Inconcepibile è, a volte, l’assurdità della vita. Vivere sapendo che si può soffrire in qualsiasi momento e, nello stesso tempo, sperare che tutto quanto si trasformi in gioia. Siamo esseri limitati nelle nostre azioni, nel nostro pensiero, eppure a volte ci sentiamo degli Dei. Comprendere che la vita è fatta così, di alti e di bassi, è capire noi stessi: la nostra intima natura di uomini (Andrea Filice).
Come abbiamo avuto modo di scrivere in un altro Editoriale, ci è capitato di incontrare quest’Uomo (proprio con la “U” maiuscola) tanti anni fa, in una struttura psichiatrica.
Forse il suo ruolo (da “ospite”) era sbagliato. Forse, era fuori posto anche il nostro.
Forse perché,come sosteneva Franco Basaglia, “visto da vicino, nessuno è normale”
Cari Lettori in questo giorno che precede la Pasqua, vorremmo partire da una voce confusa con la miseria, l’indigenza e la delinquenza; da una parola resa muta dal linguaggio razionale della malattia; da un messaggio stroncato dall’internamento e reso indecifrabile dalla definizione di pericolosità e dalla necessità sociale dell’invalidazione.
Quel motivo per cui, sostanzialmente, anno dopo anno, giorno dopo giorno, aumenta la percezione della cattiveria dilagante…
La verità è che, come sosteneva Franco Basaglia, la “follia” non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire.”
Pasqua è un termine che, nella Bibbia (racconto di Esodo, XII, 11-27), è messo in relazione col verbo pāsaḥ, che identifica “zoppicare”, “saltare” e, soprattutto, “passare oltre (saltando qualche cosa)”.
Ed è per questo motivo che, all’interno delle nostre riflessioni pasquali, vorremmo dedicare (più di) un pensiero a colui che ha mostrato al mondo di volere “passare oltre” lo stigma della malattia mentale, intendendo tale disturbo come la richiesta di aiuto di chi non sa esprimersi diversamente.
Per poter veramente affrontare la “malattia”, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. (Franco Basaglia)
Secondogenito di tre figli, Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo 1924, da una famiglia agiata. Terminati gli studi classici, nel 1943 si iscrive alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova dove entra in contatto con un gruppo di studenti antifascisti e, per questo, viene arrestato e detenuto fino alla fine della guerra.
Questa esperienza, che lo segna profondamente, verrà da lui rievocata anni dopo parlando del suo ingresso in un’altra istituzione chiusa: il manicomio.
Laureatosi nel 1949, inizia a frequentare la clinica delle malattie nervose e mentali di Padova, dove lavora come assistente fino al 1961.
Spinto da una irrefrenabile necessità di “capire”, accanto alle pubblicazioni scientifiche sulle più diverse condizioni di malattia quali poteva incontrare nella pratica clinica (schizofrenia, stati ossessivi, ipocondria, depersonalizzazione somatopsichica, depressione, sindrome paranoide, anoressia, dipendenze, etc.) unisce gli studi di filosofia, studiando in particolare la fenomenologia e l’esistenzialismo e cercando di conciliare la psicopatologia tradizionale con la psichiatria “antropofenomenologica”
Specializzatosi nel 1952 in malattie nervose e mentali, si unisce in matrimonio con colei che lo aiuterà moltissimo nel suo lavoro di “illuminazione” sui disturbi mentali: Franca Ongaro.
Approdato, nel 1961, alla direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, reagisce all’orrore di quella realtà impegnandosi in un radicale lavoro di trasformazione istituzionale.
All’interno dell’ospedale, si rifiutano le contenzioni fisiche e le terapie di shock (elettroconvulsivanti e insuliniche) e s’incomincia, soprattutto, a prestare attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni.
Si organizzano le assemblee di reparto e le assemblee plenarie, la vita comunitaria dell’ospedale si arricchisce di feste, gite, laboratori artistici. Si aprono spazi di aggregazione sociale, cade la separazione coatta fra uomini e donne degenti. Si aprono le porte dei padiglioni e i cancelli dell’ospedale.
Nel 1968 cura il volume “L’istituzione negata” che fa conoscere a livello internazionale l’esperienza innovativa di Gorizia e sancisce la nascita del movimento antiistituzionale, diventando presto uno dei libri-simbolo della contestazione in Italia.
Nel 1970 lascia Gorizia (perché scopre le “resistenze della Politica locale) e accetta l’invito di dirigere l’ospedale psichiatrico di Colorno ma, anche qui, verrà bloccato da entrambi gli schieramenti politici (maggioranza e opposizione).
La svolta avviene nell’estate del 1971, quando Basaglia vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste; da quel momento agirà per dar corso a un progetto politico che non si arresti alla bonifica umanitaria del manicomio, né alla semplice trasformazione delle sue dinamiche di funzionamento interno, ma metta in discussione la persistenza stessa dell’istituzione totale.
Nel 1973, Trieste viene designata “zona pilota” per l’Italia, nella ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui servizi di salute mentale in Europa.
Nel corso dell’anno si aprono i primi centri di salute mentale sul territorio.
Il 13 maggio 1978 viene approvata in Parlamento la legge 180 di riforma psichiatrica, che si ispira alle esperienze di superamento dell’ospedale psichiatrico sviluppatesi in Italia a partire dall’inizio degli anni sessanta.
Trasferitosi a Roma, nel 1979, non fa in tempo a portare a termine tre nuovi programmi di deistituzionalizzazione di alto profilo perché nella primavera del 1980 iniziano i segni del grave problema di salute che lo porterà via il 29 agosto dello stesso anno.
Andare alla ricerca del proprio sé è come partire, fare un viaggio, e bisogna prepararsi. Non è un viaggio che si deve fare per forza. Bisogna voler ascoltare il proprio cuore che chiama. Bisogna voler partire. E partire è più facile di quanto sembri. Ma è anche tremendamente difficile. (Pierre Joseph Vicari)
Qualcuno ha scritto che Pasqua è la compassione di una sofferenza, il riconoscimento di un grido che rimane strozzato in gola, la richiesta che sale alta da chi offeso, umiliato, ferito, ammazzato nella solitudine imposta”.
Cari Lettori, Non possiamo non ripensare alle sequenze conclusive di “2001, Odissea nello Spazio”. Un computer potentissimo, alla stregua di un Dio, regola totalmente la vita di un’astronave in viaggio verso Giove.
Viene rappresentato nel film con un occhio, come (per molte religioni) il Padre creatore.
“Noi siamo, senza possibili eccezioni di sorta, a prova di errore, e incapaci di sbagliare” dice di sé e dei suoi simili HAL 9000 mentre porta il suo equipaggio (dovremmo definirlo “ostaggio”), verso qualcosa che assomiglia all’infinito.
Ma HAL è talmente perfetto da provare sentimenti umani, da avvertire la sfiducia degli altri, la delusione, la paura, il desiderio di vendetta e l’istinto di sopravvivenza.
E così l’uomo, l’imperfetto, scopre che il modo migliore per renderlo inoffensivo, per sopprimerlo, è quello di privarlo della memoria.
Inizia, a quel punto, una sequenza allucinante, forse la più dolorosa nella storia del cinema.
L’astronauta, uccide Hal, svitando alla sua intelligenza, a una a una, tutte le tessere della memoria.
Un po’ come con gli elettroshock di (non tanto) antica memoria, gli toglie sapere, esperienza, conoscenza.
Lo fa regredire. Riduce chi si pensava “incapace di sbagliare” a un ferrovecchio inutile.
L’intera scena è dominata dal respiro dell’astronauta e dalla voce spaventata di HAL, che capisce quello che gli sta succedendo. Come un essere umano consapevole di essere malato di Alzheimer, dice: “Ho paura, la mia mente svanisce, lo sento!”
E, alla fine, senza più memoria di esperienza, esordisce con: “Buongiorno signori, io sono un elaboratore HAL 9000. Entrai in funzione nelle officine HAL di Verbana, Illinois, il 12 gennaio 1992. Il mio istruttore mi insegnò anche a cantare una vecchia filastrocca, se volete sentirla posso cantarvela”.
Cari Lettori, la nostra mente non può che tornare agli orrori del manicomio e “sentire” la paura disperata prima del “trattamento” e, poi, una fredda comunicazione formale dell’atto di nascita…
Con la morte in diretta di HAL, Kubrick capì in anticipo che la più feroce delle fini sarebbe stata proprio quella che avviene attraverso la perdita della memoria. Per decadimento cognitivo o per motivi iatrogeni terapeutici.
Praticamente, quello che Basaglia ha cercato di contrastare, con la propria opera: un’idea di Pasqua e di “rinascita” attraverso quella rivoluzione che si chiama “ascolto, osservazione e rispetto”
Perché, in fondo, a volte, più che amati si vorrebbe essere capiti. (Cit.)
Non importa a che età siano andate via le persone a noi più care ma, di fatto, il nostro cuore non le ha mai viste invecchiare.
E, nel momento del “distacco”, ci siamo rivisti bambini con loro, a giocare in un eterno girotondo.
Gli antichi Greci, ci hanno lasciato in eredità una delle parole più belle della nostra lingua, “entusiasmo” (en theos – un Dio interiore). E, in effetti, la grandezza delle nostre azioni si misura dall’ispirazione da cui scaturiscono.
Anche quando il freddo della cattiveria ci raggela.
E, allora, proviamo a cercare luce nel simbolico rito della rinascita. Nonostante tutto.
“Penso che questi nove anni siano stati i migliori della mia vita. Ti sono molto grato per la mia infanzia. Sei la madre migliore del mondo e io non ti scorderò mai. Spero che tu sia felice in cielo e spero che tu vada in paradiso. Ci vedremo in paradiso. Proverò a fare il bravo bambino per venire da te”.
Cari Lettori, questa è la struggente “preghiera” scritta da Anatoly per la madre morta, vittima della guerra fra i Popoli che, poi, è lo specchio della Guerra che, ognuno, “celebra” macabramente dentro se stesso. Magari dissimulandola con azioni all’opposto che, la psicanalisi definirebbe frutto di una “Formazione reattiva”.
Pasqua.
Come abbiamo visto qualche rigo più sopra, etimologicamente significa “passaggio” e fa
parte della vita di tanti che, in questo periodo di festività, provano a schivare gli orrori “di dentro” e di “fuori”, celebrando l’esaltazione della bontà all’insegna dell’umiltà, nel nome di un Cristo in cui pochi si riconoscono e troppi si identificano senza, però, professarne i principali insegnamenti: carità, umiltà…
Pasqua.
Convenzionalmente, vuol dire rinascita. Per il Cristo, ha significato resurrezione, per l’Uomo comune e mortale potrebbe e dovrebbe significare “emendamento”.
Ma perché usiamo questo termine?
Nella lettera ai Filippesi, di Paolo di Tarso leggiamo: “Cristo Gesù svuotò sé stesso assumendo la condizione di servo… Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”.
In questo scritto si sente battere il cuore di San Paolo, Apostolo dei Gentili e principale missionario del Vangelo di Gesù fra i pagani Greci e Romani.
In tali parole si riflette un inno modellato su un simbolo spaziale: la discesa – ascesa di Cristo, sull’asse Cielo – Terra – Cielo.
In Pratica...
“La discesa umiliante del Figlio di Dio quando si incarna, divenendo uomo tra gli uomini, abbandonando la sua gloria. Anzi, il suo è un vero e proprio precipitare in un abisso: egli, infatti, muore in croce, il supplizio riservato agli schiavi, agli ultimi della terra ” (Gianfranco Ravasi)
Dal Golgota, a ben riflettere, ha inizio l’altro movimento spaziale: quello dell’ascesa.
In questo modo, evocativo e simbolico, Cristo ritorna nella sua gloria assumendo l’appellativo divino dell’antica Grecia “Kyrios” (Signore) e tornando a brillare in quella “luce della trascendenza” che si era eclissata nella morte in croce, che lo aveva visto “svuotato” di potere e Divina Dignità per potere entrare nel grembo di una Umanità, fatta di miseria e di peccato.
Cristo è ancora una volta inchiodato alla croce nelle madri che piangono la morte ingiusta dei mariti e dei figli. È crocifisso nei profughi che fuggono dalle bombe con i bambini in braccio. È crocifisso negli anziani lasciati soli a morire, nei giovani privati di futuro, nei soldati mandati a uccidere i loro fratelli (Papa Francesco)
Cari Lettori, la morte e la rinascita nella solitudine della Pasqua hanno turbato e affascinato uomini di ogni epoca, non solo credenti ma anche laici. Un po’ come la visione degli internati in manicomio, nell’era pre Basaglia
Solitudine…
Questo termine, secondo i dizionari della lingua italiana, identifica la condizione di chi vive solo, in modo permanente o per un lungo periodo, ricercata per acquisire pace interiore o subita per assenza di affetti o appoggi materiali.
E si accompagna, spesso, ad uno stato d’animo che abbiamo sperimentato con la nostra venuta al Mondo: l’Angoscia
Quand’è che incontriamo due questi “ingombri” emotivi?
- nel momento in cui capiamo che il Mondo non si adatterà a noi ma, semmai, dovremo essere noi ad adattarci a lui…
- ogni volta che sentiamo il peso di ritrovarci da soli e non siamo preparati;
- allorquando avvertiamo la paura di non potercela fare e ci sentiamo “persi” oltre ogni limite.
Il mio pianto è un grido dell’anima che spezza le vene e altera i sensi… un pianto dignitoso che soffoca i pensieri. Non riesci più a capire chi sei… Vivi ore in un oblio di niente, sconfortato dal tutto che è al di là di una porta aperta e inattraversabile… Un sibilo ti spezza le orecchie: è un suono leggero per chi ascolta da fuori ma, dentro, è come un urlo che rimbomba nel cuore. Questo è il pianto di chi è solo.
Lo psicoanalista Paul Claude Racamier ha spiegato nel suo “Il genio delle origini” che esistono due pungiglioni della Psiche, che sono l’angoscia e il lutto: l’uno la ferisce quanto l’altro ma entrambi le sono indispensabili come via verso l’autonomia.
Perché si ha paura della solitudine?
La solitudine, siccome ci sintonizza con le frequenze del nostro mondo interiore, costituisce un amplificatore di stati d’animo.
La risposta, quindi, consiste nel fatto che tutto gira in funzione del peso che le diamo e di eventuali circostanze avverse che non riusciamo a metabolizzare.
Papa Francesco, ci spiega il significato del “salvare sé stessi” nella più profonda solitudine.
Sul calvario sono in molti, fra i carnefici ( e perfino il ladrone che subisce la sua stessa sorte) a domandargli il perché non sia in grado di salvare sé stesso, essendosi dichiarato figlio di Dio.
Cari Lettori, salvare sé stessi senza occuparsi degli altri: questo è il leit motiv di quell’Umanità̀ che continua a crocifiggere, idealmente, il redentore…
Ma nessuno si salva da solo. Può semmai, come sostiene Papa Bergoglio, nel silenzio della propria solitudine, offrire comprensione come il Cristo sulla Croce che prega per i malvagi, aumentando l’intensità̀ di un simbolico dono che diventa, in tal modo, per-dono.
Ritroviamo i frutti di questo passaggio considerevolmente suggestivo, all’interno della mentalità degli Indiani d’America che consideravano, per esempio, la figura del “guerriero” non come simbolo di morte e distruzione ma come emblema di chi sacrifica sè stesso per il bene degli altri, occupandosi degli anziani, degli indifesi e, soprattutto, dei bambini, considerati il futuro dell’umanità.
“Resurrezione, quindi (come sostiene lo psicoanalista Aldo Carotenuto e come ci ha mostrato Franco Basaglia), è liberarsi dalle catene (psichiche) e vivere senza blocchi (interiori)”.
Cari Lettori, prendendo spunto da un altro Editoriale vorremmo soffermarci sull’immagine di Salvador Dalì, L’aurora, del 1948
Il grande artista ha voluto simboleggiare, nel suo senso macrocosmico, l’utero (o la matrice) da cui tutti proveniamo mentre, sul piano microcosmico, ha inteso simboleggiare una valenza mistico–alchemica come recipiente dove la materia viene trasmutata.
Applicandoci in una veloce riflessione, possiamo concludere che, se l’uovo si rompe dall’interno, produce l’espressione di una vita che va incontro alle manifestazioni dei propri potenziali; Se, invece, viene rotto da agenti esterni, ogni potenziale viene interrotto e, al massimo si trasforma in alimento commestibile
Volendo riportare il discorso all’essere umano, possiamo concludere che, qualsiasi cambiamento (con relativa rottura delle abitudini) che si genera dall’interno (per opportune riflessioni maturative), produce una “resurrezione” di potenziali ancestrali; qualsiasi “forzatura” indotta dall’esterno (attraverso coercizioni o convincimenti di varia natura) produce l’interruzione di un percorso fisiologico e la trasformazione in “modelli” antropomorfici privi di autodeterminazione.
Non si può essere adulti se nessuno ha visto il bambino che siamo stati, noi, per primi. Adulto è colui che ha preso in carico il bambino che è stato e ne è diventato il padre e la madre. (Janusz Korczak)
Qualcuno ci ha spiegato che, non passione ma, semmai, compassione ci vuole. Cioè, la capacità di estrarre, dall’altro, la radice del suo dolore e di farla propria senza esitazione.
Appunto per questo, qualche tempo prima di Franco Basaglia, Carl Gustav Jung ha detto che un “vero” Atto d’amore è quello di accogliere in noi la nostra parte più ferita e fragile, accorgersi che dobbiamo amare l’ultimo degli uomini perché arriva terribile il momento in cui ci accorgiamo che l’ultimo degli uomini siamo noi. Forse, allora, il modo di risorgere può passare attraverso le azioni degne di “diventare un ricordo”.
Sono nato a una nuova vita ogni volta che una mia sovrastruttura mentale fatta di pregiudizi, di insegnamenti obsoleti e di credenze accettate acriticamente, si è spezzata e, io, ne sono uscito liberato come da una prigione.
Sono nato a una nuova vita ogni volta che, osservando il Mondo da insospettati punti di vista, la mia mente si è allargata a nuove comprensioni.
Sono nato a nuove vite, quando ho smesso di razionalizzare, ho ascoltato la mia intuizione e mi sono aperto al mistero… (Federico Faggin – Fisico, inventore del microprocessore)
Cari Lettori, osservando i due bambini che si tengono per mano nella suggestiva immagine di copertina e ricordando la grande opera di Franco Basaglia, vorremmo salutarvi con la “rivelazione” tramandataci da Omero: “Così hanno decretato gli Dei. Che, nel perdersi, ciascuno possa ritrovare sé stesso!”
BUONA PASQUA
Ti regalerò una rosa; Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare. E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa, una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare ogni piccolo dolore
Mi chiamo Antonio e sono matto
Sono nato nel ’54 e vivo qui da quando ero bambino
Credevo di parlare col demonio
Così mi hanno chiuso quarant’anni dentro a un manicomio
Ti scrivo questa lettera perché non so parlare, perdona la calligrafia da prima elementare
E mi stupisco se provo ancora un’emozione ma la colpa è della mano che non smette di tremare
Io sono come un pianoforte con un tasto rotto, l’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi
E giorno e notte si assomigliano nella poca luce che trafigge i vetri opachi
Me la faccio ancora sotto perché ho paura
Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura
Puzza di piscio e segatura: questa è malattia mentale e non esiste cura
Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare ogni piccolo dolore
I matti sono punti di domanda senza frase, migliaia di astronavi che non tornano alla base
Sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole
I matti sono apostoli di un Dio che non li vuole
Mi fabbrico la neve col polistirolo
La mia patologia è che son rimasto solo
Ora prendete un telescopio, misurate le distanze e guardate tra me e voi, chi è più pericoloso?
Dentro ai padiglioni ci amavamo di nascosto ritagliando un angolo che fosse solo il nostro
Ricordo i pochi istanti in cui ci sentivamo vivi, non come le cartelle cliniche stipate negli archivi
Dei miei ricordi sarai l’ultimo a sfumare: eri come un angelo legato ad un termosifone
Nonostante tutto io ti aspetto ancora e, se chiudo gli occhi, sento la tua mano che mi sfiora
Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare ogni piccolo dolore
Mi chiamo Antonio e sto sul tetto
Cara Margherita son vent’anni che ti aspetto
I matti siamo noi quando nessuno ci capisce
Quando pure il tuo migliore amico ti tradisce
Ti lascio questa lettera, adesso devo andare
Perdona la calligrafia da prima elementare
E ti stupisci che io provi ancora un’emozione?
Sorprenditi di nuovo perché Antonio sa volare
“Per me, che si parli di psicologo o di schizofrenico, di maniaco o di psichiatra è la medesima cosa: sono tanti i ruoli, all’interno di un manicomio, che non si sa più chi è il sano o il malato” (Franco Basaglia)
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per l’affettuosa disponibilità