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Come avrebbe fatto, Socrate, senza Internet?


  

Approfondimenti sociali – 15

“Non temere tanto la morte; temi piuttosto lo squallore della vita” (Bertolt Brecht).

Mi ha chiesto un amico informatico: “Perché ti sei fatto fare una biblioteca così grande? “Beh…” – rispondo io – “non mi sembra tanto grande: compro moltissimi libri, e tanti altri li ricevo in regalo. Andando avanti di questo passo, tra una decina di anni sarò costretto a farmela prolungare”. “Tra una decina di anni i libri non esisteranno più: saranno oggetti di antiquariato”. “Come sarebbe a dire “non esisteranno più”?” “Sarebbe a dire che non verranno più stampati. Li farà fuori il personal computer. Verranno sostituiti da dischetti sottili come ostie, chiavette piccole come un dito mignolo, oppure via Internet potrai visualizzare qualsiasi libro tu voglia consultare.” Guardo con tenerezza la mia amatissima biblioteca (quattromila volumi!) e penso con terrore al giorno in cui tutto questo ben di Dio verrà trasformato in un’unica pizza magnetica. In pratica io posseggo ancora tutti i libri della mia vita: dal primo Salgari, edizione Sonsogno, all’ultimo saggio di Popper. Quando ero ragazzo, a differenza dei miei compagni di scuola che campavano vendendo libri usati, io affrontavo lunghi periodi di miseria, pur di non separarmi dai miei tesori. A dir la verità, tranne che per alcuni casi eccezionali, non mi è mai capitato di rileggerne qualcuno; ciò nonostante, guai a chi li tocca! Chiedermi un libro in prestito è come farmi uno sgarbo. Insomma, questo menagramo del mio amico vorrebbe che tutti i libri sparissero dalla faccia della terra, come se poi l’unica funzione di un libro fosse quella di farsi leggere. Cominciamo col dire che io sono abituato a leggere la sera, a letto, subito prima di prendere sonno; tra dieci anni che faccio, mi porto il personal sotto le lenzuola?! E poi, quando finisco di leggere, e con gli occhi semichiusi metto il segno, evvero faccio l’orecchietta all’ultimo foglio che ho letto, nel caso del personal che dovrei fare: l’orecchietta computerizzata? Il mio amico mi abbandona dicendo che con uno come me non si può mai parlare seriamente. Rimasto solo, prendo a caso un libro della mia biblioteca: è Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. Lo apro solo a metà:

“Buon giorno” – disse il piccolo principe. “Buon giorno” – disse il mercante. Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere. “Perché vendi questa roba?” – chiese il piccolo principe. “È una grossa economia di tempo”- rispose il mercante – “gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatré minuti alla settimana”. “E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?” “Se ne fa quel che si vuole…” “Io” – disse il piccolo principe – “se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana…”

(Luciano de Crescenzo – Il caffè sospeso -Mondadori 2008 )

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In un’epoca storica caratterizzata dall’accavallarsi di disvalori fuorvianti, che determinano gravi crisi esistenziali, colpisce alquanto l’incoerenza di alcuni comportamenti. Ad esempio, si cerca di compensare la tendenza alla trasformazione sedentaria delle varie attività lavorative e di svago (consideriamo l’impiego della tecnologia telematica e di tutti gli automatismi che ci fanno ridurre l’allenamento al movimento), con l’applicazione sempre più vasta del concetto di Wellness e di Fitness che si traduce, molto spesso, in lunghe e sfibranti sedute di palestra. Tutto ciò, non solo non compensa la carenza del “dinamismo muscolare” che andiamo perdendo, ma sottopone l’organismo ad un carico funzionale per il quale non è preparato.

In una ricerca scientifica pubblicata su Medicina Pratica del marzo 2001, il prof. Fabio Ambrogi del Dipartimento di Medicina Interna dell’Università degli Studi di Pisa, ha tratto le seguenti conclusioni: …non sempre l’attività sportiva, almeno per quanto riguarda il sistema immunitario, reca benefici, come tradizionalmente si pensa. Anzi, dopo le prestazioni sportive, si assiste alla comparsa di quadri di immunodeficienza transitoria. Inoltre, è rilevante il problema della ridotta efficienza atletica di soggetti superallenati che accusano un’aumentata suscettibilità alle infezioni…”.

L’idea di movimento è insita nel concetto stesso della vita, in quanto tutto si riconduce all’energia che è movimento “puro”. Alla base di ogni forma di vita, infatti, esiste una strutturazione atomica o molecolare; all’interno di ciascun atomo, troviamo elementi scomponibili in particelle elementari, in continuo movimento.

Condizione temporanea conseguente allo stato di equilibrio metabolico psicofisico (OMEOSTASI) che deriva dall’appagamento dei propri “bisogni”.


Questa è la definizione più corretta che si possa dare del concetto BENESSERE.

Se fermiamo per un attimo la nostra attenzione al concetto di autoaffermazione (che è uno dei bisogni da appagare per vivere meglio), non possiamo fare a meno di notare che il bene più prezioso da apprezzare e mantenere che noi possediamo, sia quello della salute psicofisica: Poter vedere, camminare, pensare, respirare, udire, parlare, rappresenta la base di partenza migliore per sentire “dentro” l’irrefrenabile spinta ad essere contenti. Tutto ciò presuppone un sistema di vita e di pensiero, che “giri” a ritmi consoni ad una tranquillità interiore, molto lontani dai sistemi stressanti e nevrotizzanti cui si sottopone, spesso, chi fa sport a livello agonistico o amatoriale.

Con questo articolo, non si ha l’intenzione di discriminare l’attività sportiva, ma si mira a far consapevolizzare che tutto quello che facciamo nella vita ha necessità di essere finalizzato a qualcosa di utile, piacevole e logico: ogni eccesso, di qualunque natura, va contro i tre parametri sopra riportati.

Ogni essere umano si ritrova a disposizione (“nascosto” all’interno dei propri atomi)un patrimonio energetico enorme, da utilizzare per pensare, riflettere, amare, muoversi per realizzarsi in qualcosa, attraverso il filtro della propria personalità. Se osservassimo il comportamento degli animali, liberi di vivere secondo leggi di Natura, ci accorgeremmo del fatto che, ogni loro movimento è calibrato e commisurato al lavoro che devono svolgere e che riguarda, comunque, l’appagamento di bisogni primari.

Abbiamo mai riflettuto adeguatamente alla trappola in cui siamo costretti a vivere da un sistema economico “incoerente” fin dalle fondamenta?

Attraverso tutti i canali di comunicazione di massa, mediante spot pubblicitari, veniamo indotti a comprare una infinita varietà di alimenti ipercalorici (ma a basso contenuto di nutrienti come vitamine, sali minerali, etc.) che riempiono, praticamente, tutte le ore della nostra giornata (dalle merendine mattutine, ai pranzi “che sono diventati un mito”, agli snack pomeridiani, fino a tutte le possibili combinazioni alimentari che costituiranno una “cena indimenticabile”); poi, però, sempre attraverso messaggi “mediatici”, ci convincono che l’immagine vincente nel lavoro come nella vita, sia quella consistente in un misto di muscoli e anoressia (uomini dinamici, vagamente “dopati” e donne efebiche, autentici “pali” rivestiti di morbida alcantara); a questo punto, ci vengono in soccorso le pillole cattura calorie, per poter “tranquillamente” trangugiare una Saint Honoré da 5 kg (con buona pace di dentisti e nutrizionisti); a conclusione di ciò, possiamo analizzare (sempre attraverso disinteressati “consigli per gli acquisti”) le enormi opportunità di acquistare (con comodi pagamenti rateizzabili fino al giorno del giudizio universale) intere palestre da trasportare in casa propria per effettuare comodamente tutti quegli esercizi che non faremo mai perché troppo impegnati a lavorare (e logorarci) per pagare tutte quelle comodità necessarie a migliorare la qualità della vita (quella di chi ce le vende, naturalmente!).

A che serve riflettere su tutto questo?

Anzitutto a distogliere l’attenzione dalla piega troppo tecnica che stava prendendo questa l’articolo, poi a raggiungere un risultato importante nelle proprie convinzioni: l’attività sportiva, da sola, non è in grado di farci diventare “fusti” o “indossatrici” né, tantomeno, si può pretendere di compensare le insoddisfazioni della vita pretendendo di diventare “sic et simpliciter” campioni sportivi: certe cose lasciamole fare a chi pratica lo sport per professione.

In tutto questo, cosa ci porta ad essere felici?

Con il termine felicità connotiamo un lasso di tempo,di solito breve, che viviamo ogni qual volta riusciamo a raggiungere un obiettivo per il quale ci siamo “spesi” considerevolmente,nel rispetto della propria dignità. Alla luce di ciò, prima di ogni altra considerazionein merito, proviamo ad elencare alcuni degli elementi (magari quelli più significativi) che servono per potere partire alla ricerca della felicità.

  • Accettazione di sé, per riuscire a dare ed a ricevere amore.
  • Adattamento ai cambiamenti della vita per metabolizzare le tossine del vivere quotidiano ed integrarsi nella Società.
  • Realizzazione personale attraverso un’attività lavorativa gratificante.
  • Ridimensionamento dell’attaccamento ai beni materiali.
  • Valorizzazione dell’esperienza di vita vissuta.
  • Capacità meditativa per apprezzare il valore delle nuove scoperte e delle relative esperienze.

In conclusione, è bene che ognuno si senta libero di praticare l’attività fisica che preferisce, per il tempo che ritiene opportuno, senza andare in affanno. Dalla passeggiata naturalistica, alla corsa in riva al mare, dall’attività in palestra (che può essere utile anche per socializzare), alla manutenzione del proprio giardino (con giudizio!), alla pratica dello yoga o del TAI CHI CHUAN (ottima disciplina orientale) tutto può contribuire al piacere di muoversi in salute e sicurezza purché… prima di usare gambe e braccia, ci si ricordi di attivare correttamente il cervello!

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(da Luciano de Crescenzo – Il caffè sospeso -Mondadori 2008 )

Ho cominciato a vendere macchine a schede perforate nel lontano 1956. All’epoca i progenitori dei computer erano marchingegni elementari, grossi come armadi, pesanti centinaia di chili, che per fare una fattura o un saldo trimestrale impiegavano decine di secondi, se non addirittura minuti. Si rompevano una volta al giorno e occupavano interi saloni. Poi arrivò la microelettronica e tutto divenne improvvisamente più piccolo, più maneggevole, più elegante. Il primo computer elettronico sul quale ebbi l’onore di mettere le mani si chiamava IBM 1401: non era un elaboratore potente, ma noi riuscivamo a venderlo ugualmente. Il 1401 2K (che resti fra noi) era molto modesto: non era capace di fare nemmeno le moltiplicazioni, io però, un pò con le buone e un po’ con le cattive, gliele facevo fare lo stesso. Per venti anni ho venduto centri elettronici, ho programmato in SPS, in COBOL e in DOS, ho installato decine d’impianti, ma sono sempre rimasto col dubbio: “I computer servono davvero a qualcosa o sono io che per raggiungere il fatturato assegnatomi dalla IBM suggestiono i clienti fino al punto di farmi raccontare da loro problemi inesistenti?”. Insomma, io partecipavo a uno strano marketing alla rovescia dove l’offerta precedeva la domanda e dove il cliente, nella persona del proprietario e del capocentro, era quasi sempre il mio complice numero uno. Malgrado la ventennale esperienza, una volta diventato scrittore, non sono riuscito a resistere alla sirena della tecnologia, e ora eccomi alle prese con macchine e macchinette. A questo punto mi chiedo: “Come faceva Socrate a vivere senza frigorifero?” e mi torna in mente l’inizio del Fedro: “Caro Fedro”- diceva Socrate – “Dove vai e da dove vieni?” “Ero con Lisia, il figlio di Cefalo”- rispondeva Fedro – “E ora me ne andrò a spasso fuori le mura”. In altre parole, gli ateniesi di allora non facevano assolutamente nulla: passeggiavano, litigavano fra loro, discutevano del Bene e del Male, ma in quanto a produrre un qualcosa di pratico neanche a parlarne. La verità è che nell’Atene di Pericle i cittadini veraci, ovvero gli ateniesi figli di ateniesi, erano pochini: sì e no ventimila. Tutti gli altri facevano gli schiavi ed erano numerosissimi: dalle duecentomila alle trecentomila unità. Nessun ateniese degno di questo nome avrebbe mai alzato un dito per produrre un aggeggio utile alla vita. Anzi, a essere colti in flagrante mentre si stava lacorando, si correva il rischio di fare anche una brutta figura. Oggi gli schiavi moderni potrebbero essere i computer, se non fosse vero esattamente il contrario: più macchine inventiamo e più siamo costretti a correre dietro di loro per farle funzionare. Facciamo un esempio: il telefonino. Papà mi raccontava che quando, verso la fine del secolo, fu inventato il telefono, un tecnico dell’azienda di Stato venne a spiegarne il funzionamento a mio nonno, il cavaliere Giuseppe De Crescenzo, artista pittore. “Don Peppì””- gli disse il tecnico, vedendolo alquanto sospettoso -“Il telefono non è altro che una cassetta di legno che sta attaccata al muro. A un certo momento la cassetta si mette a suonare e voi andate a rispondere…” “Come, come?” – lo interruppe mio nonno – “Lei uona e io vado a rispondere!?” Mio nonno nella sua illuminata ignoranza aveva subito individuato il difetto principale del progresso: quello di non saper chiedere permesso. Il progresso entra e obbliga tutti gli altri a rispondere. Cosa direbbe oggi Socrate? “O Luciano” – mi direbbe – “Mi compiaccio con i tuoi contemporanei per le belle invenzioni che hanno realizzato, ma ho paura che l’abitudine a possederle creerà in loro, in breve tempo, una tale dipendenza che alla fine diventeranno schiavi delle loro stesse invenzioni”. “Sì, o Socrate” – ribatterei io – “Però devi ammettere che si tratta d’invenzioni eccezionali. Un telefax, pur senza possedere i sandali alati di Ermes, è in grado di racapitare una lettera più in fretta di qualsiasi altro messaggero, e un computer ci consente di fare operazioni più complesse di quelle che la stessa Atena, nata dal cervello di Zeus, sarebbe in grado di risolvere. Ognuna delle nostre macchine in effetti ci rende simili agli Dei”. “Solo in apparenza, o Luciano, solo in apparenza: negli attributi essenziali restate sempre gli stessi. Le invenzioni non sono che i prolungamenti dei sensi: il telefono è un prolungamento dell’orecchio, la televisione dell’occhio, l’automobile delle gambe, il computer della memoria e così via. Malgrado le invenzioni, però, l’uomo di oggi è ancora quello che ho conosciuto ai tempi di Pericle: ambizioso come Alcibiade, vanesio come Aristippo, invidioso come Anito, goloso come Agatone. Se i tuoi computer avessero davvero cambiato gli uomini, nessuno di loro litigherebbe più per il potere e il denaro”. Dopo queste parole non ho potuto fare a meno di chiedermi: Stavo meglio prima o sto meglio adesso?, cosa mi ha dato e cosa mi ha tolto il progresso? La felicità risiede nel cambiamento o nell’immobilità? La tecnologia appartiene all’essere o al divenire? Per avere un’opinione al riguardo ho telefonato al mio amico ingegnere e filosofo Gaspare Rosolino, appassionato utente di computer. “Ciao Gaspare, come va?” “Benissimo e tu?” “Bene anch’io. Senti Gaspare, io vorrei vederti una di queste sere per discutere sul tema relativo ai vantaggi e agli svantaggi della tecnologia. Che ne diresti se ci vedessimo giovedì prossimo alle otto a casa mia, magari a cena?”. “Per me andrebbe benissimo, solo che in questo momento non posso dartene una conferma. Mi dovresti richiamare domani”. “E perché mai?” “Perché mi è caduto il sistema”. “In che senso, scusa”? “Nel senso che ho registrato tutti gli appuntamenti della settimana sul computer, ed essendo l’unità centrale momentaneamente fuori uso… non so se giovedì prossimo, alle otto di sera, ho già un altro appuntamento”. “E non potresti segnarti, nel frattempo, il mio invito su un pezzo di carta e poi magari, in un secondo tempo, appena si aggiusta il computer, darmene una conferma?”. “E no che non posso: altrimenti che ho speso a fare tanti soldi per crearmi un’agenda elettronica! Se comincio di nuovo a segnarmi gli appuntamenti sui pezzetti di carta, addio informatica!”

 

G. M. – Medico Psicoterapeuta

Si ringrazia Adelina Gentile per la collaborazione offerta nella stesura del dattiloscritto