Portami altrove. Portami ad ascoltare la felicità (Walter Veltroni – Noi)
Sostanzialmente, molto dipende da quanto ritengono accettabile, condivisibile e vicino al proprio sistema di vita, grazie agli esempi che ricevono dalle persone di riferimento: genitori e affini.
Spesso accusiamo la Televisione e la “Rete” Internet, di plagiare le coscienze delle nuove generazioni eppure, nessuna delle due è il nostro genitore, neppure il nostro educatore, ancor meno il nostro compagno di viaggio.
Per cui affermare che la vita ci vede passivi per colpa dei monitor nei quali ci “perdiamo”, sarebbe come sostenere che la dipendenza sia nata insieme alle Slot Machine!
Il paradosso consiste nel fatto che, la corte che giudica, saremmo noi (cioè, quelli che non hanno tempo per una carezza, né per una preghiera).
Forse sarebbe meglio ammettere che, quando cominciano i compromessi con le proprie responsabilità di genitori, di educatori e, quindi, di caregiver si è destinati a una proiezione virtuale, che indica nei ragazzi una deficienza non loro ma, piuttosto, nostra.
Questo, la psicologia (non solo quella a indirizzo Dinamico) lo spiega con l’attivarsi di sfumature caratteriali inconsce definite “Meccanismi di difesa” che servono a proteggere il nostro “io” dall’angoscia che nasce man mano che scopriamo di non passeggiare in un mondo perfetto.
Per toccare con mano la validità di quello che stiamo affermando, soffermiamoci per un attimo ad analizzare le fasi del meccanismo di “Separazione – Individuazione” del bambino:
- differenziazione e sviluppo dell’immagine corporea (dal 4º all’8º mese nella quale, apprende il proprio schema corporeo, esplora il mondo esterno, distingue la madre e avverte angoscia quando non c’è perché, ormai, si è “differenziato” da lei);
- sperimentazione (dall’8º al 14º mese, in cui stabilirà anche fisicamente, una “giusta distanza” dalla madre e si appiglierà a un oggetto transizionale per non avvertire l’angoscia della solitudine);
- riavvicinamento (dal 14º al 24º mese in cui, grazie anche ai progressi nel linguaggio, il bambino è capace di sopportare le attese e inizia a sentirsi, interiormente, al sicuro);
- costanza dell’oggetto libidico (nel 3º anno, in cui crea una rappresentazione stabile, permanente e distinta sua e di sua madre, percependo la propria identità).
Pur nel rispetto della parità di ogni genere non possiamo non riportare la riflessione di Donald Winnicott per capire, ancora meglio, l’indispensabile importanze della triade “Madre – Padre – Figlio”:
La madre è la stabilità del focolare, il padre è la vivacità della strada.
A questo punto, cari Lettori, proviamo a domandarci, ad esempio se, un ragazzo contemporaneo, sia più o meno “sveglio” sul piano intellettivo, dei coetanei che lo hanno preceduto, a partire dai primi anni del 900…
L’elemento di immediata considerazione riguarda il fatto che, in quell’epoca l’obiettivo della possibilità di studiare, era considerato, al tempo stesso, un privilegio e un traguardo prestigioso, in grado di offrire l’emancipazione dall’abbrutimento post industriale.
Oggi, invece, la Scuola in generale e lo Studio, in particolare, vengono vissuti come incombenze anacronistiche al pari della leva militare obbligatoria di qualche anno fa.
Ciao amore, non lo so a cosa serve: è solo un po’ della mia vita che si perde! (Fabio Concato)
Ma, cari Lettori, è plausibile concludere che il volume dei dati culturali a disposizione di qualsiasi studente di fascia “media” sia equivalente, se non superiore, a quello su cui poteva contare uno studioso che si approfondiva di filosofia e scienza all’epoca di Federico Secondo di Svevia (grande e illuminato uomo di potere, di Scienza e di Cultura in generale)…
Ora, riflettiamo un attimo: se, alla guida di un’auto sportiva, determinassimo un incidente stradale, la colpa sarebbe di chi ha progettato il bolide, della vettura stessa o, piuttosto, della nostra presuntuosa incoscienza nell’essere saliti a bordo di un mezzo che non sapevamo condurre?
Probabilmente, dovremmo fare nostra (indipendentemente dalla fede che ognuno professa), la filosofia di S. Agostino, quella del dialogo e della relazione improntata a ribadire il valore della memoria, dell’intelletto e della volontà.
Quindi, proviamo a domandarci: il bambino, ha in sé un patrimonio genetico che in modo rigido lo porta a comportarsi come si comporta, o l’ambiente può, positivamente o negativamente (a seconda dei casi), incidere?
È indubbio che i geni concorrano a determinare anche il nostro carattere, la nostra personalità, la nostra “vulnerabilità” ad agenti ambientali.
Ma, al tempo stesso, da quanto abbiamo appena accennato in questo editoriale, l’occhio è puntato sulla interazione fra genetica e ambiente che contribuisce a determinare quello che siamo. E che, Epigenetica e psiconeuroendocrinoimmunologia, studiano da qualche decennio.
Il materiale genetico, infatti, si mostra come qualcosa di “plastico”, di variabile sia nella costituzione (con le “mutazioni”) che nell’espressione (grazie ai meccanismi epigenetici).
Già del resto gli antichi, senza avere ancora conoscenze scientifiche come le nostre, credevano fermamente in ciò, altrimenti non avrebbero dedicato tempo e spazio alla educazione dei fanciulli.
Non si perde tempo con chi non potrà mutare in nulla ciò che ha in eredità dentro.
Al di là di ogni retorica, la Famiglia e la Scuola, ognuna nel suo ambito, hanno l’impegnativo compito di aiutare un fanciullo a “tirar fuori” da sé quelle caratteristiche umane e sociali che “riposano” in lui.
Compito dei genitori è leggere i bisogni dei bambini e degli adolescenti.
Il bambino, per fare un esempio, si angoscia dell’assenza del genitore, l’adolescente, invece, della sua presenza.
Pian piano il figlio diventa erede. Ma in realtà quando lo diventa?
Dal momento in cui concepisce l’eredità come un compito, non come un’acquisizione.
Ereditare, è un movimento che va verso il futuro, è il futuro che fa esistere il passato. Il futuro può fare esistere il passato come accumulo di macerie o come luogo di ricarica e di poesia (Massimo Recalcati)
Al contrario di quanto si pensi da parte di molti, il figlio deve vedere l’imperfezione, la vulnerabilità del genitore, come espressione di corretto esame di realtà, in grado di farlo crescere senza più attendere l’arrivo del “Super Eroe” (attraverso il meccanismo definito “Scudo paraeccitatorio”).
Una figura di padre “esemplare” finisce con lo schiacciare il figlio.
Perché il bambino diventi buon fanciullo e poi persona consapevole è necessario che i genitori si impegnino a svolgere bene il proprio ruolo.
La madre, che ha grandissimo rilievo nei primissimi anni, dice: “Eccomi”.
Il bambino è ancora un inerme e, lei, rispondendo al suo grido, si prende cura di lui.
Il ruolo del padre compare in un secondo momento, nella cosiddetta fase “Edipica” e, la parola chiave di lui verso il figlio, è “No”.
Non è un “no” a prescindere, ma un no legato alla categoria del limite.
Siccome il figlio, frastornato da una Società che promette tutto e subito, tende a volere tutto, il padre, che incarna la Legge, deve fare il suo dovere e saper dire di no.
La Famiglia era esplosa, ormai. La Società aveva spostato il baricentro esclusivamente lungo le ragioni e i desideri dell’individuo. I rapporti umani erano divenuti funzionali solo all’appagamento del bisogno del singolo. Il bisogno di quell’istante. E gli altri, erano puramente strumentali a questo obiettivo. La vita e le relazioni fra le persone si consumavano, non si progettavano né si costruivano.
Le persone si prendevano e si lasciavano con grande facilità. Come in una bulimia degli affetti. (Walter Veltroni – “NOI”)
Al figlio, ad un certo punto, bisogna saper dire “Vai”, dopo aver cercato di svolgere bene il difficile ruolo di genitore.
Il Mondo, comunque, sarà sempre più basato sulle comunicazioni virtuali e in tempo reale ma ciò, però, resterà condizionato dagli aspetti soggettivi che, spesso, non accettano più alcuna verità. La Famiglia, la Scuola e la Società sono sistemi divenuti complessi e sempre più difficili da interconnettere.
A che serve la Scuola? Ci chiederanno. E noi dovremo dire la verità: la Scuola serve a non renderci servi. (Cit.)
Nel frattempo, non possiamo ignorare il fatto che, ormai, siamo dentro fino al collo nell’era delle comunicazioni istantanee che ci allontanano sempre più dal reale dialogo interpersonale. Apprezzare l’introspezione porta a considerare una professione tanto nuova e necessaria quanto, già, in via di estinzione: quella degli “entronauti” di noi stessi.
Quanto meno, per ascoltare e osservare con una nuova sensorialità, i tanti figli, al palo. In attesa.
Perché dovremmo onorare quelli che muoiono sul campo di battaglia? Un uomo può dimostrare lo stesso spericolato, coraggio, calandosi nell’abisso di sé stesso (W. B. Yeats).
Cari Lettori, a questo punto del cammino, vorremmo spiegare il motivo del titolo di questo Editoriale e il senso dell’immagine di copertina.
Cosa significa “l’ora che volge al desio”?
Da sempre, l’ora del tramonto è il momento della giornata in cui ci si “raccoglie” intimamente e si va, col pensiero, a tutto ciò che, per noi è importante.
Per sintonizzarci al meglio, con questo concetto, ci sovviene l’inizio dell’ottavo canto del Purgatorio, della Divina Commedia di Dante Alighieri, con la descrizione del tramonto attraverso le emozioni di chi lo vive in condizioni di sofferenza affettiva: il marinaio durante la lunga navigazione e il pellegrino lontano da casa.
Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more; l’udire e a mirare una de l’alme surta, che l’ascoltar chiedea con mano (Dante Alighieri – Purgatorio VIII)
Questo prezioso riferimento, richiama il tema che, a nostro parere, guida l’opera del Sommo Poeta, che considera l’Umanità come in “esilio” sulla Terra, consapevole della precarietà e “invitata” a guardare ad una meta che ci sta davanti e che ci attende.
La vita come pellegrinaggio, quindi, alla ricerca della “vera” Patria.
Esiste, a tal proposito, una particolare preghiera attribuita a sant’Ambrogio: “Te lucis ante”.
Prima della fine del giorno, ti invochiamo creatore del mondo affinché, per la tua clemenza, tu sia nostro presidio e difesa.
La particolare immagine di copertina riprende una scena di “Santo Cielo”, un film niente affatto banale, interpretato da Salvo Ficarra e Valentino Picone.
Il Gran Consiglio del Paradiso, di fronte alle “sciagure” terrene, decide (con una risicata maggioranza), di offrire un’ultima possibilità al genere umano, prima di un nuovo e “definitivo” Diluvio universale.
Per una serie di imprevisti, l’angelo inviato per depositare nel ventre della nuova “Maria” il Messia salvatore, rende “gravido” il professor Nicola, personaggio greve e narcisista.
Durante questa aberrante gravidanza, si scopre una umanità solidale col nuovo, come aspettativa di speranza e riscatto e si assiste alla metamorfosi di questo Madre/Padre che (pur ignorando di portare in grembo il nuovo Gesù) “sente” in una realtà esistenziale fin troppo fluida, la riscoperta di quei valori che ci distinguono dai parametri e dall’appiattimento dell’intelligenza artificiale (generativa o meno).
L’elemento di maggiore importanza, però, lo si evince nel momento in cui, al parto (ovviamente “cesareo”) viene fuori una bellissima bambina, simbolo della madre da cui sperare di ottenere un nuovo modello di Umanità.
Cari Lettori, ovviamente, il messaggio trasmesso è simbolico e invita a “riconcentrarsi” nell’avere una nuova occasione, prendersi cura del figlio che, ciascuno “è” in potenza: questo è il dono che Dio ci ha concesso. Sta a noi, coglierlo o meno.
Auguri di Buona Vita
ARRENDERMI MAI
Nelle mani di un robot, qui finisce la mia storia d’uomo
Fu per gioco o per follia, quando ad un relè affidai la sorte mia
Io sfidai, finanche Dio, credendo l’infinito fosse mio.
Per questa febbre al buio andavo incontro
Cieco da non vedere che avevo l’universo dentro
Arrendermi, mai, io non voglio arrendermi
Questo corpo è fragile, la mente no
Sogni non ho, io non so di cosa vivrò
Io, guerriero senza storia, un’ombra in cerca di memoria
Arrendermi, mai, io non voglio arrendermi
Non sarò mai un atomo senza volontà
Ritroverò un’altra volta l’amore, il dolore, la pietà, la speranza, la mia età
Il robot è fermo là. L’ho sconfitto e non lo sa, lui ride
Crede di aver vinto già ma, il mio cuore, batte ancora
Vivo, vivo!
Arrendermi, mai. Io non posso arrendermi
Ritroverò intatti i sogni che ho
Il mio cielo, la mia storia, la poesia, la mia memoria
Arrendermi, mai
Io non voglio arrendermi (Come posso arrendermi)
Il mio corpo è fragile, la mente no
Ritroverò qualcosa chiamato amore, il dolore, la pietà
Sono vivo, vedi, sono qua
Difendimi!
Si alzò, con la musica che lo schermava dal resto del mondo, fece due passi; dal mare, i suoi amici, lo chiamavano festosi: “Ego, vieni a fare il bagno”! Ma, lui, provava le emozioni di un bambino che si è perduto nel bosco, con la paura e la voglia di andare avanti. Guardò il tramonto e sussurrò agli amici: “Eccomi, sto arrivando!” (Walter Veltroni – “NOI”)
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per l’affettuosa collaborazione