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Ci sono momenti della storia che ti fanno vergognare di appartenere a questa umanità.  Possiamo accontentarci, pensando di stare, almeno questa volta, dalla parte giusta. Ma a me non interessa stare dalla parte giusta. A me interessa essere uomo. Se ci sono momenti in cui vergognarsi di appartenere a questa umanità, questo è uno di quei momenti. (Don Gaetano Piccolo – Rigantur Mentes)

Cari Lettori, partendo da queste riflessioni di don Gaetano Piccolo (Docente all’Accademia Pontificia di Roma), ci sovviene che, come sosteneva Platone, “le brave persone non hanno bisogno di leggi che dicano loro di agire responsabilmente mentre, le cattive persone, troveranno un modo per aggirare le leggi.”

Il punto è che, però, nell’animo umano di ciascuno albergano paradigmi speculari che oscillano fra il Bene radioso e il Male più buio.

È probabile che, all’interno delle personalità maggiormente equilibrate, ci sia un confronto di equiforze che, di fatto, annullano spunti emotivi particolarmente evidenti.

D’altronde, un Universo che nasce da una esplosione inimmaginabile (il Big Bang) ci rende plausibile il maggiore dei nostri problemi: la gestione dell’aggressività.

Se cresciamo all’interno di un ambiente che ci aiuta a modulare le pulsioni aggressive (con ottime cure maternali; la trasmissione di una accettazione senza condizioni; una capacità di assorbimento delle nostre angosce, restituite alleggerite dalle paure inibenti; l’accompagnamento alla visione adulta della vita, senza legami di dipendenza, etc.) allora tali incredibili forze diventeranno carburante per grandi opere.

In caso contrario (molto più frequente), tutto quello che nei primi “quadri esistenziali” ci farà soffrire, si trasformerà in variabili narcisistiche in grado di raggiungere le vette di quel sadismo che porta a godere nell’infliggere sofferenza o delle sfaccettature psicopatiche di “nazistica” memoria in grado di generare le maggiori atrocità senza significative variazioni  del tono dell’umore

Pur bombardati da notizie di crimini efferati come, ad esempio, quelli di bambini “infornati” vivi durante l’ultimo conflitto israeliano palestinese, siamo rimasti sgomenti di fronte alle immagini di un povero gatto (a cui è stato dato il nome di “Leone”, simbolo di speranza e coraggio) sottoposto a crudele tortura

Nell’agonia di quel “sudario” da una parte abbiamo rivisto la vulnerabilità della nostra condizione di senzienti oltraggiati e, dall’altra (inutile nasconderlo) abbiamo contattato, con orrore (panico, nausea, conati di vomito, etc.) e con meccanismi inconsci e “proiettivi”, la nostra immane violenza potenziale.

Per essere correttamente umani, ci si dovrebbe sentire responsabili di almeno la metà delle brutture i questo mondo (Cit.)

Osservando lo sguardo di questo infermo seviziato mentre cerca disperato aiuto, continuando a fidarsi (nonostante tutto), non solo ci risveglia ogni momento in cui abbiamo chiesto pietà (senza ottenerla) ma, soprattutto, ci sbatte in faccia l’inevitabile frangia di sadica cattiveria di cui siamo intrisi. Con la speranza di quel Perdono che, sembra, lui abbia concesso all’Umano.

Nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stesso. (Gandhi)

E, per quanto strano (e sadico) possa sembrare, la (giusta umana e comprensibile) rabbia che proviamo verso chi commette tali efferatezze, da una parte nasce dal non essere stati in grado di impedirla e, dall’altra, trova alimento nel non  sopportare quella parte di noi che, in quanto umani, è  simile (in maniera “terrificante”) a quella dell’assassino.

Fra noi e il criminale, però, c’è una enorme differenza: quella di essere capaci di inibire gli impulsi peggiori, trasformandoli in altro, anche in opere di bene, come per la trasmutazione del piombo in oro.

La verità è che tutti ti feriranno; tu devi solo trovare quelli per cui vale la pena soffrire (Cit.)

Noi possiamo essere salvati da un minimo comune multiplo che diventa, anche, massimo comun divisore: Qualcuno da amare, per potere essere amati, pur consci del rischio potenziale.

Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza, come nel momento in cui amiamo (Sigmund Freud)

Dai primi istanti di vita, ognuno di noi sperimenta la necessità di abitare il cuore dell’altro e imparare, a propria volta e non senza difficoltà, quanto sia importante aprire il proprio cuore all’altro.

Qualcuno ha scritto che siamo in grado di conoscere la verità non soltanto con la ragione ma, anche, con quel meraviglioso termine che si chiama compassione, una forma di empatia sintonica che implica la capacità di prendere parte alle passioni dell’altro. Siccome nella passione si mescolano il “sentire” e l’agire, la compassione non comprende solo ciò che si sperimenta dell’altro ma, anche, il movimento che spinge verso gli altri.

Cari Lettori, vista questa lunga premessa, ci viene da chiederci se, per caso, la logica troverebbe posto in un discorso d’amore e sull’Amore…

Se con tale termine intendiamo tutto quello che ci riporta ad un freddo pragmatismo, certamente soffierebbe un’aria alquanto “straniera”.

Però, se la derivazione etimologica ci porta indietro in quel tempo nel quale si è tentato di dare un nome a sentimenti ed emozioni, ecco che “Logos” diventa qualcosa capace di connotare i magici e (in gran parte) misteriosi labirinti del Pensiero e dei suoi riferimenti verso quelle Leggi di Natura che rendono “viva” qualsiasi rappresentazione solida, liquida o aeriforme.

Logica quindi, come stella polare capace di indicare i sacri disegni di quell’Inconscio Collettivo riportati, come segno evolutivo, nei nostri codici genetici e che, pur lasciandoci libero arbitrio, servono come i paletti che indicano i confini della carreggiata quando le strade sono nascoste da una coltre di neve.

Il tema è quello che da sempre arrovella l’uomo. L’amore con il “naturale” completamento: qualcuno da amare.

Non siamo certo noi buoni ultimi ad avere la risoluzione del complesso problema.

Cerchiamo, pertanto, di offrire qualche osservazione di “servizio” sulla scorta di chi in epoche diverse ha dedicato al problema riflessioni profonde.

Come fondale può essere di base una chiara e netta affermazione di Platone:

Amante del tutto indegno, volgare è colui che ama più il corpo che l’animo, poiché costui infatti non è costante, preso com’è da cosa che non dura.

Platone considera la persona nella sua totalità e solo amandola in quanto tale potrà entrare vittoriosamente in campo il concetto di durata.

Non bisogna, infatti, passare sotto silenzio che, oltre al concetto di che cosa sia l’amore, c’è (o meglio: vi sarebbe) la necessità di sapere perché l’amore, spesso, finisca, una volta esauritesi le fasi dell’innamoramento. Quali sono, dunque, le ragioni dell’amore? Per riprendere una serie di conversazioni scientifiche proposte all’interno  di questo magazine, in questa sede, sinteticamente offriamo qualche elemento di ulteriore riflessione.

Sembra esserci difficoltà di intesa tra ragione e cuore, quando quotidianamente ci vien di pensare all’argomento. In memoria sempre quanto dice Pascal:

Il cuore ha delle ragioni, che la ragione non conosce

Su questo argomento, Carl Gustav Jung ha annotato:

Se vai dal pensiero, porta il cuore con te. Se vai dall’amore, porta la testa con te. Vuoto è l’amore senza il pensiero, vuoto il pensiero senza l’amore.

D’altra parte, Jung osserva che all’uomo non è dato di amare senza nessun altro fine se non l’amore stesso, senza bisogno di giustificare il comportamento, senza bisogno di promettere nulla.

Jung, che all’argomento ha dedicato nel corso della vita notevole attenzione, ci ricorda, inoltre, che:

L’amore soffre ogni cosa e sopporta ogni cosa, queste parole dicono tutto ciò che c’è da dire, non c’è nulla da aggiungere.

Per lui, noi siamo nel senso più profondo le vittime o i mezzi e gli strumenti dell’amore cosmico: “essendo una parte, l’uomo non può intendere il tutto, è alla sua mercé”.

Qualcuno da amare, dicevamo all’inizio del nostro discorso.

L’affermazione è corretta?

Non per tutti i “grandi”.

Freud, per esempio, afferma che in sostanza l’amore verso “l’altro” non esiste. L’amore è ingannevole in quanto l’amore è sempre narcisistico: io amo, attraverso l’altro, l’immagine di me stesso.

Come dire: amo me stesso attraverso te.

Il discorso è stato affrontato, ai nostri giorni, da Massimo Recalcati che fa tesoro di quanto, il suo Maestro Jacques Lacan, scrisse nel famoso Seminario XX, dedicato all’amore.

Lacan pone la domanda base: l’amore è amore per sé stessi o c’è amore per l’altro?

La risposta è che c’è amore per l’altro. Esiste, quindi, un amore dell’altro.

Le connotazioni dell’amore che ne discendono sono tante.

L’amore è sacrificio? Ci si chiede.

La risposta di Recalcati è perentoria. L’amore non è sacrificio. “Sono io che offro”. Siamo nell’ambito della donazione.

En passant, ci piace ricordare, a tal proposito, una folgorante espressione di Enzo Bianchi:

Nell’amore la gloria è sempre di chi ama.

La soddisfazione dell’amore è amare.

Dire “ti amo” ha una forza radicale.

Nell’amore, certo, c’è sempre una componente “appropriativa”. Io, quando amo, voglio possedere la libertà dell’altro. L’altro (o l’altra) ha la libertà di girare il mondo. Al termine del tour deve registrare che “io” sono il migliore e la vinco su tutti.

Non è questa la sede per approfondire tutto ciò che discende da affermazioni essenziali come queste.

Chiudiamo con quanto esprime, sul tema dell’amore, Guido Cavalcanti nella sua grandiosa canzone dottrinale “Donna me prega “. Altro che medioevo volgarmente inteso.

Grandissima e assai fine analisi.

La visione d’amore è pessimistica. Amore è una forza” ostile “perché molto difficile da controllare e disciplinare.

L’amore non viene, per lui, dalla perfezione razionale ma da quella sensitiva e per questo rende inefficace la ragione. Nelle scelte il desiderio si sostituisce all’intelletto e ciò ci rende” impotenti “.

Amiamo senza avere strumenti per controllare l’amore, che per questo è bellissimo quando ci siamo dentro ma dolorosissimo quando, non per nostro desiderio, ne siamo fuori.

Cari Lettori, forse questo è il momento giusto per fare un po’ di consuntivi e tracciare delle nuove linee guida…

Quanto ci siamo appagati (e, per quanto possibile, ricaricati) in quel lasso di tempo fra il “fermo” e il “buio” della mente (al netto della reclusione pandemica!) e la ripresa degli “affanni”, chiamato Natale?  Quali saranno le problematiche che ricominceranno ad aggredirci, d’ora in avanti?

 “Che ne sanno i giovani dell’amore? Scambiano per tale, un sentimento che potrebbe essere soddisfatto nel più naturale dei modi! Noi no, noi siamo adulti, due coscienze formate.”

Come dare torto a Domenico Soriano che (interpretato da Eduardo de Filippo), in Filumena Marturano, cercava di carpire, a colei che sarebbe diventata sua moglie, il nome di quello che avrebbe potuto essere suo figlio?

Alzi la mano chi non ha mai provato quel sottile retrogusto amarognolo, tipico di chi ha qualche rimpianto inespresso: una mano non sufficientemente tesa, un equivoco da spiaggia.

Un equivoco da spiaggia…

Da ragazzi, l’illusione di un Amore. Da adulti, l’illusione che qualcosa, nella nostra vita, cambierà.

Carl Gustav Jung sosteneva che la “spinta vitale” che esiste in ognuno di noi non contempla l’ipotesi di una “fine totale”. Infatti, tranne nei casi di disturbi significativi, ci spinge a guardare con fiduciosa attesa, al giorno dopo. Questo, sempre secondo Jung, è il modo giusto di affrontare le cose perché quando, invece, per paura, si guarda solo all’indietro, si muore prima del tempo.

Bisogna, quindi, guardare pieni di aspettativa alla grande avventura che ci attende perché questo è, appunto, ciò che l’inconscio vuol fare.

Cosa c’entra tutto ciò con l’amore?

Non c’è felicità nell’essere amati. Ognuno ama se stesso. Amare, ecco la felicità (Hermann Hesse)

Non c’è niente di più sbagliato e, al tempo stesso, di falso nell’affermare che, in tema di sentimenti, siamo sottoposti a forze misteriose che ci governano in maniera irrazionale. Il sentimento infatti, è un’emozione composita in cui, su un elemento frutto di un “razionale naturale” (anche se inconsapevole) si innesta una componente affettiva. 

Il tutto si traduce in una evidenza disarmante ma reale.

Ci innamoriamo di qualcosa (un lavoro, un ambiente, etc.) o di qualcuno provando vivo interesse nel realizzarci attraverso (e mediante) questo “qualcosa” o questo “qualcuno”. Ricambiamo l’opportunità offertaci, mediante disponibilità sentimentale. 

Da qui nasce tutto il resto. 

Amore non è guardarci l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione” (Antoine de Saint Exupéry)

Questo, all’interno di una coppia (di vita, di lavoro, di esperienze in genere…), non vuol dire che uno dei due debba sacrificarsi a favore dell’altro. Vuol dire semmai, che l’uno serve all’altro, in maniera complementare. Vivendo, il tutto, come esperienza formativa. Ecco cosa significa, condividere interessi e obiettivi.

In mancanza di ciò, rovesceremo sull’altro (facendolo diventare il “persecutore designato”) colpe e insoddisfazioni che, invece, sono intrinseche alla nostra esistenza

È per questo che l’amore (in qualunque tipo di rapporto), quando è “intriso di valore”, è tutto carte da decifrare e lunghi momenti da raccontare.

“Vedo questo spazio immaginario di stelle. Fa bene al cuore ma, perché non sia un’illusione, cerco di scrutare quel mare senza più fine, per continuare a camminare verso te. Vorrei afferrare il vuoto che ogni tanto mi afferra, attutire questa guerra che c’è in me…” (Renato Zero)

Nelle notti fredde e scure che ci toccherà attraversare, senza l’aiuto di un Mosé in grado di aprire le acque responsabili di quell’anoressia dei sentimenti che connota il prototipo dell’uomo moderno, sarebbe opportuno tenere a mente che, ogni esperienza traccia una riga che non possiamo evitare. Possiamo scegliere, però, se far diventare questa riga una via maestra o lasciarla come sfregio dell’anima

A questo punto della storia, partendo dalla particolare immagine di copertina, ci sovviene l’appello del giovane Leopardi che, nel lontano 1818, affidava ai suoi coetanei la nostra salvezza

Abbiate pietà di questa nostra bellissima Terra

IO non vi parlo da maestro ma da compagno; non vi esorto da Capitano ma vi invito da soldato. Sono coetaneo vostro e condiscepolo vostro ed esco dalle stesse scuole, con voi cresciuto fra gli studi e gli esercizi vostri. Partecipe dei vostri desideri e delle speranze e dei timori. Abbiate pietà di questa bellissima Terra. E dei monumenti e delle ceneri dei nostri Padri. Fate che la povera Patria nostra, in tanta miseria, non rimanga senza aiuto. Perché non può essere aiutata fuorchè da voi

Cari Lettori, con un po’ di tristezza nell’animo ma, anche, con un po’ di fiducia nell’avvenire, vi lasciamo al sicuro, con i bellissimi versi di Eduardo de Filippo (peraltro, amante dei gatti) che ben rispecchiano l’ultima figura del gatto Leone, a cui chiediamo scusa per il martirio inflittogli e che ringraziamo per averci ricordato il valore della Fiducia e del Perdono.

È notte

È tutto un silenzio questa nottata. Un venticello, da questa sera, sembrava volesse accarezzarmi il viso… e finalmente, da solo… piango! Tu non puoi vedere perché sei lontana… come puoi accorgerti della mia struggente malinconia? Però te lo mando a dire perché tu possa credermi… e se mi credi, allora piangi insieme a me! Scendono, queste lacrime, lentamente, teneramente, dolcemente… e io non faccio nulla per asciugarle. Io grido per farti sentire la mia voce ma tu non puoi sentirmi. Tutto è silenzio… in cielo, quante stelle! Affacciati, anche tu puoi vederle: sono a migliaia. E sai perché sono così belle? Perché stanno lontano, proprio come te! (Eduardo de Filippo).

“La natura della pioggia è sempre la stessa, eppure fa nascere spine nel pantano e fiori in un giardino.”

Auguri di Buona vita

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per l’affettuosa collaborazione

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