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C’è un’aria…

Dagli schermi di casa un signore raffinato
e una rossa decisa con il gomito appoggiato
ti danno il buongiorno sorridendo e commentando
con interviste e filmati ti raccontano a turno
a che punto sta il mondo.

E su tutti i canali arriva la notizia
un attentato, uno stupro e se va bene una disgrazia
che diventa un mistero di dimensioni colossali
quando passa dal video a quei bordelli di pensiero
che chiamano giornali.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria…

Ed ogni avvenimento di fatto si traduce
in tanti “sembrerebbe”, “si vocifera”, “si dice”
con titoli ad effetto che coinvolgono la gente
in un gioco al rialzo che riesce a dire tutto
senza dire niente.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria che manca
l’aria,
C’è un’aria, un’aria, ma un’aria che manca l’aria.

Lasciateci aprire le finestre,
lasciateci alle cose veramente nostre
e fateci pregustare l’insolita letizia
di stare per almeno dieci anni senza una notizia.

In questo grosso mercato di opinioni concorrenti
puoi pescarti un’idea tra le tante stravaganti
e poi ci sono le ricerche, tanti pensieri alternativi
che ti saltano addosso come le marche
dei preservativi.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria…

E c’è un gusto morboso del mestiere d’informare,
uno sfoggio di pensieri senza mai l’ombra di un dolore
e le miserie umane raccontate come film gialli
sono tragedie oscene che soddisfano la fame
di questi avidi sciacalli.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria
che manca l’aria.
C’è un’aria, un’aria, ma un’aria
che manca l’aria.

Lasciate almeno l’ignoranza
che è molto meglio della vostra idea di conoscenza
che quasi fatalmente chi ama troppo l’informazione
oltre a non sapere niente è anche più coglione.

Inviati speciali testimoniano gli eventi
con audaci primi piani, inquadrature emozionanti
di persone disperate che stanno per impazzire,
di bambini denutriti così ben fotografati
messi in posa per morire.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria…

Sarà una coincidenza oppure opportunismo
intervenire se conviene forse una regola del giornalismo
e quando hanno scoperto i politici corrotti
che gran polverone, lo sapevate da sempre
ma siete stati belli zitti.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria che manca
l’aria,
C’è un’aria, un’aria, ma un’aria che manca l’aria.

Lasciateci il gusto dell’assenza,
lasciatemi da solo con la mia esistenza
che se mi raccontate la mia vita di ogni giorno
finisce che non credo neanche a ciò che ho intorno.

Ma la televisione che ti culla dolcemente
presa a piccole dosi direi che è come un tranquillante
la si dovrebbe trattare in tutte le famiglie
con lo stesso rispetto che è giusto avere
per una lavastoviglie.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria…

E guardando i giornali con un minimo di ironia
li dovremmo sfogliare come romanzi di fantasia
che poi il giorno dopo e anche il giorno stesso
vanno molto bene per accendere il fuoco
o per andare al cesso.

C’è un’aria, un’aria, ma un’aria…
C’è un’aria, un’aria, ma un’aria…
C’è un’aria, un’aria, ma un’aria
che manca, che manca, che manca
l’aria.

La vita è qualcosa che ti accade quando non riesci ad addormentarti

Fran Lebowiz, è una scrittrice americana che, pur non avendo una produzione feconda, sul piano della quantità, ha mostrato di essere particolarmente fuori dal comune con la sua sagacia condita da tratti di umoristico sarcasmo, al punto da aver ricevuto riconoscimenti da registi del calibro di Martin Scorsese (ma non solo) che le hanno dedicato film e serie televisive.

Cari Lettori, qualcuno ha spiegato che, con il termine “Vita”, possiamo intendere tutto quello che percepiamo e da cui traiamo spunto (attraverso l’esperienza) per individuare aspirazioni, modificare l’ambiente e adattarci a tutto ciò.

Proviamo, per un attimo, a riflettere sul fatto che, secondo studiosi del calibro di S. Freud, l’essere umano mancherebbe di un programma istintuale capace di orientare la sua esistenza nel Mondo e che, proprio su questo “difetto”, prenderebbe corpo il programma dell’Inconscio.

A questo punto, l’affermazione iniziale (di Fran Lebowiz) assume un sapore dai contorni non ben definiti, come quando mastichi qualcosa di nuovo e ti accorgi che, il retrogusto porta con sé un qualcosa che non ti piacerà

La “vita” e il “sonno”

Simbolicamente, due condizioni di cui, la prima, offre la possibilità di essere “attore” oltre che “spettatore” mentre, la seconda, consente solo una dimensione (a volte onirica) in balia dell’inconscio…

E allora, forse, incrociando le riflessioni fin qui partorite, “vivere” porta a scoprire verso dove dirigersi (alla stregua dei migliori uccelli migratori) in relazione al divenire degli eventi, nel rispetto di quel bisogno di non fermarsi mai, tipico di quell’Inconscio collettivo magistralmente spiegato da Carl Gustav Jung, scoprendo che “lutto” e “angoscia” sono due indispensabili “pungiglioni” della psiche che impediscono la tentazione del “sonno”.

Cioè, del ritorno ai momenti percettivi del mondo intrauterino quando, immersi in un lago privo di increspature (il liquido amniotico), sperimentavamo il significato di “paradiso terrestre” dal quale, per Legge di Natura, siamo stati scacciati attraversando il canale del parto (o addormentandoci, in caso di “cesareo”) percependo la prima, vera, angoscia di morte.

Tornando indietro con la memoria “ancestrale”, ritroviamo parecchi altri momenti di angoscia, a partire da quello che P.C. Racamier chiama “Lutto originario” che ci vede protagonisti di una decisione epica: allontanarci simbolicamente dall’atmosfera fusionale materna (pur rimpiangendola per tutta la vita) per scoprire che si può vivere anche senza cordone ombelicale.

Una volta raggiunto il minimo di autonomia funzionale

Bisogna avere il coraggio di cercare la verità, nella realtà, senza la paura della solitudine. (Giovanni Russo)

Abbiamo dato già altre volte, un incasellamento idoneo al concetto di paura: praticamente un allarme ogni qual volta riteniamo di trovarci di fronte a qualcosa che possa diventare o che possa costituire un pericolo.

A queste condizioni, quando ci rendiamo conto di cosa effettivamente sia l’elemento problematico, allora stabiliamo cosa fare…

…a condizione di aver vissuto quella fase chiamata del “rispecchiamento”, in cui nostra madre ci ha donato l’imprimatur di sentirci importanti, pur senza scadere nel controsenso del narcisismo negativo.

In questo modo, il nostro inconscio riesce a gestire le capacità di cio disponiamo. nella maggiore tranquillità possibile.

Di fronte alla paura (cioè, praticamente, di fronte all’allarme che si genera quando incontriamo un pericolo reale o presunto) ci si può comportare in maniera differente a seconda di chi siamo, del momento, dell’ambiente e, ovviamente del tipo di pericolo.

Come appare evidente, alla base c’è sempre una serie di valutazioni da portare avanti: si può reagire aggredendo l’elemento che può costituire il pericolo, fuggendo, riflettendoci meglio, aspettando che il pericolo passi.

Quand’è, che proviamo paura?

In conseguenza di quanto abbiamo sin qui proposto, ogni qual volta noi non riusciamo a vederci chiaro in ciò che ci sta succedendo, sia per ciò che riguarda l’impatto con il mondo esterno, sia anche per tutto quello che concerne ciò che accade dentro di noi.

Da bambino sentivo di essere solo, e lo sono ancora oggi, perché conosco cose e debbo riferirmi a cose delle quali gli altri apparentemente non conoscono nulla, e per lo più nemmeno vogliono conoscere nulla.

La solitudine non deriva dal fatto di non aver nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti, o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. (Carl Gustav Jung – Ricordi, sogni, riflessioni)

Esistono paure innate?

Innato significa “a prescindere da ciò che abbiamo acquisito dalla nostra esperienza”. Allora, si può correttamente affermare che esistono paure connatali cioè, che si determinano nel momento in cui noi veniamo al mondo; esempio calzante è proprio la circostanza del parto: immaginiamo (e sono condizioni che abbiamo vissuto un po’ tutti tranne chi è nato con il parto cesareo per cui, in fondo, è stato addormentato dall’anestetico) la vita relativamente tranquilla di un bambino all’interno dell’utero materno; egli “sente” il calore, il movimento, il dondolio che si determina da tutte le azioni che la mamma porta avanti durante la giornata e non si deve preoccupare nemmeno di azionare i polmoni per respirare.

Dal momento dell’inizio del travaglio di parto si determina una condizione nuova che il nascituro vive in maniera frustrante perché non è a conoscenza di ciò che sta accadendo: l’essere costretto a passare attraverso il canale del parto, un cunicolo stretto e buio.

Quindi le paure nascono con l’essere umano ed a maggior ragione avremo bisogno di trovarci in un ambiente che sarà in grado di rassicurarci, non tanto mettendoci al riparo dalle paure quanto consentendoci di imparare quello che serve per poterle affrontare nel modo più adeguato.

La paura è, com’è noto, una pulsione ancestrale del genere umano, è un impulso ferino ed irrazionale, preesistente ad ogni stadio della civiltà e a qualsiasi forma di cultura e di raziocinio, è un elemento insito nella stato di natura animale ed è riconducibile all’istinto più antico e primordiale di auto-conservazione della specie. (Lucio Garofalo)

Le paure di oggi sono diverse da quelle di ieri e saranno differenti da quelle del futuro. Dobbiamo concludere che le paure ci accompagneranno per sempre?

Il modo di vivere le paure, cambia in funzione delle esperienze cui siamo sottoposti quindi, più usciamo da schemi abitudinari, più diventiamo capaci di adattarci a quello che di nuovo ci viene proposto.

Questo ci consente di fornire alcune brevi indicazioni sull’importanza delle abitudini che rappresentano delle circostanze di vita ben collaudate, all’interno delle quali noi ci sentiamo sicuri e protetti; è un po’ come vivere in un appartamento di cui conosciamo ogni anfratto: potremmo saperci muovere, nel suo interno, anche ad occhi chiusi.

Il limite, qual è?

Non venire a conoscenza di quanto potremmo migliorare quel complesso abitativo e, quindi, finiremmo con il costringerci all’interno di uno schema da cui non evolvere. Il nostro cervello, in fondo, ha bisogno di “andare oltre” perché, in presenza di stimoli ripetitivi finisce con il desensibilizzarsi, in maniera assuefattiva.

Le paure variano a seconda del contesto. L’approccio psicologico da utilizzare è sempre lo stesso?

Fermo restando che sarebbe opportuno analizzare come ci hanno “insegnato” ad avere paura fin da quando eravamo piccoli, il modo di rapportarsi, cambia in funzione delle motivazioni che hanno determinato la reazione d’allarme che chiamiamo paura: a seconda di ciò che ci troviamo di fronte, sarà necessario applicare strategie adeguate.

Adeguate al momento, in funzione di quello che sappiamo esprimere, adeguate all’energia residua, adeguate all’ostacolo, adeguate al contesto (un conto è trovarci al riparo, un conto è trovarci in mezzo alla strada in una giornata di pioggia e di vento), adeguate ad una serie di circostanze che cambiano.

Più diventiamo flessibili e capaci di affrontare gli eventi nuovi, meno paura ci riserverà il presente e il futuro. Meno paura non significa meno interesse; significa, semmai, ridurre quella quota di tensione che, alla lunga, un po’ logora.

Lo colpì il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale senso d’insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto, quell’apatia incolore. (George Orwell – 1984)

Quanto influisce la Società, sulle paure irrazionali?

Il mondo delle paure. Così potremmo definire il nostro tempo, anche se ogni età ha avuto le sue paure, le sue ansie, le sue ossessioni.

Essendo, la nostra, l’epoca della comunicazione di massa a tutto spiano, non dobbiamo meravigliarsi se il “virtuale” domina il reale.

Nel riferire di ogni attività sociale culturale e politica, i media che vanno per la maggiore usano spesso toni drammatici ed allarmistici. Per farsi seguire da una utenza che si interessa solo davanti alle notizie sensazionali.

La solidarietà di trasmette informazione, peraltro, è molto discutibile. Si presentano i drammi della povertà, dei migranti, dei vecchi e bambini come se fossero il centro del mondo e, un istante dopo, si passa ad altro.

L’ascoltatore ingoia tutto e non ha tempo di interiorizzare realmente qualcosa. Resta “fuori di chiave”, indignato e ogni giorno sempre più fastidiato di catastrofi annunciate che per fortuna sono sempre in perifrastica attiva, come suol dirsi: sul punto di verificarsi.

Viviamo, perciò, sotto la spada di Damocle nell’attesa di drammi che dovrebbero verificarsi da un momento all’altro.

Siamo tenuti sotto scacco in una partita, nella quale, le regole del gioco ci sono sconosciute o sembrano, se intuite, cambiare di situazione in situazione.

Il secolo scorso è stato, specie nella prima parte, un periodo di grande ansia e inquietudine.

Quel clima è stato magistralmente rappresentato da Franz Kafka.

Crollate le certezze e i falsi miti ottimistici, l’uomo si è trovato “solo” in un universo infinito e con la constatazione assai amara di non avere un ruolo centrale come, illudendosi, aveva per tantissimo tempo creduto.

Che fare?

Mentre si interrogava, con più o meno consapevolezza, su ciò, il progresso tecnologico portava sempre nuove novità.

La radio e la televisione hanno rivoluzionato il nostro modo di stare ed agire nel mondo.

L’inizio memorabile del catastrofismo è, a nostro avviso, è da collocare nel 30 ottobre 1938 quando, Orson Welles terrorizzò l’America con una trasmissione radiofonica in cui si descriveva l’invasione della terra, da parte degli Alieni.

L’episodio fece cogliere il valore del nuovo mezzo di comunicazione, sotto tutti i punti di vista.

La radio e poi la tv ebbero, alle orecchie e agli occhi di molti, un ruolo basilare: quasi, di certificazione di verità.

“L’ho sentito alla radio, l’ho visto in tv!”

Tantissima gente ha risposto, nei decenni, così a chi invitava alla riflessione e ad esercitare lo spirito critico.

Anche se oggi la situazione è mutata, resta il forte condizionamento catastrofistico, dei media più seguiti.

Cari Lettori, di fatto, la Società è composta da persone che ci influenzano in maniera diretta ed indiretta, perché noi siamo in grado di riuscire a generare qualunque tipo di emozione positiva, conflittuale o negativa in funzione di ciò che sappiamo, in merito all’elemento che ci produce una risposta di tipo emozionale.

È chiaro che, per esempio, un ambiente di persone che “perdono la testa” facilmente di fronte alle difficoltà, ci “insegnerà” a rapportarci in maniera incongrua di fronte agli eventi della vita.

Se, invece, abbiamo la buona sorte (in questo caso, è proprio il caso di dirlo) di crescere accanto a chi sa valutare in maniera concreta, corretta, adeguata, equilibrata tutto ciò che accade intorno, impareremo a saperci relazionare con gli ostacoli, stabilendo il da farsi man mano che si presentano, senza vivere con l’angoscia del futuro.

Perché?

Perché, il Futuro, è tutto ciò che noi incontriamo man mano che procediamo all’interno del Presente, nei confronti del quale impariamo a prendere le misure.

Margherita Hack, nel suo libro “Sotto una cupola stellata” ha spiegato che, tutto quello che esiste nell’Universo trova origine nelle “supernovae” (stelle molto più grandi del sole) che “esplodono” diventando fertilizzante per nuova vita.

Cari Lettori, certi del fatto che l’essere umano possa essere considerato un prodotto dell’evoluzione dell’Universo, capace di portare, in sé, la base potenziale del Big Bang di partenza, vorremmo salutarvi con una bellissima lettera di augurio. Magari da leggere col sottofondo musicale che vi proponiamo, alla fine. Un tuffo in quel mare dal quale proveniamo tutti.

Una fine non è mai tale. È sempre un inizio di qualcosa che ancora non conosciamo. Ma ogni fine d’anno è più banale. Sappiamo già che ci aspetta. Dipenderà da noi tentare di cambiare la tanta prosa quotidiana che tenterà di sommergerci in qualche favilla di poesia. Se riusciremo in ciò, quest’anno avremo la luce necessaria per continuare il nostro faticoso cammino.

La “natura naturans” mi ammonisce benevolmente: ricordati, mi dice, che di primavere ne hai già 77 e molti di questi anni sono stati autunno e una decina, certo, crudo inverno. Sii saggio e sappi che ogni giorno sarà non una saldezza ma, tramite le avvisaglie del corpo, un avvicinarsi all’interruzione.

Lo so, lo so, risponderò, ma lo spirito mi dice di non tener conto di questo e di obbligare il corpo a dare tutto quel che ha.

Non avrò vergogna a raschiare nel barile in cerca degli ultimi fuochi della vitalità.

È una visione amara e folle. Ma chi con precisione certosina è in grado di separare “follia” da “banale normalità”?

Mentre scrivo, sento la campana di Sant’Aniello che chiama a raccolta chi vorrà andare. Da laico non mi sento chiamato ma invitato a riflettere di come sia vasto il pensiero umano in tutte le sue riflessioni e notare che come senzienti siamo arrivati a molto. Solo che dopo il molto che ci hanno consegnato che ci sarà?

Il non saperlo, però, non ci avvilirà. Resterà in noi sempre la curiosità di guardare al di là della ostacolante collina che ogni giorno sporcherà il nostro orizzonte.

Affettuosi auguri (Enzo Ferraro)

Il mondo fa paura ma, in esso, nuotano come in un immenso acquario, betulle, volpi, torrenti di fiori, strade di campagna e case di legno. E, ancora, i concerti di Brahms e i valzer di Chopin. (Jaroslaw Iwaszkiewicz)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la preziosa disponibilità

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