; l’altra ,altrettanto valida in termini di sanità e coesione del Sé, sarebbe quella determinata dal rapporto Sé-oggetto, solitamente derivata dalla relazione con la figura paterna, “espressa in termini di valori e ideali ben saldi” (Greenberg e Mitchell, 1983).
Kohut sostiene che se dovesse manifestarsi un disturbo all’interno di uno dei due poli del Sé, ci potrebbe essere una compensazione grazie all’adeguato sviluppo dell’altro. La psicopatologia nascerebbe dall’impossibilità di sviluppare una di queste alternative. Nei pazienti con disturbo borderline di personalità, infatti, il ricordo di entrambi i genitori come “trascuranti” era più alto rispetto al gruppo non-borderline.
In altre parole la costruzione di un sé coeso avviene, per Kohut, a partire da uno stadio molto primitivo in cui ancora non esiste differenziazione tra sé e non sé e che presenta caratteristiche grandiose (stadio del “sé grandioso”). L’individuo evolve verso uno stadio più maturo (verso il “polo degli ideali”, e quindi dell’oggetto, il padre idealizzato) solo grazie ad un rapporto adeguato con gli oggetti, i genitori, che dovrebbero fornire convalide e il padre dovrebbe permettere di essere idealizzato. L’assenza di tali presupposti condurrebbe alla patologia.
Secondo Kohut, negli stati borderline si manifesterebbe un’alterazione evolutiva nella coesione del sé, che appare frammentato: una parte risulta scissa e sfugge alla consapevolezza e al controllo della persona.
Il ruolo del padre nel soggetto Psicotico
Nella psicosi, secondo Lacan, non c’è “iscrizione nell’Edipo”. Le manifestazioni psicotiche vengono infatti rilette a partire dalla non iscrizione di un significante, quello del Nome del Padre, il quale riveste un ruolo cardine all’interno dell’Edipo e del complesso di castrazione.
Affinché nel mondo ci sia del senso, del significato, o una significazione, è necessario un significante e Lacan nella struttura dell’Edipo lo individua nel padre. Il padre dunque come significante primordiale e da qui l’espressione Nome del Padre.
Il Nome del Padre non coincide, come è stato detto precedentemente, con il padre reale ma corrisponde piuttosto con la funzione paterna. Esso è un significante base che appartiene all’insieme dei significanti e, al contempo, “costituisce la legge del significante” senza la quale l’ordine dei significati non potrebbe stabilirsi.
La sua funzione consiste nel rompere la relazione immaginaria madre-bambino, intervenendo come elemento Altro che introduce una nuova dimensione: quella simbolica, ossia quella del significante. Lacan individua questo momento antropogeno nell’Edipo freudiano e sottolinea che per lo psicotico qualcosa non si è appunto realizzata nell’Edipo.
La lettura lacaniana del complesso di Edipo individua “tre tempi”, che si svolgono in successione cronologica: in un primo tempo, nella fase precoce dello sviluppo, il bambino sente di essere tutto per la madre, ciò che l’appaga completamente. Lacan, parlando di questa condizione di completezza, dice che il bambino incarna il fallo, ovvero ciò che colma la mancanza della madre. Il bambino dunque, in una relazione immaginaria con la madre, si identifica con l’oggetto del desiderio materno. Questo è il tempo dell’infatuazione reciproca fra madre e bambino: la presenza di questa intensa relazione non lascia tuttavia al bambino lo spazio per pensare all’assenza della madre, condizione imprescindibile perché possa sorgere la prima forma di simbolizzazione.
Lacan mette in guardia da una “madre tutta madre”, ovvero da quel desiderio materno – definito addirittura cannibalico – che nella sua aspirazione alla totalità può diventare fagocitante: il bambino potrebbe rischiare infatti di rimanere intrappolato nell’identificazione immaginaria al fallo.
L’entrata in scena del Nome del Padre segna la separazione della coppia madre-bambino, instaurando il passaggio da questa dialettica immaginaria al secondo tempo dell’Edipo: quello dell’interdizione paterna. La funzione paterna opera una duplice manovra d’interdizione (castrazione simbolica), rivolgendosi sia al bambino che alla madre: quest’ultima non può più soddisfarsi completamente nel bambino, che a sua volta viene sganciato dall’identificazione fallica. L’immagine della funzione paterna indica “colui da cui la madre va quando esce dalla porta, quando non è presente. Si tratta, cioè, del nome del desiderio della madre, del nome che dice che il suo desiderio è orientato anche altrove rispetto al bambino“. Nel secondo tempo dell’Edipo, dunque, “il padre interviene in quanto padre che priva, in quanto padre che dice no”, la madre può reinserirsi sul versante del suo essere donna e il bambino può cominciare a interrogarsi sull’enigma del Desiderio della Madre, su ciò che la conduce altrove, nella sua assenza.
L’intervento del Nome del Padre è dunque necessario affinché il soggetto trovi posto in un apparato simbolico. “Questo è il carattere duplice della funzione paterna dal punto di vista della legge: da una parte l’interdizione […] e dall’altra, l’abilitazione al desiderio”.
Nella struttura psicotica non è avvenuta l’iscrizione nel luogo dell’Altro. La funzione logica del Nome del Padre non ha tracciato una trama simbolica in grado di stabilire una separazione nella coppia speculare madre-bambino, che continua così a rapportarsi intorno a questa comune illusione di fallicizzazione reciproca.
A tal proposito Lacan evidenzia il ruolo fondamentale esercitato dalla madre, che oltre ad accudire e curare il bambino, deve anche riconoscere il Nome del Padre.
La madre quindi non solo come caregiver, ma anche come soggetto che lascia al Nome del Padre lo spazio per entrare in gioco. La madre, occupandosi del bambino, dovrebbe saper alternare la sua presenza e la sua assenza e, allo stesso tempo, dovrebbe valorizzare “la metafora paterna”, facilitando in tal modo l’entrata del padre nel “posto primitivamente simbolizzato dall’operazione dell’assenza della madre”. La riuscita di questa sostituzione metaforica permetterà di includere il Desiderio della Madre nel luogo dell’Altro, lasciando così al bambino lo spazio sufficiente per collocarsi nel discorso dell’Altro.
Si comprende che laddove non sia riuscita la metafora paterna troviamo “un buco scavato nel campo del significante”,cui corrisponde una lotta che impegna il soggetto nell’impossibile ricostruzione immaginaria del simbolico. Lo psicotico si rapporta quindi a un doppio dell’Io che non anticipa l’entrata nell’Edipo: con l’Edipo c’è la comparsa di un oggetto terzo, non più narcisistico, ma sublimato. Nella psicosi non c’è il passaggio all’oggetto sublimato, permane il confronto con l’evanescenza dell’oggetto narcisistico, che con la medesima evanescenza si stacca dalla realtà e diventa delirante.
Il problema della coscienza e dell’auto-coscienza riguarda dunque la strutturazione degli “oggetti” (interni ed esterni) che rappresentano la possibilità di raggiungere il senso di realtà, ma, soprattutto, il rapporto con il proprio Sé e con la realtà.
L’analisi di quadri psicopatologici gravi (autismo, psicosi infantili e schizofrenia) ci ha permesso di comprendere come la mancata strutturazione della coscienza di sé si accompagni alla deformazione del rapporto con gli oggetti: questi vengono depauperati, svalorizzati, svuotati di significato attraverso un meccanismo mentale molto primitivo che si fonda su egocentrismo ed onnipotenza.
Attraverso questo funzionamento, il soggetto svuota di significato gli oggetti che, così, possono essere gettati via, eliminati, distrutti, proprio perché il loro significato profondo viene introiettato allucinatoriamente.
Per concludere l’argomento psicosi, la forclusione (Verwerfung) del Nome del Padre indica una mancanza nel luogo dell’Altro, un buco nel simbolico, che comporta una serie di conseguenze, come il ritorno nel reale di ciò che non è stato simbolizzato e le allucinazioni uditive ne sono un drammatico esempio. Prima dello scatenamento lo psicotico era riuscito a mantenersi grazie a una compensazione immaginaria, quasi come uno sgabello a quattro piedi che può però appoggiarsi solo su tre, essendo forcluso il sostegno del Nome del Padre, ossia del piede mancante. L’esordio della psicosi si manifesta dunque con lo scompenso di un equilibrio immaginario, che fino a quel momento sembrava adeguato per il percorso del soggetto.Un caso di pre-psicosi: il caso di Barbara
Barbara è una donna di 38 anni. Arriva in terapia perché dice di soffrire di attacchi di panico da più o meno un anno. E’ separata da tre anni e ha una bambina di 6. Ha un aspetto molto giovanile, un po’ sovrappeso, apparentemente solare, anche se lo sguardo è malinconico, quasi in attesa di rimprovero. Racconta della fine del suo rapporto con trasporto ancora vivo. I dettagli della storia d’amore con Fabrizio (l’ex marito) sono lucidi come se fossero accaduti pochi giorni prima, invece la loro storia è iniziata 10 anni fa. Dopo la nascita della bambina il marito è cambiato, si è allontanato. Lei ingrassa di quasi 30 kg con la gravidanza, si sente brutta e piange sempre. Lui s’innamora di un’altra donna e senza darle troppe spiegazioni la lascia e se ne va di casa. Barbara non riesce a reagire a questo distacco. Nel frattempo perde il lavoro e fa fatica a gestire le spese economiche di casa e della bambina. Fabrizio torna dai genitori e le dà pochi euro di sussistenza. In passato lui aveva avuto problemi di dipendenza da gioco, le aveva rubato dei soldi, lo ha anche sorpreso a rubare gli anelli di fidanzamento che Barbara teneva dentro una cassaforte. Nonostante questo comportamento, Barbara giustifica Fabrizio come un figlio, che invece di fargli rabbia gli fa pena e lo difende consentendogli ancora di approfittarsi di lei.
Nell’esame delle dinamiche familiari di Barbara si scopre che è la più grande di due figli. La madre ha un costante atteggiamento di critica e giudizio nei suoi confronti mettendola sempre a confronto col fratello più piccolo. Lei e la madre hanno un rapporto ambiguo. La chiama ripetutamente durante il giorno per controllare quello che fa e per giudicare, negativamente, ogni suo gesto. Nei momenti di dolore di Barbara la madre è completamente assente, le dice che è una “piagnucolona” e che lei al suo posto non si sarebbe comportata in quel modo. Rispetto al tema della separazione la madre è drastica: il matrimonio è sacro, romperlo è un peccato gravissimo. Scendendo nella relazione genitoriale si nota, infatti, che il padre di Barbara, spesso forcluso dai racconti, è un uomo violento che picchia quotidianamente la moglie anche davanti ai figli. Barbara racconta episodi della madre sanguinante a terra, che supplica i figli di andare a consolare “papà che è molto triste per quello che ha fatto”. In questo clima ambiguo crescono i valori di Barbara, in cui la rabbia deve trasformarsi in pena, in cui la stima e la cura di se stessi possono essere annientati dall’altro che verrà sempre e comunque giustificato. I confini tra Barbara e l’altro sono labili. Quello che succede al di fuori di lei la influenza completamente, non riesce ad imporsi, a dire “no”, a farsi valere. Per proteggersi da un padre mostruoso, lo nasconde dai ricordi, lo forclude nella sua crescita. Nello stesso tempo la sua assenza fa vacillare la costruzione di una sua definita identità. E’ inconcludente in tutto: non ha finito la scuola, si segna ad un corso come segretaria d’azienda, ma poi finisce a fare la ricostruzione delle unghie. Non sa chi è e aspetta che siano gli altri a dirglielo.
L’Io è molto fragile. Presenta una vera e propria incapacità di ” tenuta” e costanza oggettuale. Non si sa imporre sugli altri. Il Super-Io è rigido e impositore. In ogni sua azione veglia il senso di colpa insaziabile e la paura di giudizio da parte degli altri. L’Es è poco sviluppato. Barbara non è in grado di avere pieno contatto con i suoi bisogni e non se ne occupa. L’angoscia di base è a cavallo tra quella di solitudine e abbandono e quella di frammentazione e intrusione. Vi è un’insufficiente definizione dei confini dell’Io e delle basi narcisistiche. Vi è una perdita dei confini tra le rappresentazioni di sé e dell’oggetto. C’è un’insufficiente definizione dei confini dell’Io e delle basi narcisistiche e un utilizzo degli oggetti esterni per evitare lo straripamento pulsionale.
Si osserva una severa deprivazione affettiva nella prima infanzia con marcati squilibri tra gratificazione e frustrazione. Barbara non ha avuto la possibilità di trovare una vera e propria identificazione. Tende ad una imitazione superficiale, a modificare l’immagine di sé in rapporto al mondo esterno aderendo in modo imitativo alle aspettative dell’ambiente. (“…Se fossi stata meno rompiscatole Fabrizio non se ne sarebbe andato…”). Tende a mostrare una vera e propria impossibilità di imporsi sugli altri e di dire “No”. Questi elementi fanno pensare ad uno stato limite con un livello di mentalizzazione basso che può essere più specificamente definito come “Pre-Psicosi”.
Grazie a S. Freud, l’ideale del “buon padre di famiglia” è stato sempre fin dalla scoperta della psicoanalisi un costante obiettivo da raggiungere ma che in realtà non è mai stato raggiunto. La nevrosi prima era fondata sul rapporto col padre e sulla sessualità che nasce dall’intreccio assurdo tra desiderio, godimento derivato dai vissuti attraverso il complesso edipico e la Legge (il Padre). Il Padre freudiano è il divieto fondante che in “Totem e Tabù” incarna il tabù dell’incesto. La Madre rappresenta l’oggetto di desiderio reso inaccessibile al bambino dal Padre in funzione di ostacolo e divieto. La civiltà dovrebbe prevedere l’accettazione delle regole sociali e comportare la rinuncia alle pulsioni aggressive del soggetto. Il bambino deve essere protetto e guidato necessariamente dalla figura edificante del Padre. Se il Padre non è il portatore funzionale e significante (Lacan) e non soverchiante del senso di colpa e di responsabilità, l’erede dei compromessi tra l’Io e l’Es non sarà il Super-Io ma l’Ideale dell’Io ambiguo e perverso nelle relazioni familiari e affettive. La presenza del padre, che da’ il nome e conferma il significato delle azioni del figlio/a, evita di fissare i traumi che si incontrano nello sviluppo psichico.
Un intervento terapeutico, secondo Jung serve a convogliare il sovrainvestimento energetico nell’inconscio collettivo o nelle immagini comuni della gente, perdendo i suoi effetti disgreganti, ma progredendo verso l’individuazione del vero Sé a confronto con l’Altro significativo. (Quando e dove Jung dice questo?) L’intervento terapeutico in Jung è cosa molto diversa. Senza approfondimenti e precisazioni, io toglierei questo pezzo…
Attraverso la spiegazione di Lacan dello stadio dello specchio, dai 6 ai 18 mesi di vita, viene affrontato il tema ricorrente del riconoscimento dei 3 assi del Nome del Padre, il bambino deve imparare a riconoscersi nello specchio (Immagine), ad identificarsi poi con la figura paterna e a simbolizzarsi nel linguaggio (Simbolo); a relazionarsi grazie ai significati dell’Inconscio (Reale).
Questi 3 passaggi dell’Essere sottolineano la metafora contrapposta al desiderio pregnante della Madre che non deve essere per tutta la vita esclusivo. I sintomi ci dicono qualcosa su ciò che si agita quando si perde un oggetto, quando c’è un’ambivalenza e una forte regressione della libido dell’Io (delle basi narcisistiche).
Barbara rappresenta la mancanza della Legge e dell’amore, di ciò che da’ il significato “austero” e veridico alle cose. L’Amore è far dono all’Altro della propria mancanza. In Barbara questo non è mai stato possibile, per le massive formazioni reattive che hanno trasformato il senso di colpa e di rimprovero materni in continue e reiterate giustificazioni.
Barbara giustifica il suo uomo, il padre di sua figlia per non manifestare una rabbia e un’aggressività incontrollabili che annienterebbero ancora di più il suo Io. La violenza del padre di Barbara è depositaria delle sue responsabilità mai manifestate o espresse, esasperata dall’atteggiamento iper-controllante e ambiguo della madre.
La depersonalizzazione e la derealizzazione sono diventate le uniche modalità di evitamento dell’eccessiva ondata pulsionale che tiene schiacciata dentro di sé.
La forclusione paterna è il segnale principale di assenza di limiti, confini identitari e di senso della realtà sociale, poiché il Nome del Padre è la metafora metonimia della disciplina e dell’ordine che ricompone l’Essere-Divenire nel mondo. Senza la figura paterna non si sceglie mai chi essere e che fare per il bene di tutti, prima di tutto per il bene di se stessi. La predisposizione ad essere amati è l’obiettivo da raggiungere, centrando le dinamiche padre-figlia su basi coerenti e un clima accogliente, amorevole e decisivo.
Tale situazione è visibile nella realtà di oggi che è profondamente in crisi, priva di cooperazione ma pregna di competizione invalidante, proprio come è quella di una madre “tossica” e pesante, sostitutiva della fondamentale e presenza “unica” del Padre.
Oggi la sofferenza, anche se ha preso il sopravvento, sembra essere interminabile perché il ruolo del padre è smarrito e confuso.
Conclusioni
Agli occhi di un bambino, il padre potrebbe apparire come quella figura che Freud descriveva capace di proteggere e distruggere se non rispettato, ma anche, oggetto di profonda venerazione se non, addirittura, di imitazione quale anelito di onnipotenza. Allo stesso modo Lacan (2006) parla di un padre primordiale come di quello che precede l’apparizione della cultura, delineando un concetto assoluto, inarrivabile, antico come può essere l’uomo primitivo o il bambino dei nostri giorni. Allora come oggi, si tratta di una visione in via di relativizzazione, una competenza propria del cervello (?)che si evolve attraverso il tempo e l’esperienza: un procedere interno al nucleo familiare attraverso la continuità armonica dei genitori verso una modalità, integrata, di comprendere sé stessi, l’altro ed il mondo esterno con i suoi diritti ed i doveri. Il maschile che funziona (Cancrini, 2001), quindi, è quello capace di un rapporto diretto e rassicurante che susciti nel figlio un effetto tranquillizzante seguito, poi, da quello affettuoso ed equilibrato della madre. Certamente, si tratta di una progettualità ideale perché, come chiarito nelle pagine precedenti, uno scompenso più o meno marcato in questo equilibrio di riferimenti può essere sempre presente.
Certamente, il ruolo del separatore, di colui che porta la distanza utile alla mentalizzazione, alla distinzione dall’assoluto, alla competizione per la conquista non spetta ad una sola persona ma, riteniamo, si possa ampliare lo sguardo ed aumentare il numero degli attori di questa rappresentazione di un’opera che si snoda nel tempo e nello spazio.
Seguendo Minuchin (1976) si giunge alla conclusione che non solo debba essere preso in esame il nucleo familiare costituito ma che sia necessario risalire anche a quelli di provenienza poiché origine delle singole personalità, cardine, della storia attuale. Quei legami che si sono stabiliti da tempo perdurano nel presente e riescono a strutturare il futuro come un’impronta transgenerazionale indelebile.
Ogni famiglia, infatti, si comporta come un sistema dinamico in cui ogni elemento è in grado di esercitare la propria influenza e di subirne gli effetti altrui. Questa affermazione è immediatamente chiara esaminando il caso clinico citato nell’articolo, in cui l’influsso della generazione precedente si ripercuote nella ripetizione del rapporto attuale. Si tratta di un processo di proiezione della famiglia, dei propri problemi ai figli, sicuramente, uno dei meccanismi usati, in precedenza, in quella di origine. Tuttavia, benché si trasmettano diversi gradi di immaturità proprio attraverso questa interdipendenza multigenerazionale è, secondo Minuchin, possibile anche approfittarne per tentare di esercitare un effetto contrario.
Quello familiare, è un sistema emotivo che, quando in equilibrio, permette a ciascuno di dedicare parte del suo essere e del suo sé al benessere altrui. E’ la caratteristica del sistema coniugale di svilupparsi secondo quella complementarietà che permette di cedere senza associarlo ad una sconfitta; è altresì vero che, in questa circostanza, di fronte alla regressione o alla migliore differenziazione di un membro, non si strutturi alcuna manifestazione sintomatica.
Come suggerisce Bowen (1979), però, inizialmente ci troviamo davanti una diade cioè un sistema instabile che, in condizioni di ansia debole e condizioni esterne favorevoli, riesce a gestire il flusso e riflusso emotivo in maniera tranquilla e rassicurante. Di fronte al sovraccarico, tuttavia, questo movimento risulterà più forte e più difficile la relazione conducendo, in maniera naturale, al coinvolgimento di un terzo, vulnerabile, nella trama emotiva.
Proprio in questo frangente il ruolo del padre dovrebbe affermarsi per esercitare quella differenziazione necessaria al corretto sviluppo di quel terzo ma è anche vero che, per primo, egli dovrebbe averla vissuta, incamerata, a sua volta per poterla riproporre in maniera corretta. E’ chiaro, quindi, che il risultato di un tale esercizio parziale si può dimostrare lungo tutto l’arco del continuum patogenetico.
Come è possibile, quindi, estrarre il paterno dal padre, l’essenza della differenziazione se egli, per primo, paga il prezzo di una trasmissione intergenerazionale? E’ stato, prima, chiarito che si tratta di orme indelebili, di immaturità acquisita e di fatica al cambiamento; eppure, è possibile sfruttare l’emotività e i meccanismi del sistema familiare per poter indurre un’esperienza di cambiamento.
In questa lettura psicodinamica è proprio la debolezza del ruolo che determina lo sconvolgimento degli equilibri e la triangolazione verso l’elemento vulnerabile: esiste un vero malato e non si tratta di quel piccolo immediatamente visibile né della persona alle sue spalle; si tratta di colui che resta dietro le quinte.
Perciò si rende necessario, innanzitutto, attenuare l’esperienza di sé come malato e “sfidare”, mettere in discussione, la validità di questa esperienza attraverso l’invito a reagire ai fatti prima che accadano all’interno della famiglia d’origine, prima, nucleare, poi. Si tratta, infatti, di reattività cioè della capacità di visitare ad intervalli regolari l’emotività diffusa e di sviluppare una capacità di visione obiettiva.
A tal proposito si parla di “detriangolazione del triangolo” ovvero di quel processo in cui si aiuta il genitore a stabilizzare una “posizione-Io” differenziando il proprio sé nel rapporto con il bambino; questo è possibile quando si possono asserire con calma le proprie convinzioni e credenze, renderle operanti senza critiche e coinvolgimenti in conflitti emotivi.
Il motore di tutto ciò risiede in un confronto altro rispetto alla prassi ed in una possibilità alternativa che viene offerta; si tratta di un apparenza di senso anche in funzione degli alternativi modelli transazionali che permettono a nuovi rapporti di auto rafforzarsi; il piacere dell’esperienza che funziona rende il meccanismo sperimentato preferibile rispetto ad altri.
Lentamente, considerando l’omeostasi familiare, accade che si produca un effetto a valanga dove da una trasformazione si produce una possibilità di ulteriore cambiamento: un riassetto del funzionamento familiare interno che si mantiene, proprio, attraverso quella tipica dinamica di autoregolazione.
Il vero lavoro consiste nell’ evitamento della naturale tendenza alla triangolazione rimanendo in costante contatto emotivo sino a che la diade non inizi a cambiare e questo accadrà attraverso una iniziale riduzione dell’ansia; questo diffonderà il processo agli altri membri della famiglia nella direzione di una maggiore sicurezza di sé ed accettazione dell’altro.
Questa nuova tappa del processo di differenziazione comporterà, ovviamente, una disarmonia evolutiva nel senso di una percezione distonica dello status quo attuale ma costituirà anche l’indice del cambiamento in atto.
Una volta raggiunto un buon livello di distinzione dalla rispettiva famiglia d’origine, nonché la conquista di una sufficiente conoscenza dei sistemi familiari, migliorerà anche la capacità di affrontare la crisi prospettandosi una maggiore definizione della persona sufficientemente motivata.
Per concludere, una considerazione attraverso lo scritto di Delort (2009), fino al secolo XIX la maggioranza della popolazione è rimasta contadina e questo significa che il duro lavoro dei campi, la vita direttamente regolata dai ritmi naturali hanno impresso una forma ai tratti essenziali della popolazione; non solo sul corpo ma sui modi di pensare, sulle tradizioni e sull’espressione del linguaggio. Il tempo destinato alla terra riduce quello destinato al ruolo di padre, alla costanza di un rapporto che stimoli l’indipendenza e sviluppi le risorse personali: forse, poteva accadere che padre e figlio, condividendo la stessa sorte lavorativa, potessero comunque a rapportarsi attraverso il quotidiano quale abbandono naturale del seno materno verso la natura. Ma cosa accade quando ai campi si sostituisce la vita di città? Cambiano le priorità, cambiano i ritmi lavorativi e i tempi destinati all’uso sociale, quindi, anche alla famiglia; l’uomo che, fino a ieri, faceva ciò che gli riusciva naturale, oggi scopre di doversi reinventare continuando a lavorare sodo.
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