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“Gli italiani sono sempre gli altri. In negativo. Anzi, con un forte accento spregiativo. Sono stati gli altri per Leopardi, perché scettici e cinici. Gli altri per Manzoni, perché si beccano come i capponi di Renzo pur nella comune disgrazia… per Cavour, che parlava francese e pensava come un liberale inglese… per Benito Mussolini che li voleva rifare da capo a fondo… per il sardo comunista Enrico Berlinguer che li vedeva perennemente afflitti dalla ‘questione morale’. E oggi gli italiani sono sempre gli altri per Eugenio Scalfari o Romano Prodi, quando votano Berlusconi, e per Giuliano Ferrara e per Silvio Berlusconi, dopo che hanno fatto vincere Prodi per ventiquattromila voti.” Questo è il senso dell’ultimo libro di Francesco Cossiga “Gli Italiani sono sempre gli altri” (Mondadori Ed.). Ebbene, ad una settimana dall’ultima gara del campionato mondiale di Formula Uno, volutamente “a bocce ferme”, vogliamo tornare sull’avvenimento che ha consacrato l’utilizzo del cervello in maniera ottimale da parte di Kimi Raikonen sull’emotività aggressiva conflittuale di chi sa di essere ad un passo dalla vetta e, di conseguenza, (magari per aver sgomitato un po’ e aver danneggiato un altro po’) non gradito agli altri competitors: Lewis Hamilton. Cos’è un agone automobilistico e, soprattutto, perché a livello internazionale è più considerato del tanto osannato mondo del pallone? Forse dipende… PER CONTINUARE LA LETTURA, CLICCARE SUL TITOLO.




dal fatto che il calcio esprime, nell’immaginario collettivo, l’equivalente di una “contesa dei poveri”. Infatti, quanti di noi, ragazzini del tempo che fu, ha rovinato scarpe e vestito “buono” colpendo qualsiasi cosa avesse una benché minima forma sferica, immaginando di poter assurgere (a costo zero) alla ribalta della cronaca e facendo storcere il naso, invece, alle ragazzine un po’ snob che ci consideravano soltanto dei bamboccioni sudaticci? L’automobilismo, invece, nasce come sfida temeraria alle leggi della fisica ed evoluzione postmoderna delle giostre medievali. Rappresenta, al tempo stesso, l’emblema di un gioco di squadra (la scuderia governata da strategia e passione) e la speranza di un binomio correttamente miscelato fra un pilota (cuore e cervello) e una macchina (purosangue da domare e condurre alla vittoria). Una sorta di individualità nel complesso collettivo, insomma, in cui si fondono culture e derivati, sotto un’unica bandiera: quella della voglia di fare. In tutto questo, il made in Italy costituisce una garanzia di affidabilità, resistenza, onore e dignità. Si, perché nonostante la presenza di loschi figuri che “inventano Comunità Montane anche a livello del mare e generano partiti politici come mutazioni genetiche di una bottega di cuoio e di ombrelli” (Gian Antonio Stella), noi siamo anche il popolo che ha meritato l’onore delle armi ad El Alamein in cui, i paracadutisti della Folgore resistettero “oltre ogni limite delle possibilità umane” (Affermazione della BBC inglese a battaglia conclusa). Un uomo solo al comando, Luca Cordero di Montezomolo, in grado di evitare una nuova Caporetto al sistema Italia e che, dalle ceneri dell’impero di un tempo, ha riportato la FIAT e la Ferrari, al tavolo dei grandi. Tecnologia, sviluppo sostenibile, qualità percepita, voglia di riscatto e, soprattutto, caparbietà nel non mollare mai. Forse, questa volta, molti altri avrebbero voluto essere o “sentirsi” Italiani. E fino all’ultima curva.