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“In tempi come questi, la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”.


Una vita “al buio” – 5° PuntataA volte, uno sguardo, un sorriso, una sola parola… può cambiare una vita. Come a volte, anche un solo gesto, un solo cenno di una persona, ti può ripagare di una vita intera. Fabrizio Poggi Longostrevi, figlio di un magnate della Sanità di una “Milano da bere”, ha pagato l’incolpevole appartenenza ad un sistema, che ha finito col distruggere anche se stesso. Faticosamente, ne è venuto fuori. Anche se porta cicatrici indelebili. Questa è la sua storia che riportiamo, come da sua esplicita richiesta, per far capire che, spesso, sotto i lustrini, c’è tanto (e troppo) buio. “In tempi come questi, la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”

Sembra il classico luogo comune ma mi accorsi presto quanto è vero che non si apprezzano mai abbastanza le cose che si hanno finché non ci vengono a mancare e non mi riferisco soltanto ai beni materiali: sapere che qualcuno ti osserva, segue tutti i tuoi spostamenti, ascolta e registra le tue conversazioni, controlla, analizza passo a passo tutta la tua vita finanche al punto da poter riuscire a carpire i tuoi stessi intimi pensieri è una privazione di libertà persino più cruenta, insopportabile e alla lunga insostenibile del 41bis.

Si tratta di una invisibile catena di piombo che grava sulla tua anima con una forza afflittiva mostruosa e un potere incommensurabile: una specie di TrumanShow, o di itinerante casa del Grande Fratello che ti segue sempre ovunque tu vada dalla quale però non sai se e quando potrai mai uscire.

Quando stavo per convincermi che quella ingiusta, insensata quanto massiccia persecuzione investigativa potesse e dovesse essere terminata presi quasi involontariamente visione di alcuni documenti riguardanti la situazione giudiziaria di mio padre che accanto alle parole tratte dalle registrazioni delle telefonate intercettate recavano in nota la dicitura: come da reg. progressiva n. 1327 del giorno XX/XX/XX

In quel momento capii che, se anche un giorno avessero mai smesso davvero di spiarci, non mi sarei mai più riuscito a sentire totalmente libero…

Avevo letto una volta su un quotidiano, mi pare il “Corriere della Sera”, che l’Italia è il paese (o uno dei paesi) al mondo con in proporzione il maggior numero di utenze poste sotto controllo ma non avrei mai e poi mai, in cuor mio, immaginato nemmeno lontanamente che si potesse arrivare a tanto…

E poi, quanto poteva costare allo Stato questo accanimento investigativo?

La mia iscrizione nel registro degli indagati per il reato di “riciclaggio” (???) infatti fu proprio il frutto delle prove (“inconfutabili”) derivanti dalle intercettazioni delle conversazioni telefoniche che intrattenni dal mio cellulare con mio padre durante quel ridicolo, futile e malaugurato viaggio a Montecarlo: in altri atti giudiziari riguardanti altre persone coinvolte nelle indagini (vedi ad esempio mia sorella) vidi proprio la trascrizione (non proprio fedele) di alcune frasi da me dette nel corso della mia logorroica attività telefonica quotidiana; frasi anche ambigue, spesso semiserie se non proprio del tutto appartenenti al faceto, la cui interpretazione in un senso piuttosto che in un altro è rimessa ovviamente alla totale discrezione di chi le aveva disposte e ordinate..

A questo punto, cosa fare?

Pensai anche, nel delirio di quei giorni convulsi e travagliati, di scappare, fuggire via il più lontano possibile… magari oltreoceano, in America latina (continente che adoro) o negli Stati Uniti (dove ho qualche amico): per la prima volta nella mia squallida vita, bramavo il confortante grigiore dell’assoluto anonimato, il tepore della dimenticanza. Il mio sogno più grande divenne infatti quello di potermi mischiare, perdere, confondere, dissolvere, fondere tra la folla fino a scomparire totalmente, non più utilmente apprezzabile come entità autonoma, viva parte integrante di una massa il più possibile oceanica, di una moltitudine chiassosa di anime senza nome e senza platea, all’interno della quale il singolo lamento, ancorché straziante, diviene del tutto impercettibile. Avrei dato tutto ciò che avevo per essere dimenticato per davvero e scomparire dalla storia come il contingente italiano del film “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores: il capolavoro dal quale è tratta la frase citata in apertura.

All’inizio, per chi ha un carattere un po’ esuberante e un animo un po’ narcisista e un po’ egocentrico come il sottoscritto, sapere di non essere mai lasciato solo, sapere di essere sempre al centro dell’attenzione, può anche risultare piacevole e divertente soprattutto se uno soffre, come il sottoscritto, di un infantile, costante bisogno di contatto e di attenzione. Alla lunga, però, quando non sai più dove finisce gioco e dove inizia il dramma della realtà diventa davvero molto dura.

E poi, perché fuggire… e dove?

Il nemico che dovevo combattere non era certo fuori ma dentro di me: anche in capo al mondo avrei infatti continuato a soffrire atrocemente per l’esistenza di questa gabbia asfissiante (reale o immaginaria che fosse, non avevo né potevo avere elementi per stabilirlo), una specie di camicia di forza che agisce sul pensiero senza contare che con la mia fuga avrei solo contribuito ad alimentare le assurde fantasie di qualcuno, circa presunte giacenze bancarie riconducibili alla mia famiglia sparse in giro per il mondo.

Giunsi sull’orlo della follia, non sapevo né potevo più distinguere il paranoico dal reale, quello che poteva essere acume, destrezza, intuizione da ciò che invece era solo il frutto di corroboranti, spossanti e pure manie di persecuzione: sapevo di non aver nulla da nascondere o da temere ma sapevo anche di poter essere spesso frainteso e non potevo, quindi, impedirmi di soffrire enormemente anche per il danno involontario che avrei, forse, potuto arrecare con la mia (certo non più spensierata) vita ad altri. Non era la prima volta che qualcuno subiva un male ingiusto per via delle mie azioni e delle mie parole, anche (nelle intenzioni) delle più innocue, innocenti e banali: volente o nolente inoltre mi resi presto conto che la possibilità che ci fosse sempre qualcuno “in ascolto” deviava e inquinava fatalmente il corso di tutti miei pensieri. I miei pensieri, quindi, nella struggente consapevolezza che non erano più del tutto “privati”, non potevano più essere quelli che sarebbero stati in assenza di tale decisivo e fuorviante condizionamento; da qui, di conseguenza, posso affermare che non erano più i miei veri pensieri e quindi, secondo un processo logico – deduttivo, io non ero più io…

…quindi, chi ero? Cosa ero diventato?

La mia anima viveva la drammatica, lacerante e pericolosissima scissione fra un presunto “io pubblico” e un sempre più irraggiungibile “io privato”. Non sapevo nemmeno più dove finisse l’uno e dove cominciasse l’altro. Iniziava ad instillarsi nella mia psiche il tremendo germe della malattia, aleggiava insistentemente nella mia mente il fantasma della follia: il rischio della schizofrenia mi teneva per mano e mi dava del tu, sempre pronto, dietro l’angolo, ad inghiottirmi e divorarmi in un sol boccone… alla prima occasione propizia!

Era come se percorressi una strada ove le curve arrivavano troppo velocemente… e per precipitare in fondo al precipizio sarebbe bastata una sbandata…

Fui anche coattivamente internato nel reparto psichiatrico dell’Ospedale competente di zona, dal momento che, qualcuno, deliberatamente, decise di richiedere l’emissione nei miei confronti di un provvedimento di TSO (trattamento sanitario obbligatorio): ignoro quali fossero i motivi per cui fui costretto a subire l’onta di quella ennesima “vergogna”! Le atroci, strazianti, lancinanti esperienze e il drammatico vissuto di quei giorni orribili mi aprirono una ferita profondissima che non si è ancora ad oggi del tutto rimarginata e proprio per questo diverranno oggetto di una o più puntate successive.

Mi permetto di aprire una parentesi per raccontare con un esempio paradigmatico e reale (che credo possa aiutare a capire bene come stanno le cose in questo paese) di vera vita vissuta. A Roma, dalla camera dell’hotel ai Parioli ove soggiornavo l’anno scorso per un corso di specializzazione della Luiss Management, venne a mia insaputa prelevato il mio computer portatile Texas Instruments modello Extensa 600 (mai connesso in rete e mai usato con floppy provenienti da altri computer) che comprai nella primavera del ‘96; l’ho sempre vissuto come una specie di diario, scrivendovi appunti, note, impressioni, spesso semplici sfoghi; quasi ogni sera, prima di andare a letto, lo usavo per parlare con me stesso e fare il punto della mia vita; avevo così negli anni creato una specie di memoriale personale assai copioso (tutti files di word). Ebbene, quando tornai a Milano per il week-end, lo riaprii per la prima volta e già dallo screen saver che vi trovai impostato (un biplano che volteggia fra le nuvole nel cielo) iniziai a sospettare che ci avesse messo le mani qualcuno, quando poi iniziai ad esaminare il contenuto del HDD, aprendo dei files a caso ne ebbi l’assoluta certezza: non c’era più nulla che potesse essermi minimamente utile a ricostruire il suo contenuto originario e quindi il mio passato.

Non sono un esperto di Informatica, né di Diritto così telefonai immediatamente al mio avvocato dell’epoca che mi disse di portargli il PC per farlo esaminare a un tecnico suo amico: io volevo intanto correre in questura, sporgere denuncia ovviamente contro “ignoti”, agire, capire, ottenere giustizia, fare assolutamente qualcosa. La vicenda si risolse con le seguenti parole dell’avvocato: “dimentica tutto, vai a casa non in questura, stai calmo e se riesci fatti una bella risata”. Consiglio che, capita l’antifona, mi vidi costretto ad accogliere (a parte la risata) ingoiando tutta la rabbia, lo sgomento e il dolore che avevo in corpo, il messaggio era chiarissimo… A buon intenditore poche parole e chi ha orecchie per intendere intenda se crede… Del resto cosa mi restava da fare? Rivolgermi al presidente della Repubblica?

Tornando a noi, il 25 giugno ’97 chiesi ed ottenni (non l’avessi mai fatto, poi si capirà il perché…) il primo permesso per fare visita a mio padre in carcere: non lo vedevo da circa un mese e mezzo..

Ricordo che quel giorno (il secondo d’estate) faceva veramente un caldo da paura, un caldo torrido, asfissiante: nella stentorea immobilità dell’aria non volava nemmeno una mosca e questa immobilità sembrava in grado di paralizzare persino i pensieri.

Mi misi in coda disciplinatamente all’ingresso della casa circondariale di Opera, stipato come una sardina in scatola in mezzo ai parenti accorsi a far visita ai loro cari in carcere: osservando quei volti composti carichi di speranza e incrociando gli sguardi di quelle persone paradossalmente molto distanti da me (almeno in apparenza) come estrazione socioeconomica, ritrovai nei loro occhi quel senso di fraternità passiva, quel patire insieme, quella rassegnata, solidale, pazienza di cui ci parla Carlo Levi in un meraviglioso passo del suo immortale capolavoro “Cristo si è fermato a Eboli”, ove descrive “il legame non religioso ma naturale” dei contadini. Osservandoli mi sovvenne l’immagine dei vinti dalla vita del Verga: coloro che accettano senza intemperanze, con compostissima rassegnazione, la fatalità ineluttabile del loro destino che sanno essere immutabile.

Il penitenziario di Opera rappresenta, da un punto di vista paesaggistico e architettonico, il classico “pugno in un occhio”: una surreale distesa d’asfalto che incute all’osservatore ansia, timore se non proprio un senso di vero panico anche solo a guardarla dall’esterno, ergendosi, stampata vistosamente nella fiorente natura della campagna alla estrema periferia sud di Milano, tanto da far pensare che gli architetti e gli ingegneri che l’hanno concepita e progettata quel giorno dovevano davvero il cervello “in manutenzione”!

Giunsi a destinazione a bordo del mio scassatissimo motorino Ciao Piaggio, solo dopo una lunghissima peregrinazione in senso circolare per i dintorni: un po’ per l’agitazione, un po’ perché non conoscevo assolutamente la zona, un po’ per l’insufficiente e approssimativa segnaletica e un po’ perché ero troppo timido, imbarazzato e soprattutto vergognoso, essendo la situazione per me del tutto inedita (sono sempre stato sin troppo orgoglioso) per permettermi di fermare uno dei rari passanti e chiedere qualche indicazione, sbagliai così strada un numero di volte impressionante e quando finalmente giunsi a destinazione, mi precipitai con grande affanno e in tutta fretta verso quello che mi pareva dovesse essere l’ingresso “al pubblico”.

Dopo aver lasciato gli oggetti di valore (orologio e catenina d’oro) nell’apposita cassetta ed aver subito una minuziosa perquisizione da un uomo con le mani infilate in rumorosissimi guanti plastificati (tipo quelli che si trovano nel reparto ortofrutticolo dei supermercati quando vige la spesa “fai da te”) venni ammesso, attraverso un lungo corridoio che pareva non avere mai fine, in uno stanzone stranamente vuoto. Di lì a poco, all’altro capo di quello strano larghissimo banco a due piazze contrapposte sistemato al centro della stanza, sarebbe giunto scortato dai secondini mio padre: il detenuto.

Mi faceva e mi fa ancora un effetto pazzesco ( non so bene il perché) associare quest’ultima parola alla persona e all’immagine di mio padre…

Vivevo nell’ingenua quanto puerile convinzione che almeno nel sofferto pathos di quei momenti potessi essere davvero lasciato finalmente solo. Invece mi sbagliavo… e anche di grosso: una “cimice” piazzata chissà dove, all’interno della stanza registrava ogni piccolo rumore, ogni minimo colpo di tosse, ogni nostro sospiro, ogni parola uscita dalla nostra bocca durante quell’incontro. Il contenuto del dialogo fra me e mio padre venne immediatamente integralmente trascritto (trascurarono forse solo i sospiri) dagli espertissimi periti del tribunale e il frutto della sapiente quanto meticolosa trascrizione giunse poi, immediatamente, (nessuno saprà mai come) nelle mani di astutissimi e “autorevoli” giornalisti i quali, nell’edizione del giorno dopo dei rispettivi quotidiani nazionali ne pubblicarono in prima pagina il contenuto. Il tutto, ovviamente, distorto, manipolato, trasfigurato, artefatto e brutalizzato estrapolando parole, frasi e mezze frasi fino a stravolgerne totalmente il senso, l’essenza, il significato: uno spregiudicato quanto insperato “scoop” (o meglio finto scoop, visto che quanto scritto dai giornali quel giorno era nella sostanza palesemente, totalmente falso) che evidentemente faceva molta “audience” e poteva così contribuire enormemente (almeno nelle intenzioni e nella speranza degli artefici) ad aumentare le vendite.

L’intera questione del trauma subito a seguito di ciò, su un piano psicologico, umano, morale e persino esistenziale, merita senza dubbio un capitolo a parte, quindi per oggi mi fermo qui.

Avrei piacere di prendere congedo trascrivendo per intero quel passo di bellezza sconvolgente tratto da “Cristo si è fermato ad Eboli” (di C. Levi) che ho citato in precedenza.

Lo faccio nella speranza che la scelta possa risultare gradita al lettore:

“Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli déi della Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico”

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