“Non riesco più a fingere che vada tutto bene e che sia felice di quello che sto facendo”
Un’affermazione di coraggio, quella di Giovanni Pietro Damian (in arte “SanGiovanni) all’indomani dell’ultima edizione del Festival di San Remo. Ha colto di sorpresa il grande pubblico ma ha rappresentato il quadro di crisi espresso peraltro anche da altri giovani interpreti del “Festival” di quest’anno: dalla denuncia di bullismo subito da “BigMama”, alle tentazioni suicide dei “La Sad“, alla fragilità emotiva di Guido Luigi Senia (“ Tre”), senza trascurare le difficoltà di una Alessandra Amoroso, vittima dell’odio dei social)
A chi gli ha chiesto cosa stesse succedendo alla cosiddetta “Generazione zeta” (i ventenni di oggi, Sangiovanni ha risposto con una sorta di appello generazionale: “Non so spiegarlo nel particolare ma abbiamo bisogno di aiuto da chi è più grande. Io ho solo vent’anni, ditemelo voi che in che direzione devo andare!”
E ora che avevo cominciato a capire il paesaggio: «Si scende», dice il capotreno. «È finito il viaggio». (Giovanni Caproni – La disdetta)
Cari Lettori, noi non sappiamo dove vanno a finire i pensieri quando smettono di essere pensati ma, il velo dell’angoscia (così come quello dell’ansia) ci “ammanta” ogni qual volta si viene pervasi da quella strana sensazione che non ci consente di essere definita propriamente un dolore ma, al tempo stesso, non somiglia neanche alle varie gradazioni di stati emotivi di cui crediamo di disporre.
E allora?
Proprio l’indefinibile fastidio diventa, al tempo stesso, una sorta di “insostenibile leggerezza dell’essere”!
Ma perché, il sole, “tramonta” sulla nostra anima?
Questa è la domanda che risuona nel nostro cervello ogni volta che il nostro sguardo cade su qualche senziente triste e abbattuto…
ANGOSCIA, quindi…
Cari Lettori, quand’è che sperimentiamo l’incontro con questo “ingombro” emotivo?
- nel momento in cui capiamo di doverci assoggettare anche a quello che non ci piace ma che, in fondo, non potrebbe essere diverso (e si chiama ANGOSCIA DI CASTRAZIONE);
- ogni volta che sentiamo il peso di ritrovarci da soli e non siamo preparati (e prende il nome di ANGOSCIA ABBANDONICA);
- allorquando avvertiamo la paura di non potercela fare e ci sentiamo “persi” oltre ogni limite (e gli esperti la chiamano ANGOSCIA DI FRAMMENTAZIONE).
Lo psicoanalista Paul Claude Racamier, nel suo “Il genio delle origini”, ha spiegato che esistono due pungiglioni della Psiche, che sono l’Angoscia e il Lutto: l’uno la ferisce quanto l’altro ma, entrambi, le sono indispensabili come via verso l’autonomia.
L’Angoscia riguarda l’Io (Componente fondamentale del nostro Inconscio, capace di: mediare tra la ricerca del piacere, il blocco morale e la realtà consentendoci un buon esame della realtà stessa; creare una nostra adeguata immagine interiore; orientarci correttamente sul piano spazio temporale; consentirci una capacità di giudizio per il controllo delle pulsioni, la tolleranza delle frustrazioni e la “gestione” dei conflitti interiori.) mentre il Lutto riguarda l’interazione con gli altri.
Ma, esattamente, come vanno, le cose?
Durante il periodo di vita intrauterina, almeno dal momento in cui riusciamo ad avere percezione di esistere (quando il sistema nervoso inizia a funzionare), sperimentiamo l’esperienza di quello che, con molta probabilità, deve essere stato il Paradiso descritto nelle Sacre Scritture: una pace immensa, all’interno di un lago amniotico privo di increspature, nell’abbraccio di un nido protettivo.
Fin dal travaglio di parto, però, facciamo i conti con qualcosa di “terribile” che ricorda la cacciata di Adamo ed Eva.
Nel libro della Genesi (3:20-24) si spiega tale funesto evento, come conseguenza della disobbedienza di Adamo ed Eva che, avendo mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, scatenano l’ira del Padreterno che, in conseguenza di ciò, li rese “mortali” e costretti a diventare “Adulti” operando scelte in autonomia e senza più alcuna protezione.
Per quello che ci riguarda è come se, simbolicamente, il “DIO – Madre” che ci ha custodito per nove mesi, ci proiettasse nel Mondo facendoci “morire” come “feto” per farci “comparire” sotto forma di “neonati”.
Nel prosieguo della nostra vita molte altre volte percepiremo, traumaticamente, l’angoscia della morte per, poi, riscoprirci a nuova vita.
Per essere ancora più concisi, potremmo dire che il lutto originario costituisce la traccia ardua, viva e durevole di ciò che si accetta di perdere come prezzo di ogni scoperta (P. C. Racamier)
Alcuni grandi Autori della Psicodinamica (fra cui Melanie Klein, Donald Winnicot e John Bowlby) superando alcuni aspetti prettamente Freudiani, hanno immaginato l’essere umano come capace, sin da subito, di mettersi in relazione con gli altri per potere, attraverso l’interiorizzazione delle esperienze ottenute da queste relazioni, formare delle strutture intrapsichiche chiamate Modelli Operativi Interni, i quali consentiranno di crearsi un’immagine di sé stesso e delle relazioni future che lo accompagneranno per tutta la vita.
Da questa prima presa di contatto, comincia a trasparire l’ipotesi che, ciò che sembra, possa essere diverso da quello che accade, nella realtà.
I giorni della nostra vita. Infatti, possono scorrere come la pellicola di un film la cui trama potrebbe essere ricondotta al titolo: “dallo sconforto alla speranza”.
Osservando i fatti dell’Umanità, per come descritti nei libri di Storia, possiamo renderci conto che, da sempre, ciclicamente, per via di catastrofici eventi naturali o per cause belliche (fin da Caino e Abele) ci sono state “generazioni a perdere” i cui reduci sono riusciti a reintegrarsi (forti dell’esperienza acquisita) in base alle risorse interiori su cui hanno potuto contare.
La notte non è mai così nera come prima dell’alba, ma poi l’alba sorge sempre a cancellare il buio della notte. Così ogni nostra angoscia, per quanto profonda, prima o poi trova motivo di attenuarsi e placarsi purché lo vogliamo. Sappiamo che c’è la luce perché c’è il buio, che c’è la gioia perché c’è il dolore, che c’è la pace perché c’è la guerra, e dobbiamo sapere che la vita vive di questi contrasti. (Romano Battaglia)
Cari Lettori, Cesare Pavese sosteneva che l’angoscia “vera”, è “fatta” di noia. Forse perché, in fondo, l’angoscia nasce da quello stato d’animo che ognuno di noi prova, in determinate condizioni, nel momento in cui sente quel non so ché che gli impedisce di agire, che gli spegne le motivazioni ma, al tempo stesso, lo rende inquieto e non gli consente di armonizzare le emozioni e i comportamenti con, in più, rispetto a quella che comunemente, chiamiamo ansia, una sorta di somatizzazione neurovegetativa (cioè, un coinvolgimento organico, sul piano sintomatologico: un peso “alla bocca” dello stomaco, una certa “fame” d’aria, una sorta di tosse nervosa, le tempie che sembrano “esplodere”, le gambe pesanti, i muscoli doloranti, etc.).
Tutto questo porta ad uno stato di inquietudine “frenata”: è come se volessi fuggire ma ti sentissi legato ad una catena.
Il giorno più facile? Ieri! (Navy Seal)
La parola “Io”.
In psicologia rappresenta una struttura psichica (organizzata e relativamente stabile) deputata al contatto ed ai rapporti con la realtà, sia interna che esterna. Nella grammatica della lingua italiana, “diventa” un pronome personale che indica un soggetto (che in quanto tale non è disponibile a subire l’essere un oggetto). La sua derivazione etimologica trae origine dal greco “Ego” che, con l’aggiunta di “ismo” (suffisso che tende a formare parole astratte che indicano dottrine o atteggiamenti) diventa, guarda guarda, egoismo.
Ogni qualunque operazione dell’animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine nell’egoismo (Giacomo Leopardi).
E anche se volessimo considerare i vari Dalai Lama, Danilo Dolci, Madre Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo Secondo, Nelson Mandela, etc… non potremmo e non dovremmo ignorarne la grandezza ma… a parte il fatto che non li abbiamo frequentati nel privato per giudicarne il carattere… può darsi che noi esseri umani operiamo in tal senso:
- Quando c’è da agglomerarsi intorno alla difesa o al recupero di valori importanti riusciamo a trovare la spinta a tirare il meglio di noi;
- Nei momenti in cui si vive lontano dal bisogno di lottare, o narcotizzati da un apparente benessere, finiamo col comportarci come le bestie che si abbeverano alle pozze della savana, dove i predatori si sfamano (all’occorrenza) e le prede continuano come se nulla fosse (tanto non è toccato a loro); o come i maiali nel proprio recinto, che litigano quando qualcuno di loro invade lo spazio dell’altro, ignari del fatto che altri stanno decidendo per il loro futuro (salumi e affettati vari, per intenderci).
Ultimo minuto è un film del 1987 diretto da Pupi Avati. L’ultimo interpretato da Ugo Tognazzi.
Walter Ferroni (Ugo Tognazzi) è il general manager di una squadra di calcio che sopravvive, nella bassa classifica della Serie A degli anni ’80, tra problemi finanziari, piccoli imbrogli e tanta passione.
Dopo anni di difficoltà e di bilanci “aggiustati con la scolorina”, Ferroni riesce a fare acquistare la squadra dal ricco industriale Di Carlo (Lino Capolicchio), credendo che questi si limiterà a finanziare la società lasciando a lui la gestione. Il nuovo presidente invece, con piglio imprenditoriale, lo rimuove dall’incarico e gestisce personalmente, inserendo nuovi manager accanto a quelli del vecchio staff di Ferroni prontamente passati al servizio del nuovo padrone.
La nuova gestione parte con baldanza, ma senza l’esperienza e i contatti di Ferroni incontra subito notevoli difficoltà. Il nuovo presidente impara a proprie spese che gestire una società di calcio è diverso dal gestire un’azienda. La squadra passa da una sconfitta all’altra, sino a quando lo stesso Di Carlo viene pesantemente contestato e minacciato dai tifosi. Il presidente si trova costretto a ritornare sui suoi passi e richiama Ferroni che, emarginando l’incapace allenatore, rende la squadra nuovamente competitiva, assumendone di fatto anche la guida tecnica.
Tra le perplessità e l’ostilità di molti, dentro e fuori la società, vince la prima partita della sua nuova gestione con una mossa coraggiosa e disperata: sostituisce a pochi minuti dalla fine della gara con l’Avellino il vecchio e corrotto centravanti (Boschi), con un giovane diciassettenne (Paolo Tassoni) della squadra “primavera”, che realizza il gol decisivo. Proprio all’ultimo minuto.
- Si, avanti!
- Mi aveva fatto chiamare?
- Si, mi scusi se mi trova in queste condizioni. A proposito, tanti saluti da mia moglie!
- Ah, grazie!
- Sa, io nel mio ambiente ormai ho una tale esperienza da non avere più grossi problemi ma questo campo è nuovo per me e per i miei collaboratori!
- No, ma guardi, non si deve preoccupare ai contratti e ai trasferimenti ci ho sempre pensato io e quindi…
- È questo che non mi piace! Se l’industria è sana, efficiente, giovane e grintosa può espandersi e sopravvivere; se la si gestisce con vecchi trucchi o intrallazzi di ogni genere è destinata a scomparire.
- Ma, guardi, che se c’è una squadra pulita quella è la nostra! Glielo giuro su mia figlia!
- Sua figlia? Lei lo sa che non è vero! Basta leggere i bilanci. È bastata una mezza giornata al mio amministratore, per rendersi conto del grande casino nel quale vi siete mossi in tutti questi anni. Lei mi dirà che non c’era altra soluzione. E allora è meglio chiudere, cambiare!
- Ma non vorrà mica togliere la squadra dal campionato’
- Cambiare sistema. Ed è quello che il mio gruppo ha deciso di fare!
- Ed io?
- Naturalmente può restare!
- Con quale incarico?
- Accompagnatore della squadra, così per quanto riguarda l’esterno nessuno se ne accorge.
- Due anni fa, per salvare la squadra, dalla retrocessione lo sa che cosa ho fatto? Ho venduto l’appartamento di mia moglie; in due giorni mi sono fatto 3.000 km in macchina per convincere un amico ad aiutarci. Ma questo non è niente! L’anno successivo, stessa cosa. Sempre in mezzo ai guai! Centocinquanta milioni di cambiali firmate in proprio, per permettere al nostro allenatore di dichiarare in televisione che aveva salvato “lui”, la squadra dalla serie B! Io non so quando è nata mia figlia… ma so esattamente che il 23 dicembre 1976 abbiamo fatto 2 a 2 con l’Udinese e che, la domenica successiva, abbiamo perso 3 a 0 con la Roma. E allora la domenica dopo, lo sa cosa ho fatto? Ho fatto fare un autogol ad un giocatore della squadra avversaria, a 3 minuti dalla fine. Un favore personale !
Cari Lettori, il grande Tognazzi, interpreta un personaggio simile a ciò che era, in effetti, nell’ultimo scorcio della propria vita: sensibile, delicato, leggermente presuntuoso, vulnerabile, disilluso, stanco, deluso.
È anche da qui, che nasce l’angoscia esistenziale:
- La paura che, prima o poi, sarai “ftto fuori” perché sarai ritenuto non più utile (socialmente, moralmente, affettivamente, etc.);
- Il turbamento relativo al fatto che, ora che sei ancora forte, non sai come dirigere e utilizzare questa tua energia;
- Il senso di colpa che ti deriva dal fatto che, con molta probabilità, per realizzare tutto quello che hai prodotto (e che ti è costato sacrificio), con molta probabilità avrai generato degli errori che avranno fatto soffrire altri per cui, tu, in un modo o nell’altro, cercherai di schivare rimorsi e rimpianti ma, dentro, ti porterai il peso di un vuoto “ingombrante”, perché ti blocca come una catena attaccata al collo e ad una delle due caviglie in maniera tale che, tu, avrai l’illusione di poterti muovere, spostando in avanti quella gamba che senti libera, le braccia che senti libere però… subito avrai un primo strappo perché il torace non lo potrai spostare più di tanto e, successivamente, subirai un secondo strappo perché, dopo aver portato avanti, la gamba libera, vai per muovere quella legata e quella, pur “rispondendoti”, senti che è impedita e dolorante perché l’anello cui è legata la catena, comincia a scavare la tua pelle che, a furia di sfregare porterà il segno dei dolori conflittuali.
L’uomo è l’unico animale per il quale la sua stessa esietnza è un problema che deve risolvere (E. Fromm)
Ciascuno di noi, ha un cervello abbastanza sviluppato, dal punto di vista anatomico e sufficientemente raffinato dal punto di vista delle capacità potenziali.
Questo è un gran dono ma è, al tempo stesso, una grande condanna perché ci ritroviamo, “dentro” qualcuno che continuamente ci domanda: “E ora, che facciamo? Ieri, sicuro che è andato tutto bene? E domani che ci aspetta? Avanti, su! Rispondi perché io ho fretta!”
L’essere umano, in quanto tale, diventa un problema per se stesso e genera tutto il peso possibile e immaginabile per provare a rispondere, avendo la paura di sbagliare e sapendo che la vita, come sosteneva il grande commediografo Arthur Miller “è una rappresentazione teatrale dove non sono ammesse prove”.
Il nostro problema nasce nel momento in cui, a differenza di altre specie animali, siamo in grado di porci la domanda: “Che senso ha, tutto ciò, su questa Terra?”.
Le strade da percorrere, durante il tempo a disposizione, sono molte ma, solo poche garantiscono un’uscita di sicurezza.
Tanti si inventano soluzioni discutibili sul piano etico e morale. Non si spiegherebbe altrimenti il comportamento auto ed eterolesionistico di chi dovrebbe rappresentare un esempio autorevole e istituzionale. Alcuni mostrano il coraggio, nella paura, dichiarandosi non all’altezza del compito e cercando di uscire, velocemente di scena (come molti personaggi di “Verghiana” memoria). Altri, ancora, in nome di un presunto e preteso risarcimento per danni subiti dalla Società (nel termine più ampio), mettono in atto situazioni pericolose, eclatanti e “squilibrate”.
Quindi cari Lettori, sembrerebbe che anche noi “Adulti” brancoliamo nel buio al pari (se non peggio) dei giovani che, come Sangiovanni, si aspettano da noi una guida che indichi la via del Futuro…
Veramente “sano” non è semplicemente colui che si dichiara tale, né tanto meno un malato che si ignora come tale… Veramente sano è un soggetto che conserva in sé i limiti della maggior parte della gente e che non ha ancora incontrato difficoltà superiori al suo bagaglio affettivo e alle sue facoltà personali difensive o adattive…
Partendo da questa riflessione dello Psicoanalista francese Jean Bergeret:
COME DOVREMMO ESSERE, PER ESSERE “NORMALI” E IN GRADO DI ANDARE INCONTRO A UNA NUOVA ALBA?
Veramente sano è colui che si permette un gioco abbastanza elastico della ricerca del piacere e del senso di responsabilità, sia sul piano personale che su quello sociale, tenendo in giusta considerazione la realtà e riservandosi il diritto di comportarsi in modo apparentemente aberrante in circostanze eccezionalmente “anormali”.
Sostanzialmente, come precisa Bergeret nel suo “Personalità normale e patologica”, per potersi definire “normali” di fronte ai principi di Natura e alla Società, si dovrebbe considerare fisiologico pagare il prezzo delle proprie scelte, con senso di responsabilità: se vuoi qualcosa, devi dare qualcosa di te (il tuo tempo, il tuo impegno, il tuo denaro, le tue emozioni, etc.) per poterla meritare, ovviamente nel rispetto delle regole dell’ambiente in cui vivi.
Se volessimo essere un po’ più sintetici, potremmo rifarci al concetto espresso dallo psicoanalista Paul Claude Racamier
La capacità di un amore empatico, di godere del piacere e di sopportare il sentimento di lutto, costituiscono le condizioni di qualunque sanità psichica
Prendendo in considerazione le indicazioni di Giovanni Russo, ideatore del modello psicologico Pragmatico Eclettico Analitico e fondatore della Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico (SFPID) potremmo concludere che sarebbe necessario aver raggiunto una adeguata autostima e una corretta autoaffermazione
E cioè:
Applicandosi con serietà al proprio lavoro; cercando di camminare sul sentiero della maturità; rendendosi conto della validità che il proprio operato rappresenta all’interno della Società in cui si vive; migliorando sé stessi con costanza…
E ancora, avere acquisito la capacita di:
- assorbimento e metabolizzazione delle frustrazioni;
- adattamento e integrazione;
- assenza di conflitti permanenti;
- corretta gestione del proprio tempo vitale;
- donare e ricevere amore nella giusta misura;
- ridimensionamento dell’attaccamento ai beni materiali;
- utilizzo adeguato delle esperienze di vita vissuta.
… il lutto originario costituisce la traccia ardua, viva e durevole di ciò che si accetta di perdere come prezzo di ogni scoperta (P. C. Racamier)
In pratica…
Ogni tappa evolutiva (nel bambino così come nell’adulto) è preceduta da una sorta di disillusione che segue ad una visione troppo ottimistica e precede una condizione di temporanea depressione oltre la quale si diventa più “forti” e più “maturi”.
Se si resta bloccati per paura di provare l’angoscia, inizierà il “ritiro” sociale e personale, con la conseguente percezione di vuoto che andrà necessariamente riempito attraverso la proposizione (inconscia) di disturbi e sintomatologie.
Oltre l’Angoscia (non superata), il trauma, la tempesta; oltre il Lutto (non risolto) la depressione e il deserto… (P.C. Racamier)
Cari Lettori, appare chiaro che il male di vivere è presente in ogni epoca ma è altrettanto evidente che, ogni generazione lo ha vissuto (e lo vive) con tonalità diverse.
Il motivo di fondo è la constatazione della precarietà della vita e della “presenza” della morte che, per quanto rimossa, è incombente, ogni giorno, nelle forme più diverse.
Ogni momento storico ha cercato di circoscrivere il senso di angoscia, proponendo dei valori sociali o religiosi per dare un senso alla vita.
Le persone più sensibili e, per questo, più fragili non ce l’hanno fatta ad accettare l’esistenza e hanno reagito in vari modi, non ultimo il suicidio.
Pensiamo al secondo dopoguerra del secolo scorso, quando addirittura una corrente filosofica si interrogava sul senso dell’esistenza e non trovava motivi di attaccamento alla vita.
Anche la grande Poesia ha colto nei secoli questo disagio, dal più grande dei poeti latini, Lucrezio, al nostro altissimo Leopardi.
Solo che, la grandissima Poesia, ha una sua “magia” che consiste in questo: più è spietata contro i mali della vita, più distrugge illusioni e speranze e più (grazie all’effetto che genera nel nostro animo) ci innamora alla vita stessa.
Stesso effetto con la musica.
L’essere umano, mentre coglie la vacuità dell’esistenza, avverte che si sciolgono dentro di sé delle forze strane che gli fanno amare la vita, nonostante le difficoltà e i dolori.
Nel nostro tempo, il problema del disagio esistenziale, grazie alla comunicazione di massa, è diventano di pubblico dominio rispetto a quel passato in cui la pubblicità aveva una velocità più lenta e contenuta.
Il problema, oggi, è molto più complesso che in passato perché la società planetaria come ti accoglie così, dopo un po’, ti distrugge.
Torniamo, per un attimo, all’argomento con cui abbiamo iniziato questo Editoriale: i giovani e, in particolar modo, quegli artisti “baciati” dalla Fortuna e dal Successo
Per un po’ ci si lascia vivere in questo sogno ma, poi, immancabilmente si genera la crisi dettata da molti fattori fra cui la paura di una progressiva disaffezione del pubblico e, paradossalmente, l’assenza di altri desideri, visto che si “possiede” già tutto (pur avendo grandi vuoti interiori)
Abbiamo assistito all’autodistruzione di artisti del calibro di Michael Jackson e Whitney Houston…
L’artista, costruito e poi abbandonato (anche da sé stesso) passa dalle luci della ribalta alla oscurità totale, spenti i riflettori sulla (e nella) sua persona.
Il poveraccio, senza saperlo, è diventato un personaggio pirandelliano: da parecchi è visto come l’ex cantante di successo, da altri come un fortunato cui era toccata grandezza non meritata.
Come già ci ricordava Italo Svevo in grandi pagine della Coscienza di Zeno, è difficile muoversi in una aria malata siffatta.
Cosa è la salute?
Cos’è la malattia?
Forse, siamo tutti “malati” senza saperlo.
SAPER PRENDERE L’ONDA PERFETTA
John Williams è uno strano naufrago nel mare della vita. Ha tutto, ma non ha più niente, nemmeno il sorriso di un tempo. Finché non conosce Simon, un uomo misterioso, che assapora la vita istante per istante e gli insegna a prendere il largo e a rincorrere con rinnovato slancio “l’onda perfetta”, dove cielo e mare s’incontrano, finalmente pacificati. Perché l’autentica felicità ci sta sempre accanto, ma chiede a ciascuno di noi di saperla cogliere. (Sergio Bambaren)
Il famoso apneista Enzo Maiorca insegnava che, per potersi tuffare in un mare molto mosso bisogna scegliere il momento della risacca, in cui l’onda si ritira e, mentre si accinge a tornare (prima che si gonfi e riprenda vigore) individuare il punto più in basso fra l’acqua e il fondo e lanciarsi, confidando nella massima depressione e nella bassa pressione di spinta, per riaffiorare al di là dell’onda, liberi di nuotare in mare aperto!
Allo stesso modo bisogna considerare il fisiologico stato d’animo di abbattimento che consegue alle disillusioni (o ai “grandi inganni”, come qualcuno li chiama): “non aver paura dal vuoto della depressione per potere, quindi, riemergere a nuova vita.
Cari Lettori e cari “giovani” che guardate con timore all’approssimarsi di un prematuro tramonto, vorremmo prendere commiato da voi con il testo di un artista che ha pattinato a lungo sul crinale del burrone ma che, poi, ha mostrato gli immensi tesori che, interiormente, possediamo. Basta sapersi guardare dentro, senza il timore di incontrare sé stessi.
VIVERE
Vivere…È passato tanto tempo
Vivere… È un ricordo senza tempo
Vivere… È un po’ come perder tempo
Vivere e sorridere dei guai Così come non hai fatto mai
E poi pensare che domani sarà sempre meglio
Oggi non ho tempo, Oggi voglio stare spento
Vivere, E sperare di star meglio
Vivere, E non essere mai contento
Vivere, Come stare sempre al vento
Vivere, come ridere
Vivere (vivere), Anche se sei morto dentro
Vivere (vivere)… E devi essere sempre contento
Vivere (vivere), È come un comandamento
Vivere o sopravvivere, Senza perdersi d’animo mai
E combattere e lottare contro tutto contro
Oggi non ho tempo, Oggi voglio stare spento
Vivere, vivere (vivere)… E sperare di star meglio
Vivere, vivere (vivere)…E non essere mai contento
Vivere, vivere (vivere)…E restare sempre al vento a
Vivere e sorridere dei guai, Proprio come non hai fatto mai
E pensare che domani sarà sempre meglio
Il tuo cuore è un gabbiano che vola libero nei cieli della vita. Lascialo andare senza paura, ti saprà condurre alla felicità (Sergio Bambarén)
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore La Strad@
Un ringraziamento all’amico Amedeo Occhiuto per l’affettuosa collaborazione e all’amico Adolfo Adamo per aver stimolato il trattamento della tematica