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Rischia il posto il lavoratore che usa parole volgari col capo?

La legge italiana attribuisce al datore di lavoro il potere di
licenziare solo nel rispetto di precisi limiti e modalità, sia
quanto ai motivi che lo giustificano sia quanto alla procedura da
seguire.

La
motivazione più frequente del licenziamento riguarda
comportamenti del lavoratore, la cui gravità non consente la
prosecuzione del rapporto di lavoro per la lesione del rapporto
fiduciario, che può essere determinata da “giusta causa” o “giustificato motivo” (soggettivo).

La
“giusta causa” si riferisce ad un comportamento
talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto neppure
provvisoriamente e da giustificare il licenziamento in tronco, senza
alcun preavviso. Ricorre, ad esempio nei casi di rifiuto
ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa (
insubordinazione); rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica
che ha constatato l’insussistenza di uno stato patologico;
sottrazione di beni aziendali nell’esercizio delle proprie mansioni;
condotta extralavorativa penalmente rilevante e lesiva del vincolo
fiduciario.

Il
“giustificato motivo” (soggettivo) è configurabile
in casi di inadempimento meno grave degli obblighi contrattuali, che
giustifica il licenziamento ma con l’obbligo di preavviso da parte
del datore di lavoro. In tale ipotesi rientrano l’abbandono
ingiustificato del posto di lavoro, le minacce e percosse, le
ripetute e gravi violazioni del codice disciplinare.

Pertanto,
il lavoratore deve stare piuttosto attento nei modi di comportamento
che adotta col datore di lavoro, ivi compreso l’uso di
espressioni
irriguardose.

In
proposito ha destato particolare interesse

la

sentenza
della Corte di Cassazione,
Sezione Lavoro,del 18.03.2009 n.6569,
che ha
esaminato il caso del licenziamento, da parte di una casa di cura, di un
ausiliario addetto al servizio stoviglie per avere, quest’ultimo,
reagito dicendo “chi ca….ti credi di essere”
all’amministratore della società’ a seguito di rimproveri
ricevuti, ed ha escluso che potesse giustificarsi come giusta causa
il licenziamento del lavoratore a seguito di condotta irriguardosa
verso il proprio
datore
di lavoro

o superiore gerarchico, per l’uso di espressioni poco educate,
essendo stata tale condotta il frutto di una
reazione
emotiva

ed istintiva del lavoratore ai rimproveri subiti.

Infatti,
precisa la Corte,
“per
stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di
licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione
degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di
quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravita’ dei fatti
addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e
soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati
commessi ed all’intensità’ dell’elemento intenzionale,
dall’altro la proporzionalità’ fra tali fatti e la sanzione
inflitta”.

Erminia
Acri-Avvocato