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…come segno di colonizzazione del soggetto




Approfondimenti

Se la Ragione (pedagogica) da sola non è sufficiente a dare conto della complessità umana, bisognerà chiamare in causa anche le ragioni del desiderio. I lumi dovranno rivolgersi alle ombre, e dirimere il problema, davvero fondante nella storia del pensiero, delle interrelazioni tra razionale ed irrazionale.

Il desiderio, come è noto, non è ospite gradito nelle officine dove si lavora l’uomo: scuole, conventi e caserme, così come oratori, famiglie e penitenziari, vedono aleggiare pericolosamente questo intruso che sembrerebbe riportare l’umano alla boscaglia primordiale. Si nomina, il desiderio, per prenderne le distanze, per renderlo neutro, per tracciare una netta separazione tra ciò che deve, al massimo, rientrare nel corredo dell’uomo privato e ciò che invece ha titolarità per concorrere alla formazione. In una versione più raffinata, l’aspetto desiderante è tradotto in veste psicologistica e diventa motivazione, spinta accessoria, senza perdere quell’alone di impalpabilità che ne suggerisce comunque un uso moderato e accorto.

Laddove il desiderio indossi la veste più paradigmatica, ossia quella dell’appetito sessuale, se ne può fare un uso temperato ricorrendo all’etica o alla asetticità della scienza, con sapienti e virtuosi che convergono sulla necessità di preservare fanciulli e fanciulle da esposizioni autonome e fuori misura alla pruderie del desiderio. Nelle fenditure, quando il sistema educativo rallenta il ritmo e mostra una crepa o un sospiro, l’ospite indesiderato riemerge puntuale: basta mettere piede in una scuola media durante il cambio d’ora o la pausa ricreativa per cogliere tutto un fiorire di battute pecorecce, doppi sensi e chiamate a gran voce dell’oggetto del desiderio. Oggetto, appunto, perché l’occultamento sembra favorire esattamente ciò che vuole nascondere, e fissare il desiderio ben lontano da quell’anelito verso le stelle a cui riconduce l’etimo del termine, ma più prosaicamente in parti anatomiche e pezzi di corpi. Sintomatico di un sistema che, come la fabbrica, determina unità lavorate, e non concepisce altro se non prodotti enumerabili, identificabili e dotati del relativo prezzario prima di essere collocati nelle fauci del mercato. Insomma, quando si sospende il dominio della ragione, appena si allenta un attimo la tensione del dispositivo pedagogico, ecco che entra in scena un impensato a cui tutti pensano, e il desiderio inizia ad arrossire guance e guidare piccoli gesti, pensieri minuti e, talvolta, parole grosse. È lecito ipotizzare che questo irrompere della dimensione desiderante e irrazionale nel continuum del congegno pedagogico svolga una funzione di resistenza o, più modestamente, di calmiere. Nel primo caso si tratterebbe di una componente interessante per il disegno di un’altra pedagogia, che sappia sottrarsi al dominio e al dominare; nel secondo caso resterebbe comunque un indicatore prezioso di conflitti, dinamiche e routine della situazione formativa.

La teoria pedagogica ha da tempo, con Bertolini, evidenziato il valore e la portata di questa latenza connessa al desiderio: un Eros non autoritario, ossia non volto all’assoggettamento di corpi da manipolare e abusare, “può essere inteso e perseguito come una straordinaria forza originaria dell’uomo, capace di aprirlo all’altro da sé, inteso come soggetto da rispettare, da valorizzare, e quindi da considerare come motivo di desiderio non oggettivante dell’altro, e anche come tramite per una tensione verso un diverso“. Rimane irrisolto, a nostro parere, un nodo cruciale: come considerare questa forza originaria in rapporto alla Ragione? E che ruolo può svolgere il desiderio e, in generale, ciò che chiamiamo irrazionale, dentro una Teoria Critica della formazione che voglia continuare a raffinare i Lumi senza tagliare a fette l’umano?

Il desiderio nella scuola, ossia l’elemento irragionevole dentro un sistema dotato di specifico apparato normativo e di pratiche tendenti a riportare l’imprevisto sotto il dominio del domabile, è spunto anche spassoso di una serie interminabili di aneddoti che concorrono a costituire quasi una memoria e una mitologia del genere. Giunge periodicamente, da qualche scuola superiore di un qualsivoglia luogo, la notizia di un Preside zelante che ha punito uno studente e una studentessa, sorpresi a sbaciucchiarsi in un anfratto liberato dall’occhio vigile dell’adulto. Di solito questi spazi bianchi (o rosa) dentro il luogo scolastico sono ricavati in angoli non distinti da nessuna funzione ufficiale: corridoi morti e sottoscala, retrodavanzali dimenticati o sgabuzzini colmi di pc in disuso (il nuovo che avanza!), giardinetti e porte finestre lontane dalla portata del personale ausiliario. Sono gli stessi luoghi in cui si fuma: e non vogliamo, per non eccedere in intrusività, parlare dei bagni e delle gitarelle, luoghi e momenti tipicamente sottratti alla disciplina: resta nostra opinione che il luogo migliore per lo sbaciucchio in ambito scolastico sia quel breve tratto che connette la palestra al corpo dell’istituto, un non-luogo alla Augè, in cui l’influenza di tute ginniche, canotte e sudorazioni sembra favorire la flessione della norma. Gli studenti che subiscono il rimbrotto o la punizione per le espansività in luogo scolastico (solitamente la disapprovazione colpisce più le fanciulle) sono bilanciati, su grande scala, da pratiche di segno apparentemente opposto. Infatti sembra diffondersi negli ultimi tempi il vezzo di esibire le studentesse più avvenenti, magari in occasione della giornata artistica o del saggio di fine anno, conciandole sullo stereotipo che proviene dalla mitologia (e mitomania) televisiva. Ragazze come veline appena più timorate, pin up di periferia e occhialute titolari di minigonne ondeggianti accolgono i genitori e sembrano rendere l’immagine pubblica dell’Istituto più improntata a un sano gaudio. In queste circostanze, in cui la scuola si pone volutamente, ma forse senza rifletterci abbastanza, come dependance della società dello spettacolo, il desiderio è esposto a ricalco del modello socialmente più conforme: desiderio di corpi omologati, levigati e prodotti in serie, privi del marchio sovversivo dell’autonomia e propedeutici alla successiva acquiescenza che aspetta i giovani virgulti e le leggiadre donzelle all’ingresso nel mondo della produzione-consumo.

La schizofrenia della scuola verso l’incontenibilità della dimensione desiderante si ricompone in una convergenza, non inattesa, tra fustigatori dei costumi e fautori della disinvoltura: in ogni caso occorre imbrigliare questa forza bruta e potenzialmente eversiva, darle una forma, apporvi un segno che distingua nel tempo corpi e soggetti trattati dai dispositivi dell’educazione da quelli refrattari alla norma.

Eppure, si tratta di un’operazione difficile, destinata spesso a mostrare crepe, perché la dimensione del desiderio ha l’ostinato vizio di riemergere anche dopo trattamenti intensivi di normalizzazione. Scrive Mantegazza: “Si può affermare senza essere ridicoli che un’insegnante maschio di trent’anni dopo due ore passate in una classe quarta magistrale con ventidue ragazze di diciotto anni, magari a maggio quando i corpi si spogliano, non ha subito nemmeno per un istante il fascino della fisicità delle fanciulle?

Naturalmente non si può, ma l’interrogativo ne apre altri che porterebbero a un contatto più marcato con questa dimensione che, finora, chiamiamo irrazionale. Sarebbe facile, infatti, allargare gradualmente i termini della domanda e chiedersi quale posizione assumere davanti a un maestro che di anni ne abbia non trenta, ma trentacinque o quaranta, e anziché in quarta si trovi in terza… Soccorre dall’imbarazzante esigenza di porre dei limiti di liceità a ciò che tenderebbe a non averne proprio il milieu pedagogico, chiamato a trasformare l’improponibile in progettualità educativa: “Possiamo dire allora che il maestro e la maestra amano fisicamente, del corpo del fanciullo, le tracce di non-ancora in esso presenti, gli indici di futuro che essa alberga“. Resta da sperare, ricalcando la pedagogia del risveglio cara a Benjamin, che questo ridestarsi avvenga il più tardi possibile e consensualmente o, ancora meglio, sia sublimato nell’avventura dell’apprendimento e rimandato ad altri corpi e altre situazioni.

Che il sesso appartenga a quel corredo di aspetti che la scuola relega sottobanco non significa ovviamente che non si avvertano gli effetti di una presenza così ricca di implicazioni simboliche. Esiste tutto un campionario in cui fa capolino l’inatteso ospite, ma ciò che rimane assolutamente innominato è il desiderio. Come dire che si sente il bisogno di reificare ciò che nasce dalla mancanza, e far transitare l’anelito per l’assenza attraverso la sottile cartilagine di un simulacro. In fondo, siamo davanti a una serie di problemi che rimandano direttamente al nucleo più segreto del soggetto, ma comportano anche un vasto catalogo di pratiche sociali. Siamo alla confluenza tra pubblico e privato, laddove la nostra ipotesi di una pedagogia piovosa si scopre anche umidiccia e percorsa da tremori. Gli psicologi sottolineano l’importanza formativa dell’evoluzione affettiva e sessuale, categoria dietro cui si intravede l’impalpabile coacervo della dimensione desiderante, e parlano a proposito di compiti di sviluppo: si tratta dell’unica tipologia di compiti che la scuola non solo evita di assegnare, ma attende fiduciosa che siano svolti al più tardi e magari lontano dalle proprie sedi.

Ciononostante gli istituti scolastici sono teatro di inevitabili incursioni del fondo animale nell’umano. Basta una rapida carrellata di momenti topici per rendersi conto dell’irriducibilità di questo irrompere dell’immotivato entro i dispositivi che pure hanno una attenta e collaudata pratica di controllo.

  • Le gite scolastiche, ossia i benemeriti viaggi di istruzione, sono al top nella classifica dello scompiglio connesso al desiderio. Si fanno attendere per buona parte dell’anno, e coinvolgono gli studenti in attente progettazioni a cui sono dedicate le assemblee di classe (ormai, persa qualsiasi tensione verso il cambiamento, non si discute di altro che di loisir e divertissement). Un gran numero di studenti attende con fiducia la partenza primaverile, confermando che in tema di desiderio svolgono un ruolo centrale la mancanza e la prefigurazione: la prospettiva è quella di una parentesi all’insegna del sesso a go-gò, lontano dagli occhi e dagli obblighi della famiglia. Gran parte degli studenti torna a casa con le aspettative mortificate e, spesso, annegate nell’alcool; tuttavia fa parte dell’aneddotica scolastica l’epopea di fanciulle e giovinotti che hanno fatto sfracelli in amene località di turismo scolastico. Sarebbe da indagare, in questa prospettiva, la memoria dei docenti accompagnatori, spesso custodi di segreti irriferibili e alle volte ignari di ciò che si svolge poco lontano dai loro occhi.
  • Da queste sperimentazioni del desiderio incarnato possono nascere parvenze di relazioni affettive. Conosco personalmente uno studente di Bari che si dichiara fidanzato con una lentigginosa canadese conosciuta tra i marmi degli Uffizi, e intrattiene da mesi una voluminosa relazione via sms. Episodi come questo segnalano ancora una volta il ruolo giocato dalla Mancanza: madre del desiderio e approdo di ogni anelito, rimanda a un mondo popolato di ragioni divergenti e in conflitto rispetto alla Ragione, come un imbuto primigenio sul cui bordo si è costretti a camminare, procedendo con un occhio al dirupo e l’altro alla via.
  • Prosperano nelle scuole un lessico e una semantica incentrati sul desiderio oggettivato. I muri e i banchi degli edifici scolastici, quando non siano prontamente ripuliti, recano testimonianza documentaria di un vasto fiorire di fraseggi e slogan all’insegna del sesso, citato in certe sue componenti di evidenza e adoperato con notevole competenza linguistica. Gli autori di questo frasario sono immersi in una difficile sfida dell’apprendimento: coniugare l’innominabile con gli influssi provenienti dalla cultura di massa, dai canoni mediatici, dal patrimonio locale e dialettale, dalla filmografia di serie B e dalle più avanzate tecniche di comunicazione e management. È possibile costruire una griglia in grado di rendere conto, per tipologie, di questa eccentricità del linguaggio studentesco:

    1. L’attributo sessuale adoperato come insulto. Sineddoche tesa a rendere pubblici tratti di coetanei e, soprattutto, docenti, gratificati dalla pubblica ostensione di private virtù e spesso rappresentati figurativamente da simboli di facile lettura. Qui la parte scabrosa diviene arma, a ricalco dell’antichissima vicinanza tra virilità e propensione bellica: corpo che offende, viola e sottomette, in una incessante dialettica servo-padrone che, se resa oggetto di didattica, renderebbe più chiari certi temi hegeliani;
    2. L’esibizione pubblica di presunti vigori e di notevoli dotazioni accessorie. Alcuni ci tengono a far sapere a colleghi e personale scolastico di essere stati beneficiati da madre natura, e si dilungano in entusiastici proclami di funzionalità. Lo psicologo scolastico direbbe a proposito che queste temerarie dichiarazioni hanno una funzione di supporto identitario, su cui però incombe la delusione alla prima, impegnativa verifica;
    3. Il sesso, inteso con equivocato epicureismo, come scrigno della vita godereccia da contrapporre alla noiosa routine scolastica. Si rimarca qui una divaricazione, non solo anatomica, tra il mondo dei piaceri e quelli dell’obbligo, e si sostiene con veemenza che, a fallimento di tutti gli sforzi della struttura scolastica, il primo mondo ne uscirà indomito e corroborato. Si tratta di una tipologia dall’evidente sapore rivendicativo, che non riesce in questi anni difficili a farsi manifesto politico né prassi di elaborazione culturale (magari alla maniera dadaista o in guisa dell’esistenzialismo più bohemienne);
    4. Gli organi riproduttivi come passepartout linguistico e sintattico: elemento di connessione tra le parti di una frase, intercalare automatico e onnipresente che vuole insaporire e rendere al tatto la proclamazione di un pensiero o di un’appartenenza. Confluiscono qui le numerose attestazioni del tifo, nella doppia veste di sostenitori della propria compagine e di detrattori dell’altrui. Il canovaccio tipico richiede la promessa di minacciose o attese peripezie carnali, elette ad archetipo di produttività e quindi consone, almeno su questo versante, all’impianto complessivo della struttura sociale;
    5. Di rilievo, proprio per la loro portata come indicatori socioculturali, le varianti entro cui si muove il frasario pecoreccio. Si contemplano, infatti, le cortesie verso figure familiari dell’interlocutore, specie le mamme devote, alternate a focalizzazioni fecali, giudizi di privata moralità e chiari segnali di feticismo. Abbondano anche i meccanismi, già freudiani, del rivolgimento nel contrario, dell’accostamento di opposti e della esagerazione, tutti volti a coniare un mormorio affine a quello pubblicitario, ma in questo caso intento a reclamizzare una produzione di cui non si rende conto nelle associazioni confindustriali.

Sul piano più complessivo, la portata dell’argomento impone di isolare ancora alcuni dettagli in grado di rendere esplicite le connessioni tra accadere pedagogico e dimensione del desiderio.

Che alcuni studenti si esercitino, sui mari di scuola oltre che nella comunicazione interpersonale, a tradurre in linguaggio questo oscuro sentire del corpo è testimonianza di come spesso le vie dell’apprendimento possano essere davvero eccentriche. Si guardi, per esempio, agli studi di retorica, cancellati dalla scuola moderna ma architrave di quella classica, e si noti che il frasario osceno denota un tentativo, ingenuo ma sostenuto, di recuperare all’ars oratoria tutta una serie di modelli: dall’esortazione, spesso rivolta sotto forma di invito a intraprendere un viaggio verso mete ombrose, al paradosso, teso a congiungere l’anteriore col posteriore, fino alla dissertatio, spesa a convincere su base argomentativa e particolareggiata della consistenza di pratiche, virtù e dotazioni.

Del resto la scrittura è uno dei campi d’elezione dei contesti scolastici, e la stessa figura dell’insegnante indica colui che deve lasciare un segno: “questa idea di segno sul corpo è strettamente affratellata all’idea del segno che la verga lasciava sulla schiena dell’allievo. […] Gli insegnanti condividono ancora e sempre il nomignolo con il quale erano designati in Germania: suonatori del tamburo del sedere“. Si innesta così, in questi anni connotati dal fenomeno che i sociologi chiamano analfabetismo di ritorno, un curioso circolo formativo: la scuola inscrive sul corpo degli allevi, e questi a loro volta scribacchiano su banchi, sedie e muri, ossia sul corpo materiale della scuola, così da ripetere, anche con una certa corrispondenza, il trattamento ricevuto. Se ne potrebbero ricavare, e lanciamo un’idea utile, opportune attività integrative ed extracurricolari, purché si risolva il problema posto dal rendere lecito e previsto ciò che è percepito come trasgressione da compiere col gusto immediato dello sberleffo.

È compito della scuola disciplinare la scrittura, attraverso una serie di regole che eccedono gli aspetti grafico-linguistici. Un interdetto sostanziale verte sul contenuto degli scritti adolescenziali, irreggimentati con scrupolo affinché non infrangano tre limiti: l’osceno, il blasfemo e il sovversivo.

L’esistenza di tali regole è confermata, d’altra parte, dalla loro violazione in circostanze eccezionali: in regime di totale proibizione, infatti, si è molto spesso fatto ricorso a impropri spazi di scrittura, a improprie materie scrittorie, a impropri strumenti e inchiostri, e cosi via; significativi appaiono a questo proposito i casi di alcune scritture nate nei manicomi, o nei campi di concentramento durante l’ultimo conflitto mondiale, dal Diario di Gusen pubblicato da Aldo Carpi e rilegato con stracci e cartone nella sua originaria versione manoscritta, alla traduzione dell’Odissea eseguita in Siberia fra il 1945 ed il 1948 da un prigioniero tedesco su corteccia di betulla“.

Lo spazio di scrittura e la liceità del desiderio appartengono a soggetti diversi: non allo studente, che è chiamato a esercitare il primo e inquadrare il secondo dentro rituali e apparati normativi custoditi dagli adulti, a ricalco di quanto avviene, in grande stile, fuori dal contesto scolastico. Gli spazi urbani, infatti, sono spazi di scrittura riservati al potere politico ed economico. Una selva di avvisi e segnali, messaggi ed esposizioni rimarcano il luogo pubblico come terreno di un addestramento di massa, in cui la proprietà dei mezzi di comunicazione si fa sapere esclusivo. Si tratta di un sapere legale ed ufficiale, che sotto la forma dell’invito pubblicitario, della norma civica o della manifestazione del potere politico chiama a sé il diritto di scrivere e la padronanza degli spazi idonei, in modo da lasciare al cittadino fruitore il solo, prevedibile ruolo di destinatario di trattamenti di massa.

Non è pertanto da escludere, a voler sottolineare il positivo cercandolo col lumicino, che imbrattare i muri, dell’istituto scolastico o dell’edificio urbano, sia anche un tentativo maldestro di riappropriazione. Un segnale, quantomeno, di insufficiente identificazione dentro le procedure consentite. Vi sarebbe, in questa ipotesi, un barlume di potenzialità formativa anche nel gesto debosciato, ma non sufficiente a ricondurlo nel novero dei comportamenti resistenziali in quanto sia a livello di contenuto che per le modalità, anonime e improduttive, mancano le componenti indispensabili della rivendicazione e della progettualità.

Pare più corretto interpretare la grafomania murale come impulso a demarcare, possedere, lasciare il segno: comportamenti in linea con quella bramosia per la griffe che contraddistingue la crisi identitaria del soggetto odierno. Esserci, farsi notare pur rimanendo dietro l’irresponsabilità della massa, colpire con lo sberleffo o semplicemente comunicare in gergo con la propria tribù: moventi diversi ma col tratto comune della unidirezionalità, che disegna relazioni a una voce, che non attendono la risposta dell’altro e quindi non sono in grado di innescare catene di significati né di rapporti.

Il giovane che esibisce graficamente la propria esuberanza sessuale sembra praticare una sorta di rito propiziatorio, un segnale muto di presenza a cui sfugge esattamente ciò che sembra esplicito: la dimensione del desiderio. Questo si riduce alla riproposizione di verbi assai in linea con i modelli culturali in voga: prendere, rompere, ficcare, sottrarre (furbescamente), danneggiare. Tutto un rosario di violazioni dell’altro e di compiacimenti narcisistici che disegna la brutta fine dell’io: questa invenzione prodigiosa che la borghesia ha saputo coltivare negli ultimi tre secoli e che segnala da tempo, sotto gli automatismi della conformità di massa, i guizzi terminali del pesce preso nella rete.

Ma insieme al soggetto borghese se ne va in malora anche il suo gemello proletario, e le scritte inneggianti alla rivoluzione cubana sono sostituite ormai da più bassi inviti a comparire. È capitato a chi scrive di fare lezione in aule dotate di una vezzosa suggestione: uno spropositato organo maschile, disegnato sulla parete con qualche malizia, in modo che la sagoma del docente seduto alla sua prestigiosa cattedra rientri esattamente nella sommità del grafo, così da generare una qualche attribuzione identitaria, ed è capitato pure, anni addietro, di imbattersi in altre aule, istoriate col repertorio creativo e romanticheggiante dei cultori di Che Guevara: si garantisce una netta differenza di clima. Nel secondo caso di ha la percezione di essere dentro la storia; nel secondo ci si ritrova alle sue ritirate.

Ma il pedagogista in veste critica non può sottrarsi a una considerazione di ordine sociologico ma dalla forte ricaduta formativa: l’osceno, quando trova un palcoscenico e non è ricacciato dietro le quinte, mostra delle insospettate capacità di resistenza sia al tempo che all’occultamento. Nel campionario osceno convergono le memorie di più generazioni: non sorprenda trovare il pecoreccio in salsa scolastica di fine anni ’70, cui campioni indiscussi sono i Banfi e i Vitali, accanto all’antigiudaismo in camicia nera e alle atmosfere borgatare e popolaresche del cinema neorealista, alle sperimentazioni delle neoavanguardie (citatissimo Manzoni, ma Piero, con la sua cacca d’artista), ai languori crepuscolari e a certa revanche di periferia, alla Pasolini, per un mondo sulla soglia della corruzione. Non mancano l’omofobia neocon e talune esuberanze da califfato (ecco, finalmente: l’intercultura!), il celodurismo padano e il flatus vocis da sacrestia, l’ardire dannunziano e la rima gaglioffa alla Trilussa, l’avanspettacolo alla Petrolini e il forbito parlare delle televendite. Il tutto condito con gli influssi del cyborg, i nomadismi del web e l’intero catalogo dell’industria pornografica accessibile in via multimediale. Modernissimo e datato si toccano, anche loro, a testimoniare che la Bildung formativa deve fronteggiare un enorme e indistinto frullato, una brodaglia cangiante a cui, pure, bisognerà dare un senso e una direzione. La sovrapposizione delle memorie, di cui reca traccia il linguaggio, indica che siamo di fronte a ondate di colonizzazione che, saldandosi una ad una, concorrono a delineare anche un insieme di significati. Memorie che parlano attraverso gli automatismi del gergo, a testimoniare che la categoria dell’effimero non è affatto tale, ma nasconde pervicaci capacità di radicarsi in fenomeni di lunga durata.

Altro focus tematico: qui sembra compiersi un modello paradigmatico del moderno, cui hanno dedicato pagine dense Georg Simmel e Walter Benjamin. La fruizione tipica del desiderio, così come è ridotta nella società delle merci, disegna un ibrido tra figure rappresentative della crisi del soggetto. Il collezionista, l’avventuriero e il feticista convergono pezzo a pezzo fino a comporre un mostro contemporaneo: il mitomane.

La reiterazione di segni che evocano l’osceno, cioè quell’esibizione sciapita e automatica di attributi e pratiche sessuali che è ossatura sia del turpiloquio che della grafomania murale, costituisce una forma di collezionismo che si nutre di memorie morte e mai risvegliate. Il campionario gergale allinea, come su un freddo marmo, variabilità domate e immaginazioni prêt à porter, segno dell’assemblarsi di un articolo forgiato da pedagogie che attraversano la scuola da parte a parte. Occultato il desiderio in nome del suo simulacro, il giovane entra nell’affollato club dei collezionisti di esperienze mute. È indotto a ripetere il verso, perdendo progressivamente la capacità di connettere parole e significati: l’inafferrabilità del desiderio si fa reliquiario, esposizione normalizzata di posizioni, ruoli, varianti. È una forma di collezionismo in cui i reperti si “allineano irrigiditi, svelando la loro natura irrimediabilmente sostitutiva e illusoriamente consolatoria. Sono i segni di un’assenza che non ha redenzione“, a cui rimangono il grigio della malinconia e la frenesia della coazione a ripetere.

È possibile dire, infatti, che le scritte di cui ci stiamo occupando, come i racconti tradizionali che correvano di bocca in bocca, conservano qualcosa di anonimo, e quindi di persistente come tutto ciò che è prodotto dal grembo di una società. Qualcosa che eccede l’intenzionalità del singolo studente scherzoso, ne travalica le contingenze fino a indicare una pedagogia di lunga durata che si occupa di smistare e governare desideri, corpi e pratiche.

Dispositivo centrale di questo ammaestramento di massa è la forzatura del desiderio sotto il regno delle merci. Forzatura che si ottiene sollevando il velo, sospingendo l’osceno non al riparo, ma davanti allo sguardo reiterato, infine concatenando in una pratica idolatra la ripetizione dello stimolo, che così perde l’originaria connessione con la Mancanza e si fa voyeurismo. La liturgia dell’osceno depurato dal mistero squarcia quella sottile nebbia che secondo Jacques Lacan deve interporsi fra noi e l’oggetto desiderato; il sipario avvolge le cose, in una calcomania feticista che produce sguardi vitrei e restituisce il volto del soggetto desiderante come riflesso dell’oggetto desiderato. È lo stesso meccanismo che Benjamin ha descritto a proposito delle vetrine di Parigi, dove il cittadino, immerso nel sogno collettivo del sempre nuovo, può solo specchiarsi e cogliere il proprio volto frammisto tra le merci.

La questione, come avviene quando si volge l’attenzione ai riti della vita quotidiana, è capace di rivelare ben più di quanto ci si aspetterebbe a un primo sguardo. Sono in gioco i processi di formazione: non suoni strano ricondurre la questione del turpiloquio, specie in contesto scolastico, a quella ben più ampia dell’episteme che si produce a governare piccoli automatismi del quotidiano. Non è in questione semplicemente l’eleganza del parlare, né la congruità del gergo rispetto ai percorsi formativi: il necessario caposaldo della pedagogia, cioè l’esistenza di un soggetto da educare, potenzialmente capace di sottrarsi attraverso il pensiero critico al predominio degli stampi sociali, è messo in forse dalla dilagante supremazia proprio di quelle micro-colonizzazioni che, goccia a goccia, invadono relazioni, discorsi e rappresentazioni fin nei recessi più intimi.

La stessa nozione di turpiloquio si rivela carica di ambiguità. Il linguaggio becero, deprivato di qualsiasi aggancio con le dimensioni del turpe e dell’impuro, diviene espropriazione di questi coni d’ombra dell’umano. Eppure, nella formazione di ciascuno è importante anche il confronto con gli insiemi e le traiettorie dell’abietto. Ogni società ne rimarca i confini e costituisce rituali e appartenenze, riti di passaggio e apparati normativi attorno alla separazione tra ciò che è presentabile e ciò che invece va occultato nei recessi delle miserie dell’uomo privato o addirittura espulso dalla coscienza. Esistono, quindi, frontiere da non varcare impunemente, che delimitano non solo modalità di relazione, regole e liceità del linguaggio, ma soprattutto tramandano da una generazione all’altra un patrimonio condiviso, ossia un modello pedagogico teso a formare l’uomo in conformità con una scala di valori, pratiche e credenze. Queste frontiere variano da una società all’altra, e appaiono senz’altro meno rigide nel mondo contemporaneo rispetto a qualsiasi altro contesto precedente. Il moderno, caratterizzato dalla progressiva moltiplicazione dei segnali, si scopre plurale anche nell’indicare i limiti della decenza: ciò nondimeno l’indebolimento della sanzione sociale e la perdita dell’aura attorno ai simboli testimoniano che è in corso un’invasione tendente a rendere piatta anche la dimensione del turpe e, per converso, quella della purezza.

Segno di una società non più vergine, che ha perso la propria virtù nel corso degli immani massacri che l’hanno eretta, oppure indice di una polifonica apertura alla libera gestione di regole e divieti? Società più libera, quella in cui ciascuno bestemmia a iosa, oppure meccanismo ferreo di spoliazione e assoggettamento?

L’antropologa Mary Douglas, che molto si è occupata delle demarcazioni tra puro ed impuro, sostiene che questi confini, socialmente condivisi da un noi che si separa così da un loro, diventano labili nel momento in cui, ed è il caso del contemporaneo, la linea del fronte non è più visibile perché tutta interna al soggetto stesso. Le regole di purezza costituiscono anche un sistema cognitivo: per mezzo dei simboli rituali vengono periodicamente ricreate le categorie attraverso le quali le persone percepiscono la realtà, nella fattispecie l’assetto gerarchico fondato sul permanete antagonismo tra puro e impuro, tra natura e cultura, tra sacro e profano. Secondo Mary Douglas, tali regole sono “una forma di classificazione attraverso cui si rappresenta l’ordine sociale, dal momento che le idee di separazione, purificazione, demarcazione e punizione delle trasgressioni svolgono come funzione principale quella di sistematizzare una esperienza di per sé disordinata“.

A differenza delle società tradizionali, dove la solidità dei riti e del patrimonio simbolico protegge assai bene gli orifizi del corpo dalla contaminazione, nel nostro contesto il turpiloquio, eletto a liturgia del linguaggio, svolge la funzione doppia di esorcizzare il pericolo e di evocare continuamente la difesa dei confini. È il privato cittadino, attraverso la comunicazione interpersonale, ad incaricarsi di questo compito, e questo spiega la tendenza degli adolescenti, che già per condizione esistenziale sono impegnati a vigilare sulla propria identità, a farsi paladini di un assetto normativo e di un ordine sociale.

Scricchiola uno dei lati del quadrilatero antropologico di Foucault:l’interdetto. La dissoluzione dell’uomo- coscienza è annunciata dal dominio di un linguaggio a cui sono annichilite le dimensioni della memoria. Parole che non hanno più un legame con i vissuti e con le cornici di senso che le hanno cullate; la cultura dell’imperativo sessuale elaborata nell’età moderna che affonda sotto un desiderio artificiale e subordinato a pratiche di potere. “La volontà di sapere sul sesso, che di fatto funziona come mezzo per introdurre effetti di potere nei contatti di piacere fra i corpi, in tempi recenti si è concretizzato non solo in una monarchia del sesso, ma anche in una fittizia promessa di liberazione umana tramite il sesso medesimo“.

Da questa angolazione, è evidente che il linguaggio becero nelle scuole non può ridursi ad affare di stile o bon ton, ma segnala il dato pedagogico di fette di popolazione giovanile che sono risucchiate a presidiare una società ingiusta. Non è un caso che il turpiloquio si accompagni spessissimo a un immaginario popolato da tutte le perle del pregiudizio: maschilismo, razzismo, ostilità verso i marginali sono il brodo regolare delle conversazioni all’insegna della parola volta ad offendere, evitare il contagio, separare.

Si evidenzia qui la portata di un problema che potrebbe apparire invece secondaria: la spoliazione del desiderio è funzionale alla trasmissione (pedagogica) di un sapere di marca reazionaria, asservito ai dettami del potere dominante e volto a conservarne procedure ed effetti. L’adolescente, invaso anche dentro la scuola da un processo formativo in cui sono normalizzate sia le dimensioni collettive che quelle autopoietiche del comunicare, diventa epigono, ripetitore di echi e di segnali di obbedienza.

Adorno ha espresso questo concetto con la metafora della retrocessione al punto: la ripetizione ossessiva di segnali di risposta appresi e ormai consegnati a un automatismo che ne sottolinea l’impersonalità. L’esibizione narcisistica, abbondante nel turpiloquio, non segnala tanto la vitalità del soggetto ma la sua liquidazione. Anche nei luoghi della formazione, come la scuola, la ripetizione della risposta tende a disgiungersi dalla comparsa del segnale per caratterizzarsi come automatismo. Ne deriva la ben nota gratuità dell’espressione turpe: i riferimenti sessuali coprono con indifferenza vissuti positivi o negativi, si adattano a qualsiasi discorso perché ne sono fondamentalmente svincolati. Anche nelle aule universitarie, purtroppo, basta ascoltare le prime parole di qualche studentessa, magari appena uscita dall’aula d’esame, per accorgersi che indica con lo stesso termine la prova facile e quella difficile, appioppa al docente le medesime sembianze falliche a prescindere da qualsiasi valutazione e infine dichiara, dopo lo sforzo, di volersi dedicare ad attività che, prese alla lettera, preoccuperebbero molto mamme e tutori della morale pubblica.

È adesso possibile definire un elenco sintetico delle dinamiche in gioco:

  • La colonizzazione del soggetto è favorita dalla banalizzazione del turpe;
  • Questa banalizzazione passa attraverso due movimenti:
      • La perdita di significato delle parole
      • Il restringimento della dimensione desiderante

  • Abolito il corpo ne resta il simulacro, feticcio disabitato da immettere nel mondo delle merci:
  • La dicibilità del mondo, strumento formativo fondamentale, resta balbettio, farfuglio.

Un soggetto scisso, ignaro campo di battaglia di eserciti addestrati altrove. Ossia, costruzione seriale di epigoni: ripetitori di echi e segnali, che hanno rinunciato a coltivare una propria soggettività, con le luci e le zone d’ombra che le sono proprie, e si adagiano acriticamente sui dettami delle maggioranze chiassose e posticciamente gaudenti.

Ovviamente la questione del turpiloquio e la relativa espropriazione del desiderio non riguardano solo la scuola. Anzi, appare plausibile che negli spazi scolastici si replichi quello che avviene su grande scala nella dimensione urbana, dove pure la cartellonistica pubblicitaria insegue l’associazione tra desiderio e merci attraverso un modello propedeutico al feticismo di massa. Così, i soggetti che si deliziano attraverso le scritte becere sui muri sono allo stesso tempo una minoranza ma assai qualificata, perché esprimono il canone sotteso ai più e prestano la propria opera con il medesimo disinteresse che è delle avanguardie di una volta. Maitre à penser, come si ricava da questa segnalazione di Michele Serra: “In una cittadina ligure la notte scorsa quattro teen-agers pirla (bravi ragazzi, dicono le cronache, ma molto pirla, e nel pieno dell’età più pirla della vita) hanno tracciato qualche svastica sui (poveri) muri della locale moschea. Già la mattina dopo confessavano in lacrime alla Digos. Fossi io a ricevere il durissimo incarico di riportarli alla creanza, direi loro questo, tanto per cominciare: perfino per essere razzisti, benedetti ragazzi, bisogna impegnarsi un pochetto. […] Le svastiche, a voler essere pignoli, le tracciano sulle sinagoghe, non sulle moschee. Non so se ve l’hanno detto, ma i nazisti di mezzo mondo ce l’hanno con gli ebrei, non con i musulmani“.

Prof. Giorgio Amato