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Container, tossicodipendenti da consegnare in comunità terapeutiche, misure alternative a brevi manu, le risultanze per decongestionare un penitenziario reso monco e intollerabile dal sovraffollamento e non solo.

In questa elargizione di speranze e illusioni c’è un metodo artigianale dell’imparare, poco propenso a educarci a conoscere quanto ci circonda, infatti quanti Enti preposti dovranno essere interpellati per  poter accogliere soggetti detenuti nelle comunità terapeutiche che posseggono questo requisito, quanti protocolli di intesa da concordare, quante rette da sottoscrivere e onorare, quanti nuovi tutor da assumere e rendere subito operativi nell’accompagnare e detenere tanto per precisare le responsabilità in questione.

Per ultimo ma non per importanza chi dovrà ricercare mansioni lavorative appropriate quale strumento principe di ogni auspicata rieducazione.

Appare evidente il pasticcio delle intenzioni nei riguardi di una giustizia equa che non dimentica le priorità di tutela a garanzia delle vittime, ma che da questo punto di partenza rilancia nuove opportunità di riscatto, di riconciliazione, di riparazione. Il carcere è società non qualcosa di astratto, che si riduce al parlato, al raccontato, è piuttosto una comunità fatta di persone, di istituzioni, di regole autorevoli da rispettare, anche dentro una galera, dove i morti ammazzati sono colpevolmente silenziati.

Quell’accento non è uno scarabocchio mancato, ma un doveroso richiamo  al rispetto delle normative statuali, tra soggetti fondanti lo stato di diritto, eppure l’impressione che se ne ricava è  che quel diritto è sottomesso e violentato dal sovraffollamento, dagli eventi critici, dai problemi endemici all’Amministrazione penitenziaria.

Il caldo e i morti ammazzati sono adesso non domani o l’anno prossimo, Non c’è molta empatia tra stato di diritto e giustizia, figuriamoci quella riparativa.

Il rispetto per il valore di ogni persona ha urgenza di essere inteso non come qualcosa di imposto, ma come una condizione esistenziale da raggiungere attraverso l’esempio di persone autorevoli, anche lá dove lo spazio ristretto di un cubicolo blindato non dovrebbe mai annientare la dignità del recluso.

Se è vero che le vittime sono quelle che soffrono dimenticate nella propria solitudine, occorre davvero fermarci a riflettere, pensare quale società desideriamo, di conseguenza quale carcere condividere, e non rimanere indifferenti a un penitenziario ridotto all’ingiustizia di una afflizione fine a se stessa.

In questa sopravvivenza carceraria c’è una incultura che alla pena di morte vorrebbe consegnare la patente salvavita, basti pensare ai quaranta suicidi in questa parte di nuovo anno.

Spesso chiedo ai ragazzi che incontro: “che cos’è il carcere?”

Appare una domanda semplice semplice invece non lo è per niente. I giovani rispondono: Un luogo per chi commette un reato, così non lo ripeterà più”.

 E’ la conferma che nessuno sa cos’è il carcere, infatti la recidiva nel nostro paese supera il 70% , vale a dire che sette detenuti su dieci una volta scontata la pena ritornano a commettere gli stessi reati se non peggiori. Forse è il caso di pensare davvero a una galera che  non umilia ferocemente  la dignità delle persone.

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