Posted on

Lasciammo stare le cose come stanno e ognuno va per la propria strada. Ragazzi, vi debbo parlare: sono un galantuomo e non mi sento d’ingannarvi; ascoltatemi attentamente!

Si, papà!

Grazie. Che regalo che mi avete fatto! Allora… Quando due si sposano è sempre il padre che accompagna la sposa all’altare. Qua genitori non ce ne sono… Ci sono i figli. Due accompagnano la sposa, e uno accompagna lo sposo…

Cari Lettori, il bellissimo passo con cui abbiamo inteso “aprire le porte” di questo Editoriale, appartiene al terzo atto della monumentale “Filumena Marturano” di Eduardo de Filippo e proietta, imperioso, l’importanza del più fondamentale dei bisogni umani: quello di essere “riconosciuto”. Addirittura, come Padre, senza mai essere stato “individuato” come Figlio meritevole di quelle attenzioni prodromiche di maturità e saggezza

In un mondo teso, ossessivamente, alla ricerca della felicità ad ogni costo, c’è spazio per emozioni e sentimenti apparentemente controversi come quelli che vengono fuori da un “sano” rimpianto? Provare stati di sofferenza emotiva (come ad esempio malinconia o nostalgia) è sempre sintomo di depressione o può voler significare essere più “intensamente” vivi? (Eugenio Filice)

Ma qual è l’eredità di un padre che non c’è mai stato?

Forse la malinconia perché, nonostante tutto, non smettiamo mai di cercare l’idea e la sostanza del padre.

Cari Lettori… e se partissimo dai “pensieri” di Walter Veltroni nel suo romanzo autobiografico del 2015, “Ciao”?

Una sorta di viaggio attraverso il dolore della perdita e la meraviglia della ricerca delle proprie radici, in cui le parole si mescolano e si intrecciano fino a rivelare ciò che li unisce davvero.

Nella parola “papà” c’è ritmo, due battiti di cuore, la semplicità di un piccolo dito che indica un uomo e lo definisce, nel suo essere più assoluto. ALESSANDRO BRUNO

E se, attraverso ciò, immaginassimo la nostra personalissima lettera al Padre, a un passo dal giorno in cui si celebra l’importanza della sua “Funzione”?

Nell’armadio della mia stanza, su un lato, mamma aveva conservato tutti i vestiti di papà. Quando ero sicuro che nessuno potesse vedermi, li prendevo, li estraevo dal cellophane che li proteggeva e li appoggiavo sul pavimento: la giacca e i pantaloni, con le maniche e le gambe aperte. Poi mi toglievo le scarpe e mi ci sdraiavo sopra. Occupavo una piccola parte di quella superficie di stoffa e le mie braccia, appoggiate sulle maniche ben distese, sembravano perdersi.

Allora, prendevo con tutte e due le mani i lembi, all’altezza dei polsini e portavo quelle braccia di stoffa, simultaneamente su di me. Fino a coprirmi del tutto. Simulavo la sensazione di un abbraccio e immaginavo il suo calore. Così, per averlo un po’ con me. (Walter Veltroni)

Caro papà, la sabbia scivolata all’interno della clessidra del nostro tempo, è molta di più di quanta ce ne resta di vederla scorrere, eppure manteniamo lo sguardo dritto verso un orizzonte su cui il sole ha inizia a calare e, pur avendo paura, non siamo tentati dall’idea di tentennare.

Forse perché, come L’Ettore dell’Iliade che abbiamo studiato da ragazzi, pur sapendo che il suo tempo era agli sgoccioli, si sfila l’elmo e, abbracciando il figlio, lo leva in alto con le braccia e col pensiero.

In alto, più in alto di lui.

Perché è così che gli trasmette il proprio sguardo verso il Futuro. E la sua visione dell’Eternità.

Qualcuno ha scritto che tra coloro che viaggiano, c’è chi ha una meta e chi si è perso. (Cit.)

Pa’, ci hai insegnato senza dircelo che non basta aver dato un giorno (o una notte) la vita ai propri figli. Quella vita, infatti, bisogna riportarla a loro, ogni giorno. Anche (e soprattutto) quando non c’è il sole.

Nella nostra epoca (che ci diventa sempre meno “familiare”)  ci troviamo a condurre una situazione alquanto paradossale.

Da un lato, si stimola la mente a cercare soluzioni a problemi sempre più complessi (e ci si rende conto della necessità di approfondirsi in competenze sempre più accurate), dall’altro, proprio perché le molte sollecitazioni cui siamo sottoposti generano domande le cui risposte non sappiamo “fronteggiare”, si tende a impegnare la mente attraverso la ricerca e il conseguimento di obiettivi alquanto effimeri e fuorvianti.

In conseguenza di ciò, spesso sentiamo che qualcosa ci sfugge di mano e abbiamo sempre meno tempo e occasioni per recuperare o “redimere” una situazione.

Ho sempre progettato, costruito nel tempo, mi sono dato obiettivi a lungo termine. Ora è diverso. Non sono vecchio ma, il traguardo di arrivo, mi sembra molto più vicino della linea di partenza. E questo è strano, anche affascinante per alcuni versi.  Ma spiazzante. Mi accorgo che la vita, che mi ha sempre dato, comincia a togliermi. Cerco di trovare una strada per abituarmi… ma è un quartiere dell’esistenza che non conosco per nulla. (Walter Veltroni)

Pa’, cos’è il rimpianto?

Forse, quello stato d’animo determinato dal ricordo di qualcosa che avremmo potuto determinare ma che non abbiamo saputo vivere a pieno e ci ha lasciato un retrogusto amaro, in termini di aspettative non realizzate.

E, anche se un padre (per quanto ragazzo) non piange davanti a un figlio noi ti abbiamo sentito bisbigliare: “Peccato, quella volta ho perso un’occasione!”

Ulisse ci ha affascinato e, parimenti, Achille ci ha esaltato come l’hollywoodiano “Rambo” di Silvester Stallone. Eppure, Ettore, con la sua mestizia e la sua inguaribile malinconia, ci ha sempre scaldato il Cuore: è stato Padre di famiglia e Padre della Patria con quel suo sacrificarsi per la gente di Troia.

E, come se tu fossi qui, ci spieghi che l’importante, comunque, è non determinare situazioni dalle quali si possa generare una situazione di rimorso che, rispetto al rimpianto, è connotato da emozioni fortemente conflittuali, dolorosamente e intensamente fosche per qualcosa (che abbiamo fatto direttamente o meno ma che avremmo potuto e dovuto evitare) a seguito della quale qualcuno ha avuto un prezzo pesante da pagare.

Tutto sommato, ho amato molto (se non tutto) della mia esistenza. Compreso il dolore. Le cadute e le sorprese, le risalite e i tradimenti (quelli, forse, un po’ meno…); le passioni e le delusioni. E oggi, nonostante tutto, sento di dover essere riconoscente al tempo che ho attraversato. E per questo, a volte, ne ho nostalgia. E per questo, in fondo, sono curioso di come andrà. Fino alla fine. Solo, vorrei ritrovare ad una ad una le persone che ho incontrato e amato, per dirci le cose che non abbiamo fatto in tempo a raccontarci o che non abbiamo avuto il coraggio di confessarci. (Walter Veltroni)

Pa’… ma, allora, cosa significa essere felice?

Attraverso il tuo agire, abbiamo capito che, Felicità, è un termine di derivazione latina (Felicitas), che si riporta al verbo greco Feo (PHYO) con il significato di produttore di Fecondità: in sostanza ricchezza interiore.

Quindi, attraverso il ricordo del tuo sorriso ogni volta che portavi a termine quello che ti eri prefissato, potremmo definire la felicità come quello stato d’animo, tipico dell’essere umano realista (che sa valutare correttamente il positivo ed il negativo della vita sapendo apprezzare ciò che ha e quello che può ottenere) il quale ha raggiunto il conseguimento di un obiettivo per cui ha faticato non poco e ha generato benessere, cioè quella condizione temporanea conseguente allo stato di equilibrio metabolico psicofisico (OMEOSTASI) che deriva dall’appagamento di un bisogno importante.

Il padre tiene in braccio il figlio in modo diverso dalla madre, con il viso rivolto verso l’esterno (non verso il proprio seno come la madre) e con una irrefrenabile tendenza a sollevarlo sopra la propria testa, cosa che una donna non farebbe mai. (STEFANO ZECCHI)

Pa’… esiste un rapporto diretto fra felicità ed emozioni?

I nostri studi, ci hanno portato a capire che nessuna idea, una volta prodotta, può restare “nuda” e inespressa sul piano emozionale, altrimenti non riusciremmo a generare alcun tono dell’umore (consapevole o meno).

Infatti, sostengono i neuroscienziati, le emozioni, in base al tipo, alla qualità e alla quantità, sono responsabili di stati d’animo variabili.

Eppure, la scoperta più grande l’abbiamo conquistata quando ci hai spiegato che le emozioni non ci “possiedono” e non debbono renderci schiavi.

E allora, Pa’, dove finiscono i pensieri quando si pensa ad altro?

Forse vivono di vita propria all’interno di tanti cassetti. Ognuno con un titolo diverso, scritto fuori. 

Gioventù, maturità, vecchiaia. Tre periodi della vita che potremmo ribattezzare, rispettivamente: rivoluzione, riflessione, televisione (Luciano de Crescenzo).

Cartesio diceva che dal bene passato viene il rimpianto, che è una specie di tristezza. Questo tipo di rimpianto è parente della nostalgia. A volte, paradossalmente, può procurare un certo piacere, visto che è associato al ricordo di momenti piacevoli. Infatti, Victor Hugo, per esempio, definiva nostalgia e malinconia come “la felicità di essere tristi”.

Forse è per questo che, alla sera ti abbiamo visto, a volte, assalito da uno stato d’animo che ti avvolgeva come un plaid, legato ad un misto che spaziava fra lo scontento e il dispiacere di avere fatto (o non avere fatto) qualcosa.

Il padre è la radice più robusta, il figlio l’albero più promettente. (Cit.)

L’esperienza ci ha mostrato che il rimpianto è associato a numerose emozioni conflittuali: risentimento, sensi di colpa, sentimenti inerenti i percorsi della disistima.

Infatti, nel tempo, non ci si accontenta più di ricordare il proprio passato ma si valuta la propria responsabilità su un comportamento passato (verso il quale ci sente responsabilmente colpevoli) e sulle sue conseguenze attuali.

A quel punto, il rimpianto smette di essere un dolore circoscritto semplicemente al passato e diventa, anche e soprattutto, una sofferenza del presente.

Pa’… ti abbiamo visto triste in più di un’occasione e, quando le forze hanno iniziato a declinare, ci hai esortato a non ripercorrere il tuo cammino ma a provare ad andare “oltre”

Insomma, ti sei mostrato, a tratti, come uno sconfitto.

Che strano, però. Non ti abbiamo mai considerato un “perdente”

Anche il “nostro” Ettore è uno sconfitto…

Pa’… da Padri, ci è diventato chiaro che  il vero uomo, accetta e affronta la sconfitta se, questa,  nasce da una battaglia che si ritiene giusta.

Perché è così che si trasferiscono i valori al proprio figlio

È difficile, molto, essere padre se non si è stati figli, a pieno: se non ci si è scontrati con una punizione (anche) ingiusta se non si è provata la voglia di liberarsi dalle gabbie che sembrano prigioni ma che sono, in realtà, protezioni…

Qualcuno ha scritto che l’abbraccio del padre è il più difficile da conquistare

Ai nostri figli, infatti, vorremmo dire che “il padre” non è solo un “Lavati le mani prima di mangiare”, o un “Lasciami stare che sono stanco” ma, anche, un “Dai che ce la fai, perché ci sono io, con te!

Se la madre è il qui e ora; il padre è l’altrove: l’autorità da cui trarre il senso di giustizia, anche attraverso la contestazione contro di lui

La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. (MASSIMO RECALCATI)

Ricordo… memoria… emozione.

Qualcuno sostiene che il ricordo sia un’ombra che non si può vendere, anche nel caso in cui si volesse comprarla. 

Ricordo: sostantivo maschile che indica il richiamo dalla memoria di eventi, cose o persone, direttamente dal sottoscala del passato. Memoria: Sostantivo femminile che connota una funzione specifica del rapporto fra mente e cervello, in grado di accumulare informazioni

Il “segreto” del cervello consiste nel valutare le nostre esperienze mentre si verificano e selezionare istantaneamente quali memorizzare (per servirci da riferimento in seguito) e quali, invece, devono essere scartate, in base al “marchio” emotivo con cui sono state impresse.

Pa’… peccato non averti potuto dire che, allora, forse, è proprio vero che il più bel sogno è quello che vivi ogni istante in cui ti accorgi di poter esercitare la libertà di pensiero, così come il miglior bacio è quello che immagini di restituire al tuo amore e, trattenendo il fiato dall’emozione, quel minuto durerà, per te, una vita intera.

Cari amici oggi, in questo silenzio, vorrei poteste riapparire tutti, come per magia. Vorrei potervi vedere arrivare uno ad uno ragazzi che eravamo. Vorrei che al tramonto, ci potessimo sedere attorno al pallone di cuoio e parlare a lungo e dirci quello che non andrà, nelle nostre vite. Vorrei che ci mettessimo in guardia dagli errori che faremo e ci dicessimo la verità su quello che, poi, il tempo ci ha riservato. Soffriremmo di meno, saremmo più amici. E comunque, anche per un attimo, ci ritroveremmo come eravamo e non come siamo diventati, assecondando i nostri destini. (Walter Veltroni)

Ma perché a volte, papà, (almeno all’apparenza) amiamo complicarci la vita?

Amare equivale a provare un trasporto difficilmente reprimibile per qualcosa o qualcuno, dopo che, però, hai ottenuto la necessaria accettazione di te stesso. Non puoi cercare nell’altro, infatti, surrogati e rigurgiti compensatori.

Il termine complicare identifica quell’operazione che rende intricata una cosa di per sé, tutto sommato, semplice.

Ricordando le tue sfide, Pa’, non possiamo non concludere che le persone che “pensano a colori” sono alla costante ricerca di impegnare la mente nella ricerca di risposte a domande apparentemente lineari, scandagliando i remoti settori di quell’inconsapevole che, proprio come un bambino capriccioso, spesso si diverte a giocare a nascondino, facendoci provare nostalgia del passato per affascinarci col mistero dei colori sbiaditi di quelle foto depositate nei cassetti profondi di una scrivania chiamata memoria che, al pari di un bel mobile di antiquariato, ti fa amare ciò che è stato e ti fa capire che hai vissuto “davvero”.

Ho alzato la mano, ho chiesto scusa per non essere riuscito a fare del tutto, quello che volevo e ho lasciato. Senza rancore, senza rumore. Certo, è una sconfitta che mi ha fatto male. L’ho ritenuta ingiusta. Ho sofferto ma l’ho superata. Perché, la vita, è di più: è sorpresa, è invenzione, è fantasia. (Walter Veltroni)

Prima che tu vada via, di nuovo, Pa’… ma come possiamo costruire un vita felice?

Ecco, questa è una falsa domanda. Si, infatti, volevamo solo un po’ della tua attenzione per poterti dimostrare che abbiamo imparato le tue lezioni di vita, prendendo in considerazione queste indicazioni:

  • Porsi domande “intelligenti”;
  • Cercare risposte adeguate;
  • Applicare nella vita quotidiana i risultati delle proprie riflessioni;
  • Fare tesoro delle esperienze conseguenti.

Un tempo, la proiezione del Padre ti accompagnava quasi ovunque e la ritrovavi, ad esempio, tanto nel parroco dell’oratorio, quanto nel burbero professore che ti avrebbe, comunque, protetto a costo della propria vita difeso.

Forse la rivoluzione del ‘68 ha contribuito a creare un  esercito di eterni ragazzi senza voglia di assunzione di responsabilità

Potremmo affermare che, oggi, abbiamo una “Società di fratelli, orfana di Padri”.

Anche le dimissioni di Benedetto sedicesimo, neò 2013, hanno simbolicamente mostrato che nessuna metafora di paternità può essere al riparo delle difficoltà del tempo che si vive

Un uomo vivo, col tuo cuore, è un sogno. (Alfonso Gatto)

In conclusione, Pa’… come andrebbe vissuta la sofferenza?

Ci piace immaginarti mentre ci evidenzi la necessità di una disciplinata e misurata dignità, intendendo, con tale termine, non tanto il rispetto che gli altri mostrano nei nostri confronti (che finirebbe per attivare il meccanismo dell’orgoglio) quanto, piuttosto, il rispetto che portiamo nei nostri confronti, per ciò che sappiamo di valere (a prescindere dal giudizio altrui), che pone le basi per una corretta e solida autostima.

Il talento, la memoria, il viaggio. Eccola, la vita che lascia le orme, papà. (Walter Veltroni)

In pratica, ognuno di noi porta dentro una parte di un sé bambino, quello, per intenderci, che allunga le braccia e stende le manine per chiedere un abbraccio… e si strugge quando si sente non accettato per come vorrebbe.

È qualcosa che ti segna, per un verso o per un altro, per tutta la vita.

Siccome anche l’altro, quello da cui vorresti l’abbraccio non è più tuo padre o tua madre ma, semmai, un altro diverso da te ma che, come te, è in cerca di un incontro accogliente, finisce che diventiamo isole contro cui si infrange un mare in tempesta, la cui nebbia salina ci impedisce di vederci come persone in cerca di un sorriso.

Grazie, Pa’. Grazie per averci concesso il più bel regalo che si possa donare a una persona: aver creduto in noi.

Ti ricordi, Alfredo, quando i nostri cavalli correvano in pista? Si sono fermati, tanto tempo fa! E, io non lo volevo accettare.  Ma, adesso, debbono correre i figli!” (Domenico Soriano in Filumena Marturano)

Cari Lettori, al termine di questa intensa passeggiata di quest’oggi, vorremmo dedicare la nostra “Lettera al Padre” a tutti quelli che continuano a viaggiare, alla ricerca di una meta, senza il timore di perdersi.

la suggestiva immagine di copertina ci mostra  due eroi omerici: Ettore e Achille.

Al di là di quello che racconta il Mito, ciascuno dei due porta nel proprio sguardo il bisogno di essere, ancora una volta figli, prima di chiudere il proprio sguardo, per sempre.

Arrivederci, quindi, con l’ascolto della bellissima composizione di Gabriele Corsi, magistralmente interpretata dal nostro Amico Pino Gigliotti

Fammi essere ancora figlio

Solo una volta. Una volta sola. Poi ti lascio andare.

Ma per una volta, ancora, fammi sentire sicuro.

Proteggimi dal mondo. Fammi dormire nel sedile dietro il tuo.

Guida tu. Che io sono triste e stanco.

Ho voglia che sia tu a guidarmi, papà.

Metti la musica che ti piace.

Che sarà quella che, una volta cresciuto, piacerà a me.

Fammi essere piccolo. Pensa tu per me. Decidi tu per me.

Mettimi la tua giacca, che a me sembra enorme, perché ho freddo.

Prendimi in braccio e portami a letto perché mi sono addormentato sul divano.

Raccontami storie.

E se sei stanco, non farlo. Ma non te ne andare.

Ho voglia di rimanere figlio per sempre.

Abbracciami forte come dopo un gol.

Dormi ancora, come hai fatto, per una settimana su una sedia accanto al mio letto in ospedale.

Rassicurami. Carezzami la testa.

Lo so che, per tutti, arriva il momento in cui devi fare da padre a tuo padre.

Ma io non voglio. Non ora.

Voglio vederti come un gigante. Non come un uccellino.

Non andare, papà.

Ti prego.

Fammi essere ancora figlio.

Fammi essere per sempre tuo figlio.

“Ho solo due cose da lasciarti in eredità, figlio mio, e si tratta di radici ed ali”. (Cit.)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore La Strad@

Un ringraziamento agli amici Amedeo Occhiuto ed Eugenio Filice  per l’affettuosa collaborazione 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *