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E, che c’eri sempre…

Che c’eri sempre quando tornavo o non tornavo e mi leggevi negli occhi se avevo bevuto, cantato, fatto l’amore o girato per Milano da solo di notte, e aspettavi l’alba per dirmi niente, o forse soltanto “Dove?” E io ti rispondevo: “La nebbia, com’è bello sapere che non si sa dove si è, com’è bella Milano”.

Che c’eri quando hai sopportato il mio morbillo, e con trentanove di febbre recitavo La cavallina storna in delirio.

Che c’eri quando mi scoprivi a studiare di notte e “Adesso basta, ninì”, ti infuriavi e buttavi via i libri, e il giorno dopo me li facevi trovare ricoperti.

Che c’eri quando una ragazza o una ferita, un sorriso come un lampo o una nuvola nera stavano attraversandomi la vita.

Che c’eri a ricopiarmi la tesi, a mettermi una chitarra in mano, a tenere nascosti in un cassetto i miei temi; che c’eri a raccontarmi un’infanzia, quando volevo uccidere Sergio in culla con un nocciolo in gola.

Che c’eri a rifletterti, e chi vuoi che lo sappia, in me, per tutto quello che non avevi mai avuto e potevi, dovevi essere.

Perché ovunque, comunque, in qualsiasi discussione, negozianti, amici, parenti, inesorabilmente finivi a parlare di me.

Che c’eri sempre, anche quando non dovevi esserci, anche quando sei entrata per caso a innaffiare i fiori (che stavano benissimo) mentre baciavo una ragazza.

Che c’eri a ogni mio Natale, a ogni smisurata incoscienza, a ogni amore svanito in profumo, a ogni mia scatola di giochi, solitudine di cui conoscevi le stelle.

Ché tutto questo vento d’immagini e sogni mi viene dal tuo avermi insegnato dolcezza di vivere ad essere buoni, e perfino dire le preghiere che mi sembravano ridicole allora, inutili suoni.

Che c’eri sempre a buttarla sul ridere per ogni presunto dolore. Sempre a chiudere la porta e aprire le finestre.

Sempre a dirmi: “Non dormi? Immagina, inventa, raccontati storie”.

E c’eri sempre anche quando ti scoprivo a piangere la sera e mi dicevi: “È niente, ninì, forse è amore”. Che se ne va. Perché una volta l’hai sognato quell’uomo e lui ha sognato te.

E c’eri alla prima figlia, alla seconda, all’ultimo.

E a ogni pianto.

C’eri a ogni prima stentata canzone.

C’eri alla malinconia e me la lasciavi senza dirmi niente, senza interferire.

C’eri alla cima del monte, all’acqua del mare, all’aprirsi del cielo.

E c’eri sempre anche quando non erano fatti tuoi, che non t’andava mai bene niente, e in tutta onestà un bel po’ di volte mi hai pure rotto, dolcemente, i coglioni.

Ma che c’eri sempre.

È che io, io non c’ero, quando te ne sei andata.

(La vita che si ama, Roberto Vecchioni)

Cari Lettori, è difficile sapere dove vadano le anime quando volano via dalla vita. C’è chi crede che si ricongiungano col Creatore e chi, invece, che rientrino in quel brodo primordiale da cui tutto prende vita. Che, poi, è la stessa cosa.

Ma pensare al Creatore e alle anime nell’alto dei Cieli, forse consola di più perché, in fondo, somiglia a quello che, da piccoli, sentivamo raccontarci la sera di natale…

Il fatto è che, crescendo, ci accorgiamo che il prezzo che paghiamo per la vita che svolgiamo, consiste nel non avere più carburante emotivo proprio  quando, chi è a noi più vicino, avrebbe bisogno di “benzina emotiva”.

Il Sinedrio non voleva processare Gesù; tanto meno lo voleva Erode. E neppure Pilato. Alla fine, fu il Prefetto Romano a rompere gli indugi (Eugenio Scalfari – L’Amore, la Sfida, il Destino)

Il punto è: quante volte riteniamo di somigliare a Barabba, nel momento in cui riusciamo a sottrarci (anche solo per un attimo) alla visione del “martirio” di chi soffre?

Sono quelli i momenti nei quali, di “Giuda”, ci resta il sentimento della “Colpa”, cioè di quella sensazione che ci tormenta l’anima quando nasce il conflitto fra l’amore per gli altri  e l’ancestrale istinto di autoconservazione.

Questa, a ben riflettere, potrebbe essere la “sola”, “vera”, fatica del Vivere.

Perché ci scontriamo con il tentativo di rientrare nella fase simbolica della protezione nell’abbraccio materno e l’istinto di aprirci agli altri (che, gli esperti, chiamano “momento delle relazioni oggettuali”).

Ma, nel momento in cui questo conflitto che agita il nostro inconscio e turba la mente e il cuore emerge alla luce della coscienza, allora c’è speranza che la sofferenza ci induca a crescere e a dare senso alla nostra piccola vita. (Eugenio Scalfari – L’Amore, la Sfida, il Destino)

Sofferenza e Dolore sociale

Il termine “sofferenza” deriva dal latino e si lega con l’immagine di colui che soffre sopportando una pena e, soprattutto, resistendo ad essa.

Con “dolore”, si vuole identificare una sensazione spiacevole, che affligge.

La variante “disperazione”, invece connota uno stato psicologico in cui si è determinato l’allontanamento di qualsiasi speranza.

Il dolore sociale…

Questo tipo di sofferenza colpisce non solo il malato in sé ma l’intero “caregiver”, ossia tutti coloro che gli stanno intorno e che dovrebbero sostenerlo nel “percorso”.

Ebbene, si tratta di una condizione sempre più comune e, spesso, purtroppo, sottovalutata. Il “sollievo”, infatti, non va percepito come un semplice beneficio fisico ma deve comprendere anche una parte psicologica e sociale.

Particolarmente importante è trasmettere l’idea che il dolore va curato dentro e fuori gli ambienti clinici (ospedali, etc.). Intervenire sul “dolore sociale”, infatti, vuol dire anche migliorare l’aspetto clinico.

Cari Lettori, nel caso in cui volessimo porre maggiore attenzione alle notizie che ci investono, quotidianamente, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, finiremmo col concludere che, la Società all’interno della quale viviamo, sia improntata a valori che in realtà nascondono delle diminuzioni di interesse nei confronti del benessere collettivo.

Siamo preoccupati delle varie crisi economiche che periodicamente ci investono, dei disastri ecologici che ciclicamente siamo costretti a fronteggiare, delle difficoltà personali che ogni giorno, in un modo o nell’altro, affrontiamo.

Però, tutto questo ci mette in una situazione in cui c’è chi, forse, “studia” la notte per trovare il modo di crearci i problemi e c’è chi, come noi, subisce questi problemi.

Ma quand’è che percepiamo davvero di essere, tutti, su uno stesso livello?

Quando dobbiamo affrontare delle situazioni particolari che, in realtà, sono molto frequenti. Ad esempio, nel momento in cui ci viene diagnosticato, sul piano sanitario, un disturbo, più o meno impegnativo, nel momento in cui sappiamo che un nostro amico, un nostro congiunto deve affrontare delle problematiche sul piano della salute, sia fisica che psicologica, da cui non si sa come ne verrà fuori.

All’improvviso tutto perde importanza, tutto perde valore.

Tutto cosa?

Tutte quelle informazioni che ci condizionavano e che ci portavano a concludere : “Beh si, noi apparteniamo alla classe degli sfortunati, alla classe che non comanda”. Di fronte a determinate situazioni siamo poi tutti uguali perché, per quanto strano possa sembrare, a determinate condizioni, non è il denaro a far la differenza, perché ci sono delle problematiche per le quali tu non puoi comprare la guarigione.

Puoi tentare di convincere qualcuno a garantirti una migliore assistenza ma, per esempio, non puoi neanche comprare la disponibilità di chi partecipa all’assistenza (il personale sanitario o parasanitario e “affini”): potrai avere il loro corpo, la loro applicazione tecnica, ma non riuscirai ad ottenere la loro dedizione, con i soldi; forse, con altri sistemi, coinvolgendoli in altro modo.

Non abbiamo il diritto di chiederci, quando il dolore arriva <<Perché è successo a me?>> a meno che non ci poniamo la stessa domanda ogni volta che proviamo un senso di felicità. (Cit.)

Ogni anno (dal 2001) si celebra  “la giornata del sollievo dal dolore sociale”. 

Questo evento ha voluto puntare l’attenzione sul fatto che è importante riflettere senza tentare di fuggire per paura, per pregiudizi, da quello che accade, perché è come se noi dicessimo, di fronte a determinate situazioni: “Ma tanto non accade, ma tanto non mi riguarda, poverino, meno male che io ne sono fuori!”

In fondo, farne parte, aiuta a capire come camminare per crescere.

Il dolore è, dunque, quel perno attorno al quale gira tutto: come abbiamo già visto, il dizionario della lingua italiana definisce “dolore” quello stato d’animo che si prova ogni qualvolta siamo costretti a subire un patimento. 

Se tu sei veramente un Medico, sappi che quando curi gli occhi, dietro gli occhi c’è la mente e dietro la mente c’è l’anima e che per curare gli occhi devi capire l’anima (Socrate).

Nel nostro tempo, tanti disturbi hanno ricevuto una descrizione analitica e scientificamente ineccepibile. Per millenni, invece, tanti problemi di salute che affliggono gli uomini man mano che vanno avanti negli anni sono stati genericamente inquadrati in disturbi legati all’età e vissuti con spirito di rassegnazione, una volta preso atto della fragilità e precarietà della vita.

Oggi c’è un nome per ognuno di questi problemi e si spera che una volta individuato ogni  acciacco nella sua specificità si possa ridurre l’effetto negativo di ogni malattia della vecchiaia. Parliamo di ridurre perché l’uomo, essendo per definizione e realtà mortale, potrà sottrarre qualche altro scampolo di vita ma, poi, dovrà abbandonare questa “aiuola” che ci fa tanto feroci.

La malattia di Alzheimer, ad esempio, tra le varietà che ci possono affliggere, è forse la più crudele perché rompe il rapporto tra il malato e coloro che lo circondano e gli sono vicini.

Progressivamente chi è colpito da tale grave malattia entra in un mondo tutto suo e “stacca la spina” dal collegamento affettivo con gli altri.

Apparentemente vive come un tempo ma è progressivamente privato della “memoria”, del “ricordo”; di ciò, insomma, che rende irripetibile e unica ogni esperienza umana.

Chi entra in questa spirale non ricorda o riconosce neanche i suoi cari e, lo strazio maggiore, riguarda proprio i cari che assistono a questo progressivo allontanamento, con la morte nel cuore.

Una cara amica, tempo fa, ci parlava della propria madre, sperdutasi in questa nebbia di amnesia.

Era stata una maestra elementare eccellente per tanti decenni. Aveva insegnato a leggere, scrivere e far di conto a tantissimi bambini (figlia compresa) e, ora, aveva “dimenticato” tutto senza più essere in grado di scrivere neanche una vocale.

Un figlio che parla con un genitore che non lo riconosce più e risponde in modo tutto suo da un mondo “altro” vive un dramma di profondità senza pari.

Non riesce ad alleviare il dolore e a essere in simbiosi con chi si allontana.

Certo, continua a preoccuparsi e a prendersi cura del caro che si è smarrito nelle tenebre ma, ogni incontro, ogni contatto, è uno strazio che uccide dentro.

Seneca, in una lettera a Lucilio, parla di un vecchio che sta in una sua proprietà. Un tempo operoso e aitante, ora è un essere seduto su un muro che sorride a chiunque, senza riconoscere nessuno, tutto perso in un suo mondo.

Seneca se ne rammarica profondamente perché, tramite questo incontro, non solo coglie la brevità della vita ma, anche, lo svolgersi di essa in modi così crudeli.

Soprattutto per chi osserva.

La “preghiera” del Caregiver

“Vorrei potermi sentire libera di aprirmi al mondo per quello che sono, con tutte le mie difficoltà, con tutta la mia incompletezza di essere umano. Con onestà, anche se la verità, a volte, può far male e in alcune situazioni, tacere può servire a proteggere chi si ama. Tendere le bracci, comunque, è la base di ogni rapporto, senza la quale ogni cosa resta alienata dal suo significato più profondo.

Ma, spesso, la paura di ferirsi, di non essere capiti prende il sopravvento… ed ecco che si spegne di nuovo la luce. Poi, però, si scopre che in fondo al buio ci si ritrova ancora una volta con il viso bagnato dalle lacrime, a rigirarsi nel letto cercando una mano, una carezza, un abbraccio che come sempre non c’è… Si soffre comunque…

Allora, vorrei poter diventare quello che in fondo sono ma che ancora non riesco ad essere…”

La solitudine del Caregiver

Caregiver: colei (o colui) che ci riporta alla memoria i primi momenti in cui abbiamo percepito, nitida, la sensazione di essere amati e che, empaticamente, rende vivo il concetto del capire (il dolore dell’altro), per capirsi (domandandosi cosa si prova, in quel momento), per essere capiti (diventando cristallini agli occhi dell’altro).

Almeno per noi, è stato così da sempre. 

Nei racconti della nonna, ad esempio, esisteva per l’infermo, il momento più importante della giornata: l’arrivo del dottore che si sarebbe preso cura… facendo ritornare bambini con la carezza della percussione, l’abbraccio della auscultazione e il dono di una positiva prognosi.

Caregiver: colei (o colui) che si prende cura. Questo termine (cura, appunto) deriva dal latino e significa “osservare, scaldando il cuore” ma, anche, dal sanscrito con la valenza di “saggio”.

La cura diventa, quindi un atto di responsabilità che segue all’osservazione (e all’ascolto) attraverso la trasmissione dell’Amore verso la vita: anche quella che sta finendo.

Che sia “formale” (il professionista formato allo scopo) o “informale” (un familiare, un amico…), il caregiver antepone le attenzioni verso chi soffre, alle necessità personali. E sperimenta la solitudine di fronte alle proprie ancestrali paure di angoscia primordiale: la paura di lasciare andare, la voragine del vuoto emotivo…

Colei (o colui) che aiuta, diventa una specie di castello dagli infissi murati: Trasparenti per mostrare il sorriso e lasciare immaginare il sussurro di tenerezza; Fonoassorbenti, per filtrare il pianto della propria impotenza e dell’angoscia dell’abbandono.

A ben riflettere, ogni qual volta focalizziamo la nostra attenzione, ciò che osserviamo lo vedremo per la prima e ultima volta. Ogni canzone, ogni film, ogni poesia, ogni quadro e ogni emozione conseguente, la sentiremo, lo vedremo, la leggeremo, lo confronteremo con la nostra immaginazione e la vivremo, in maniera unica e irripetibile. Perché non si crea mai la stessa idea due volte di seguito, così come non scorre mai due volte la stessa acqua sotto lo stesso ponte.

Ecco perché dobbiamo imparare a saper osservare la nostra solitudine interiore: solo così potremo “ascoltare” gli Infinitesimi scarti del cuore che, non solo dividono ma fanno diverso il Mondo. Anche e, soprattutto, quello del nostro “Io” più profondo.

La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice. (José Saramago, “L’anno della morte di Ricardo Reis”)

Ognuno di noi “adulti”, in un modo o nell’altro, ha conosciuto il dolore affettivo che consegue all’impossibilità (se vogliamo, “insensata”) di prendere il posto di chi  soffre e, in un modo o nell’altro, una volta asciugate le lacrime, ognuno di noi si è scoperto ad aver delineato dei contorni più appropriati per ciò che concerne il rapporto con la persona di cui ci siamo presi cura: passando dalla non accettazione della situazione, un po’ alla volta, (con una sorta di “speleologia emotiva”) abbiamo imparato a comprendere l’altro e a proteggerlo avvertendo, nel contempo, un’inversione di ruolo genitoriale nel sentirci parte di quella stessa radice che ci riporta in un posto senza tempo perché  “solo nei sogni, gli uomini sono davvero liberi: è da sempre così e così sarà per sempre”.

Cari Lettori, dai primi istanti di vita, ognuno di noi sperimenta la necessità di abitare il cuore dell’altro e imparare, a propria volta e non senza difficoltà, quanto sia importante aprire il proprio cuore all’altro.

Qualcuno ha scritto che siamo in grado di conoscere la verità non soltanto con la ragione ma, anche, con quel meraviglioso termine che si chiama compassione, una forma di empatia sintonica che implica la capacità di prendere parte alle passioni dell’altro.

Siccome nella passione si mescolano il “sentire” e l’agire, la compassione non comprende solo ciò che si sperimenta dell’altro ma, anche, il movimento che spinge verso gli altri.

Nascere, vivere e trapassare, cambiar forma. Che importa, una forma o l’altra. Ogni forma ha la sua felicità e l’infelicità che le è propria. Dall’elefante alla pulce, dalla pulce alla molecola sensibile e vivente, origine di tutto, non c’è punto dell’intera Natura che non soffra o non goda (Il sogno di D’Alambert – Diderot)

Cari Lettori, come l’esperienza ci insegna, il dolore quasi sempre ci regala coraggio perché ci costringe a riemergere dopo che (come nei giochi da bambini, al mare), un evento ci ha spinto sott’acqua in profondità.

E proprio quando temevamo di affogare, per via della spinta idrostatica, invece torniamo al contato con l’aria e, affannosamente, respiriamo la Vita.

E, allora, è proprio vero: “Il Dolore è il gran maestro degli uomini perché, sotto il suo soffio, si sviluppano le anime”

Dimentica una cosa al giorno

Dimentica una cosa al giorno, come i tratti di un disegno, perché devi cancellarlo prima che ti prenda il sonno: quasi dopo tanto tanto amore, madre, non avessi amato mai.

Dimentica una cosa al giorno, l’albero che arrampicavi, l’uomo che giocava il cielo, l’uomo che tu perdonavi, la ferita dell’addio dai figli, madre, una cosa al giorno, sai…

Per non scordarle tutte insieme, tutte all’ultimo minuto, quando il cuore non ce la fa più a reggerle, tenerle tutte lì, e non potrai sorridere così.

Dimentica una cosa al giorno, Napoli, la nostra casa, l’uomo che ti uscì da un sogno, che brillò nella tua ombra, tutto quello che ci hai dato, madree non hai voluto indietro mai.

Dimentica una cosa al giorno, madre, grande lago calmo, prima stella della sera,foglia gialla dell’autunno, vecchio cucciolo all’abbraccio che volevo darti e non ti ho dato mai;

…e se in quell’ultimo momento si sciogliesse tutto il tempo, e tu senza dolore andassi via, io ti terrei la mano nella mia; ma dopo aver dimenticato tutto quello che è passato, come un vento che non soffia più, dimentica, per ultimo, anche me o non potrei dimenticare te

Sempre ti chiamo, quando tocco il fondo, conosco il numero a memoria. So che, a volte, cancelli a qualche fortunato il debito che tutti, con te, abbiamo. Ti prego, quando echeggerà quell’ultimo e dolorante squillo, Dio-per-Dio!   Non staccare: rispondimi!” (Roberto Vecchioni)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la preziosa collaborazione 

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