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Nel concepire questa riforma, si è dimenticato di dare quello sguardo al passato indispensabile per affrontare sapientemente il futuro.


La frantumazione della scuola media di 2° grado in vari indirizzi, con prevalenza di studi tecnici, di linguaggi mediatici, costituisce un vero e proprio ostracismo per l’insegnamento delle lingue classiche, quasi a voler loro disconoscere quel ruolo formativo culturale che fu, fino agli anni ‘60 del trascorso secolo, il fiore all’occhiello dei nostri licei.

Questa stravolgimento degli studi è il risultato di un lavoro svolto da una commissione di “esperti”, nominata dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1997, i cui componenti, per ironia della sorte, sono stati gratificati col titolo roboante di …”Saggi”.

Eppure, in questa commissione vi figuravano accademici della Crusca, ricercatori e docenti universitari, sindacalisti e rappresentanti del mondo del lavoro, i quali tutti, animati dal sacro fuoco dell’innovazione, hanno privilegiato una scuola che fornisse, nell’immediato futuro, figure tecnico-professionali, capaci, solo, di manovrare, oltre che conoscere, la complessa articolazione tecnologica della moderna industria. I risultati sono, purtroppo, estremamente deprimenti, tanto che bisogna ricorrere alla manodopera extracomunitaria affinché la produzione industriale possa mantenere, almeno al minimo, l’evasione delle richieste del mercato.

E ciò, perché la fatica in fabbrica, o negli opifici, pur essendo migliorato l’ambiente di lavoro dal punto di vista della tutela della salute degli addetti alle diverse attività, pur avendo innovato anche l’abbigliamento degli operai ( oggi sono in numero maggiore i camici bianchi che non le pesanti e maleodoranti tute blu di un tempo ), fa si che sopravviva un elemento psicologico negativo che rende insopportabile ogni lavoro che prevede la preminenza della fabrilità: cioè, una ripetitività ossessiva di comportamenti e gestualità che rendono asfittico qualsivoglia rapporto interpersonale; perché la macchina operatrice, il robot, l’oscuro colore del monitor del computer, non ammettono, questi, distrazione alcuna.

Questa disumanizzazione che la fabbrica produce ci fa venire in mente quel significativo film del grande Charlie Chaplin, l’omino in bombetta e canna di bambù, avvolto in uno striminzito e sdrucito frac, che ha titolo “Tempi Moderni”, nel quale film Charlot impersonava l’operaio “legato” ad una catena di montaggio, costretto a ripetere, all’infinito, dei movimenti sincronizzati, al punto che, concluso il turno di lavoro, continuava a camminare barcollando, ripetendo meccanicamente la gestualità delle braccia, ormai automatizzate, anzi, robotizzate.

Questo tipo di scuole professionali ed industriali abituano, sin dalla prima giovinezza, ogni allievo ad un adattamento psicologico, prima che all’acquisizione di tecnologie specifiche, mentre il ragazzo viene segregato in una dimensione spaziale e temporale dove manca ogni diversificazione culturale.

Ciò induce a credere che il parere dei tecnocrati, dei grandi industriali, dei plutocrati della finanza abbia notevolmente influito sulla stesura dei nuovi programmi scolastici, perché è evidente la finalità di ridurre al minimo ogni intuizione razionale, ogni capacità critica che, diversamente, e nel secolo scorso, molti hanno sviluppato durante la frequenza, non solo dei licei, ma anche dei vari istituti di 2° grado .

Con ciò, non si vuole negare l’importanza delle scuole tecniche e professionali, considerato che bisogna pur garantire all’industria, all’agricoltura, al cosiddetto terziario avanzato, manodopera altamente qualificata; qui, preme sottolineare che la scuola, specialmente quella di Stato, deve, primariamente, fornire contenuti culturali, processi formativi, affinché i giovani, al termine della loro carriera scolastica abbiano acquisito, unitamente alla preparazione culturale di base, quell’auto coscienza che consente loro di compiere scelte.

Saper usare un computer, saper penetrare in una rete mediatica, muovere un “mouse” o battere su di una tastiera: tutto ciò abbisogna di una esercitazione guidata per un breve lasso di tempo, come ho già avuto modo di dire; volerne fare una materia pluriennale d’insegnamento nasconde, invece, il recondito fine di asservire l’uomo alla macchina, staccarlo dalla quotidianità della vita di relazione, ovattarlo nel mondo virtuale, atrofizzargli, lentamente ma inesorabilmente, la capacità di discernere, valutare e decidere autonomamente i progetti del proprio avvenire.

Se poniamo mente alla migliore classe politica e dirigenziale del nostro tempo, constatiamo che essa è costituita da un solido ceto che si è formato nello studio delle lingue classiche e delle scienze umane.

Lo studio del Greco e del Latino, delle scienze filosofiche, della storia letteraria italica ed europea non si riduce ad un’arida esercitazione circa i costrutti etimologici e sintattici, né ad acquisire strutture linguistiche superate da tempo immemorabile, avulse dalla nostra realtà; gli è, invece, tutto un mondo da scoprire, una civiltà della quale non si può disconoscerne la grandezza, la radice imprescindibile dell’europeismo, oltre che il miglior viatico pedagogico per l’apprendimento delle lingue moderne, di qualsiasi linguaggio moderno, sia esso sassone, o cirillico o ideografico.

Nella scuola media nata dalla riforma Bottai, lo studio del latino iniziava fin dalla prima classe; della scuola media, mentre il greco era la materia per eccellenza degli alunni del ginnasio- liceo; ciò non toglie che anche i giovani che s’iscrivevano agli Istituti di 2° grado erano in grado di conseguire capacità culturali notevoli nelle varie materie tecniche e specialistiche dei vari indirizzi di studio, per aver esercitato, nella frequenza del triennio di 1° grado, la razionalità, l’abitudine alla ricerca, la necessità di far collimare il pensiero antico con la modernità, ma anche per avere imparato a discernere l’evoluzione di termini fondamentali che ancora s’impongono nel nostro loquire quotidiano, ancorché variati e modificati per la dinamicità diacronica della lingua.

Se confrontiamo, ad esempio, il termine latino “Res Publica” o quello greco di “Polis”, con i corrispettivi italiani, balza evidente la differenza concettuale, laddove Res Publica e Polis erano la significazione di entità etniche chiuse, oligarchiche, riducentesi ad un uso possessorio ed esclusivo del territorio stanziale di una determinata etnia, dove non si concepivano rapporti collaborativi con altri popoli, né si riconosceva la dignità o la parificazione sociale tra le diverse classi di abitanti di una stessa città: da ciò, la pratica della schiavitù, conseguenza di continue guerre, in cui Roma eccelse.

Ci provò Atene ad esportare non eserciti ma sapienza e filosofia; e tutti sappiamo come andò a finire.

Ed allora lo studio del mondo classico, del pensiero filosofico precristiano, finalizzati ad acquisire conoscenza, scienza sviluppo intellettivo e razionale non può che giovare al progresso non solo civile, non solo economico, delle nostre generazioni, ma a saper inculcare loro il senso della vita , il culto del bello e del giusto, a non spendere il meglio del loro essere nel fracasso delle discoteche, a non vanificare la giovinezza nelle maleodoranti volute fumanti dello spinello.

Giuseppe Chiaia ( preside )