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Il 1° luglio, in tutto il Canada si celebrerà l’anniversario della nascita della Confederazione canadese. Qualche giorno prima vi saràa la festa nazionale del Québec. Per noi, immigrati italiani (un tempo chiamati neo-quebecchesi e neo-canadesi) immersi in varia misura nel mitico processo d’integrazione e d’assimilazione, questa sarà  un’occasione per meditare sulla nostra identità. Un giornalista del quotidiano La Presse si è chiesto: “Un Québécois peut-il se sentir Canadien?” E ha concluso ottimisticamente con un sì: un quebecchese può benissimo sentirsi canadese, giacché il sentimento di identità è qualcosa di relativo. Infatti – ha spiegato – un abitante del Québec si considererà nordamericano rispetto agli abitanti degli altri continenti, mentre un abitante della metropoli si sentirà Montréalais rispetto a un quebecchese che abiti a Rivière-du-Loup. Adottando la stessa logica, noi immigrati di origine italiana potremmo sentirci nello stesso tempo italiani, quebecchesi e canadesi. Anzi, visto che ognuno di noi proviene da una regione d’Italia, potremmo aggiungere a questa identità plurima anche quella regionale. 

Questa pluralità di “appartenenze”, se applicata agli immigrati, lascia un po’ scettici. Infatti, lealtà e riconoscenza verso il paese di adozione sono una cosa, mentre le intime e complesse radici costituenti l’essenza del nostro essere più profondo sono un’altra. 

Emigrando, la percezione che noi abbiamo della nostra maniera d’essere come “italiani” – la nostra autopercezione identitaria, insomma – acquista un forte rilievo. Prima di emigrare, il termine “identità” designava per noi una realtà alquanto teorica, esterna, astratta. Con il viaggio oltreoceano essa ha invece acquistato un nuovo senso. 

L’emigrato sa fin troppo bene ciò ch’egli è. E lo sa perché l’emigrare ha creato in lui un’acuta percezione delle identità collettive, ossia delle differenze che intercorrono tra gli esseri umani secondo l’appartenenza etnica e il passato culturale e storico di gruppo di ognuno. Non sono l’incertezza, la debolezza, la mancanza d’identità ad essere le cause del disagio degli emigrati-immigrati (l’emigrato, infatti, e sempre anche un immigrato, e viceversa; causa questa di un’inevitabile “duplicita” o “ambivalenza”), ma la forte coscienza delle differenze esistenti tra i vari gruppi etnoculturali e quindi tra lui e gli individui con cui egli si confronta; con un conseguente senso di solitudine per l’immigrato, essere minoritario rispetto al gruppo dominante.  

È innegabile che l’italiano, vivendo all’estero, si trasformi diventando sotto certi aspetti un essere alquanto ibrido. Un essere ibrido e minoritario, pienamente cosciente però  delle differenze che esistono tra lui e “gli altri”. In questo essere trapiantato vi è quindi un’eccedenza e non una carenza d’“identita”. Noi, italiani all’estero, viviamo in maniera molto forte la nostra identità individuale e collettiva, anche perché essa ci viene spesso e volentieri rinfacciata. 

Noi, qui in Québec, abbiamo come punti di riferimento quattro realtà collettive distinte: la nostra collettività, l’Italia, la società francofona, il “Canada inglese”. Torno quindi a ripetere: la nostra identità non è incerta, ma è sempre presente al nostro essere anche perché essa ci viene spesso rinfacciata. 

Per un immigrato italiano non è sempre facile, in Québec, essere considerato per quello che la propria persona vale, poiché egli viene percepito dai quebecchesi come rappresentante del gruppo e non tanto come individuo. “Vous les Italiens”: i quebecchesi tendono ad usare il plurale anche quando si rivolgono ad uno solo di noi. 

L’appartenenza al gruppo è una forza misteriosa e potente, capace di far esprimere all’individuo gli atti più eroici e disinteressati (e talvolta anche gesti efferati). Tramite questa identificazione, il singolo supera la propria limitatezza, sublima gli istinti di aggressione, e rende legittimo per sé stesso, quando egli appartiene alla maggioranza, un certo autocompiacimento dalle forme anche narcisistiche. Inoltre – e questo conta più di tutto – il gruppo nazionale offre ai suoi membri l’illusione della continuità perenne cioè dell’eternità. 

Ai Québécois, ex emigrati francesi, il destino ha riservato il conforto inebriante del sogno collettivo. A noi immigrati più recenti provenienti da altri mondi, resta la scelta individuale, sempre difficile, e il sacrificio solitario, quasi eroico, in nome di ideali che si chiamano dignità e famiglia. 

Lo scotto più alto che abbiamo dovuto pagare all’avventura dell’emigrazione forse è proprio questo appartenere ad una comunità che è transitoria ed evanescente, e sulla quale gli altri, “i più forti”, proiettano “ad libitum” certi loro comodi complessi di superiorità. Nei nostri discendenti, certamente, vi saranno altri processi psicologici, altri sforzi di adattamento. Ma noi lasciamo ai nostri figli un nome che suona italiano.  E basta il nome per suscitare negli altri idee consacrate e pregiudizi… 

L’immigrato avverte il carattere precario del gruppo etnico di cui fa parte. Infatti, in un paese d’immigrazione ogni comunità etnica che viva all’interno di una comunità più ampia, dominante, è destinata col tempo a scomparire. Di ciò hanno un’esperienza un po’ angosciosa quei genitori che vedono che le caratteristiche italiane, nei loro figli, sono molto deboli o quasi del tutto sparite. Molti figli, infatti, non conoscono neppure la lingua materna dei genitori. Ma anche per i figli degli immigrati, il “passaggio” ad un’altra cultura e ad un’altra identità non si compie in una sola generazione. Ora questa consapevolezza di avere un’identità provvisoria può dare a certuni un senso di alienazione. 

Questa nostra impossibilità di appartenere ad una comunità vitale, il cui destino trascenda la nostra limitata esperienza mortale, determina in noi immigrati una serie di reazioni di difesa. L’immigrato, di conseguenza, erige la propria famiglia a “patria perenne”, alla quale fornisce un alto tributo di sacrifici. E la casa diventa una sorta di territorio nazionale. È questa la nostra risposta istintiva al bisogno d’identità che proviamo. 

La comunità degli italiani in Canada più che una realtà, cioè un tutto organico, è una finzione. Essa è spezzata tra le varie province. Inoltre, è frazionata in mille e una associazioni regionali (del paesello o della regione italiana di origine), mentre è sprovvista di canali di comunicazione e di organi direttivi centrali. Inoltre, non potendo più ricevere la linfa della cultura italiana, e sprovvista com’è di territorio, è fatalmente destinata a scomparire nel mare magnum della realtà nordamericana. La comunità italiana si rivela perciò incapace di fornire all’individuo quella perennità ideale cui egli ambisce. 

Questa appartenenza ad una comunità transitoria e questo senso particolare di precarietà – si emigra per integrarsi, per farsi assimilare e per scomparire – fanno sì che gli immigrati italiani, anche a causa di una certa loro filosofia materialistica, siano incapaci di capire il prepotente bisogno di identità nazionale provato dai Québécois. Per noi, il sentimento patriottico dei quebecchesi è un fatto alquanto astruso; mentre alla base delle nostre scelte politiche – Québec o Canada – vi è quasi sempre un ragionamento utilitario. Ma l’identità è qualche cosa di fondamentalmente altro che un semplice calcolo d’interessi. E la comunità “nazionale” presenta, sì, anche un aspetto utilitario e pratico, ma è soprattutto un fatto idealistico con qualche elemento anche mistico. 

D’altro canto, noi pur se apparteniamo a una realtà etnica transitoria subiamo l’immagine, spesso caricaturale, che spesso gli altri hanno di noi. Ci troviamo quindi imprigionati nella camicia di forza di una comunità immaginaria, fatta di elementi di un folclore deteriore. Da qui il dramma di molti immigrati che, nonostante la buona volontà di integrarsi, vengono inchiodati dai pregiudizi e dai clichés a ruoli prestabiliti, come farfalle di collezione infilzate dallo spillo. 

Per un immigrato italiano è difficile, in Québec, essere considerato per quello che vale, poiché egli viene percepito dai quebecchesi come il rappresentante del gruppo e non come un individuo. “Vous les Italiens”. Lo ripeto: i quebecchesi tendono ad usare il plurale anche quando si rivolgono ad uno solo di noi. 

Lo scotto più alto che abbiamo dovuto pagare all’avventura dell’emigrazione forse è proprio questo appartenere ad una comunità che è transitoria ed evanescente, e sulla quale gli altri, “i più forti”, proiettano “ad libitum” certi loro comodi complessi di superiorità.  

L’appartenenza al gruppo è una forza misteriosa e potente, capace di far esprimere all’individuo gli atti più eroici e disinteressati (e talvolta anche gesti efferati). Tramite questa identificazione l’individuo supera la propria limitatezza, sublima gli istinti di aggressione, e renda legittima la fruizione di un certo autocompiacimento dalle forme anche narcisistiche. Inoltre – e questo conta più di tutto – il gruppo nazionale offre ai suoi membri l’illusione della continuità perenne, cioè dell’immortalità. 

Ai Québécois, ex emigranti francesi, il destino ha riservato il conforto inebriante del sogno collettivo. A noi immigrati più recenti, meno fortunati dei Québécois, resta la scelta individuale, sempre difficile, e il sacrificio solitario, quasi eroico, in nome di ideali che si chiamano dignità e famiglia. 

Ma la maniera di vivere di noi italiani all’estero, nel passato avversata e dileggiata dagli “autoctoni”, sta subendo una rivalutazione così trionfale che si stenta a credere che le cose siano potute avvenire tanto in fretta. L’abitudine italiana di coltivare l’orticello è stata nel passato pesantemente ridicolizzata, e giudicata persino oscena da franco e anglo-canadesi. Costoro, infatti, hanno sempre adorato non il vitello d’oro, ma la tenera erba dei praticelli che piace tanto ai vitelli. Ed ecco oggi invece venire in auge, grazie all’ecologia, verdure ed ortaggi fatti crescere nell’orticello. Altro fatto rimarchevole: molti bevitori di birra si sono convertiti al vino e, fatto ancora più straordinario, ora lo vogliono fare da sé… proprio come gli italiani di qui. 

Gli esperti – questa volta quelli veri – hanno accertato che certe espansioni che in Nord America sono assolutamente tabù fanno invece bene all’equilibrio mentale. Qui, nessun amico parlandovi vi stringerà il braccio o vi manifesterà fisicamente, con spontaneità, certe emozioni come avviene nei paesi latini e soprattutto da noi in Italia. Qui, non solo non ci si sfiora ma si mantiene una distanza di sicurezza tra i corpi. E prima che queste distanze si accorcino, secondo il modello italiano, ci vorrà molto tempo [Anni dopo il coronavirus presenterà il nostro scarso distanziamento corporeo come un pericolo]. 

Che noi non siamo usciti dallo stesso stampo culturale dei nord-americani è evidente anche agli occhi di un profano. Osservate le persone che chiacchierano in un party: la distanza tra gli interlocutori è superiore a quella che esiste nei paesi di civiltà latina, dove a nessuno, sfiorandovi, verrà mai in mente di pronunciare un terrorizzato “excuse me!”. Anche quando ci si trova dietro a qualcuno nei corridori o nelle scale mobili della metropolitana è bene rispettare una certa distanza, altrimenti si rischia di provocare nella persona davanti a noi un sentimento quasi di panico. 

Siate meno rigidi, lasciatevi andare, sfioratevi, toccatevi, gesticolate! Questo è il rivoluzionario incoraggiamento di psicologi e terapisti dell’anima, seriamente preoccupati della rigidità corporea di queste frigide masse nordiche ammalate di solitudine e d’incomunicabilità. 

Anche gli spaghetti – quegli spaghetti che secondo i nostri detrattori sarebbero l’espressione stessa della nostra essenza di popolo molle e malfido – oggi sono completamente rivalutati. Adesso i vincitori delle gare più strenue confessano che una parte del merito va alla dieta atletica per eccellenza, succedaneo più che legittimo degli steroidi: un piatto di pastasciutta preparato all’italiana. Da cibo che rammolliva fisicamente e moralmente chi se ne cibava, e da pietanza per poveri cafoni gesticolanti, la pasta è assurta tra i maratoneti a simbolo d’alimentazione sana e corroborante. 

Di recente, aprendo il giornale ho trovato una notizia che mi ha riempito di soddisfazione. Gli scienziati hanno scoperto che l’organismo umano è stato programmato per il riposino pomeridiano, insomma per la siesta, per la pennichella. Incredibile… Anche in questo avevamo ragione noi. In quest’abitudine così piacevole e salutare gli antitaliani, insonni ed accidiosi, si ostinavano invece a vedere un segno di degenerante mollezza. Ed ecco che gli esperti riabilitano con tutti gli onori quest’abitudine mediterranea – latina – espressione di un’innegabile saggezza di vivere. 

Anche l’olio d’oliva è stato trionfalmente riabilitato insieme con tutta la dieta italiana (che in Italia, chissà perché, chiamano “dieta mediterranea”). “L’olio d’oliva è curativo” è il responso ammirato di stuoli di dietologi, che con questa categorica sentenza hanno rovesciato un altro indegno pregiudizio di cui abbiamo fatto nel passato le spese. Presso i candidati nordamericani all’infarto, spalmanti freneticamente sul pane il loro bianco burro salato, il nostro elisir d’oliva suscitava ancora ieri reazioni di schifo. Le cose adesso sono cambiate. Schiere sempre più larghe si avvicinano, con prudenza, all’olio d’oliva. Io mi auguro per loro che possano scoprire la voluttà dell’olio extravergine. 

La passione italiana per le fibre naturali, lana e cotone, non è mai stata condivisa dalle popolazioni nordamericane, tradizionalmente nemiche del ferro da stiro e piuttosto ignoranti in fatto di tessuti. Da qui il trionfo del sintetico. Nessuna meraviglia se le uniformi estive dei postini canadesi furono, anni fa, proposte in fibra sintetica. Immaginate le allergie cutanee e il puzzo di sudore… Ma l’enormità di una tale decisione non passò. Il sindacato denunciò   la cosa. I postini reclamarono il cotone. Come tutti gli altri in Québec, anche gli ostinati distributori di “circolari” e cartacce pubblicitarie volevano sentirsi “bien dans leur peau”. Questa sensibilità ai tessuti segnò   l’inizio di una rivoluzione culturale di cui noi eravamo stati i naturali antesignani e che non era puramente “epidermica”. Purtroppo, accanto a questa incoraggiante evoluzione, si registrano ancora battute d’arresto. Ma sta a noi italiani aiutare il progresso. 

Cari connazionali, la lotta continua… In nome dell’identità italiana d’origine fatta di espresso, siesta, famiglia, cucina, vino – ma non di quella fatta di mafie, burocrazia, tangenti, clientelismo, talk show, teatrino politico, bustarelle e abusivismo… 

Claudio Antonelli – Giornalista, Scrittore (Montréal) 

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