Ogni perdita è un ritorno a sè stessi (A. Jodorowsky)
“Molti di quelli che entrano nei nostri studi, più che di malattie organiche soffrono di disturbi psicosomatici, per via del cambiamento sociale che ha inciso sull’equilibrio di ognuno. L’uomo di ieri, basava i suoi sistemi di vita su valori che davano luce nei momenti difficili e che, oggi, non ci sono più. Ed è per questo che, chi soffre, cerca in noi quella figura su cui poter poggiare in maniera altrettanto ferma” (Mario BONI Presidente FIMMG, Vicepresidente Ordine Medici Roma Segretario FNOMCEO – 1987)
Cari Lettori, il 2 ottobre 1973 debuttava il quarto spettacolo teatrale di Giorgio Gaber. Il “Teatro canzone”, ovvero l’arte creata fra prosa e musica: “Far finta di essere sani”. Centoottantacinque repliche in centoquattro teatri, prendendo le mosse da “una fase un po’ schizoide nella quale il corpo dell’uomo (il suo agire concreto) è assai distante da certi slanci ideali”.
A ben riflettere, ricorda un po’ il passaggio della fase schizoparanoide spiegata da Melanie Klein quando ci viene illustrato il bambino che si accorge del fatto che, il Mondo, non è “assolutamente” buono e, prima di accettare l’esistenza di ogni gradiente comportamentale, si convince di essere stato vittima di un grande inganno. Solo in un secondo tempo, attraverso un sofferto confronto con se stesso, riesce a vedere il buono e il cattivo che sta “intorno” e “dentro” scoprendo che in questo “range” (dal buon al cattivo, appunto) c’è tutta l’esistenza dell’Essere Umano.
Prendendo spunto dalla prefazione di Mario Boni, il rapporto fra salute e malattia passa mediante la visione che, a ciascuno, viene data della propria esistenza.
E andiamo a spiegarci meglio
Nasciamo in quell’abbraccio primordiale che lo spermatozoo cerca con l’ovulo (e, per non andare più via e continuare la propria avventura, rinuncia alla propria coda, simbolo di Libertà).
Ci giochiamo la prima grande opportunità bussando (da embrioni “in progress”), per farci accogliere, alle porte dell’endometrio materno.
Cresciamo all’interno del sacco amniotico: praticamente, una biosfera che ci protegge e ci nutre, avvolgendoci come una seconda pelle.
Sperimentiamo la prima angoscia di morte durante il travaglio del parto e alla nascita, restando senz’aria dopo il taglio del cordone ombelicale ma ritornando in “paradiso” quando ci posizionano sul grembo materno.
Grazie all’efficacia della psicobiogenetica delle cure maternali (che ci faranno sentire più o meno protetti e tranquillizzati) ci apriremo al mondo con una relativa fiducia.
Ci rispecchiamo nella Mamma (che, per noi, è come Dio Creatore del Cielo e della Terra) ogni volta che, quest’ultima, ci osserva e rivede in noi il suo essere stata bambina…
Le voltiamo le spalle sbattendo la porta per, poi, riabbracciarla in una dimensione di maggiore maturità (sperimentando quello che gli esperti chiamano “il lutto originario”)
Viviamo l’incontro con un Padre (o chi per lui) interdittivo del quale finiremo con l’apprezzarne il modello educativo
Sbatteremo il muso con i turbamenti dell’adolescenza durante la quale contesteremo le figure genitoriali ma sopravviveremo in maniera proporzionale all’ordine che avremo acquisito proprio da loro
Proveremo a diventare degli adulti portando dentro delusioni e ferite (cause di angosce, dubbi e turbamenti) …
A questo punto della storia si appalesa la vera differenza (iniziata, ovviamente, molto tempo prima)
Veramente “sano” non è semplicemente colui che si dichiara tale, né tanto meno un malato che si ignora come tale…
Veramente sano è un soggetto che conserva in sé i limiti della maggior parte della gente e che non ha ancora incontrato difficoltà superiori al suo bagaglio affettivo e alle sue facoltà personali difensive o adattive…
Veramente sano è colui che si permette un gioco abbastanza elastico della ricerca del piacere e del senso di responsabilità, sia sul piano personale che su quello sociale, tenendo in giusta considerazione la realtà e riservandosi il diritto di comportarsi in modo apparentemente aberrante in circostanze eccezionalmente “anormali”. (Jean Bergeret)
Il fatto è, che non basta essere privi di una malattia fisica manifesta per potersi definire in buona salute… perché bisogna “conquistare” uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale
Si… ma per farne cosa?
L’esperienza ci insegna che ciascuno di noi dovrebbe essere in grado di identificare e sviluppare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, modificare l’ambiente e adattarvisi.
Conoscere se stessi, quindi, per potersi “parlare”, “capire” e “agire” rimettendo in gioco quella curiosità che ci ha guidato fin da bambini.
Credo di essere innamorato della curiosità in se stessa. Non mi accontento mai, la mia mente non è mai ferma. Amo il fatto di essere nato curioso e sono convinto che a tutti sia stato dato il medesimo dono, che poi è il senso dell’essere longevi. Più anni abbiamo a disposizione più possiamo imparare e conoscere” (Umberto Veronesi)
Ma qual è la realtà percepita?
Ci si illude di poter godere di una salute illimitata e che la medicina sia in grado di risolvere ogni problema. I medici prospettano soluzioni straordinarie e così i pazienti pretendono miracoli.
“Paradossalmente, nonostante uno straordinario miglioramento delle conoscenze, ci troviamo in uno stato di maggiore incertezza e di minore soddisfazione”, denuncia ildott. Marco Bobbio, nel libro Il malato immaginato (edito da Einaudi).
Aumenta la coscienza individuale e collettiva sullo stato di salute, ci si informa sempre di più e questo porta molti a percepirsi come malati anche quando non lo si è affatto.
E, secondo dati dell’OMS, quasi un miliardo di persone nel mondo convive con un disturbo mentale. Vero o presunto che sia.
Per contro, questi anni di pandemia hanno lasciato un segno pesante per ciò che concerne il confronto col quotidiano…
“Anche la salute mentale, non solo quella fisica, è a rischio a causa della pandemia di coronavirus. L’isolamento, la paura, l’incertezza, le turbolenze economiche hanno gravemente colpito la salute mentale e il benessere di intere società e sono una priorità da affrontare con urgenza” (Devora Kestel, direttrice Dipartimento Salute Mentale Oms)
Dal malato immaginario al malato immaginato.
Trent’anni fa Henry Gadsen, allora direttore della società farmaceutica Merck, dichiarò: “Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Ci permetterebbe di vendere a chiunque”.
Argante, il malato immaginario di Molière, si lamenta di disturbi psicosomatici, ingigantiti dalla moglie bramosa dell’eredità, dal medico curante e dal farmacista, soddisfatti dei lauti guadagni.
Il malato immaginato, invece, è quello che oggi i medici, l’industria dei farmaci e degli strumenti diagnostici si aspettano che sia: una persona più preoccupata del suo futuro che del suo stato attuale, una persona che cura una malattia che forse non gli capiterà mai, una persona che si sottopone a esami per scoprire qualcosa che non gli creerà problemi, una persona ansiosa di prolungare la vita.
Anche se, questa vita, non avrà nulla da offrire, sul piano della qualità!
Non a caso, lo psichiatra Alan Barsky già più di una ventina di anni fa scrisse (richiamando inconsapevolmente le conclusioni del collega Mario Boni) che “ci deve essere qualcosa che non funziona se una persona, quando non ha alcun problema, va a farsi visitare da un medico!”
Il dolore non è altro che la sorpresa di non conoscerci (Alda Merini)
La paura di “continuare”
Cari Lettori, una delle situazioni che, maggiormente, ci creano stati di angoscia controversa è quella di chi decide di chiudere anzitempo i propri occhi alla vita…
Forse un brusco risveglio dall’aver creduto di essere sani, forse la voglia di ricongiungersi con l’elemento di partenza da cui, tutti, proveniamo; forse la consapevolezza di non poter contare su un affetto importante; o, forse, l’insostenibile pesantezza di un lutto originario mai metabolizzato…
Ci si abbraccia per ritrovarsi interi (Alda Merini)
Noi crediamo che sarebbe il caso di rompere il velo che ci separa da questo “tabù”.
Nella prospettiva psicoanalitica, Freud propone di considerare il suicidio come un omicidio mancato, perché la nostra “scatola nera” la nostra “coscienza nucleare organizzata”, l’Io, può uccidersi solo quando riesce a trattare se stesso come un oggetto e, quindi, dirige in maniera prorompente verso l’interno l’aggressività che non è in grado di dirigere contro ciò che desidera ma, a torto o a ragione, non riesce ad ottenere (il cosiddetto “oggetto libidico”).
Il suicidio ha, certo, motivazioni personali e psicologiche ma una influenza sociale non è trascurabile.
Emile Durkheim (siamo sul finire dell’Ottocento), da raffinato e acutissimo Filosofo e Sociologo, senza ignorare le ragioni intime e personali, afferma che il suicidio è un fatto sociale a sé stante.
In una Società che si avvia a diventare di massa, il singolo in difficoltà è destinato ad essere trascurato dai vittoriosi dominatori del progresso e a soccombere.
Parecchi vinti finiranno per vivere ai margini della Società; tanti di essi, fatta una velocissima analisi della propria esistenza, decidono di abbandonare questo teatro del falso ottimismo e ingannevole progresso prendendo, anzitempo, congedo dalla vita.
Il poeta non dorme mai ma, in compenso, muore spesso. (Alda Merini)
Il prof. Alfonso Traina, nell’analizzare l’ultima produzione poetica di Giovanni Pascoli (inizi Novecento) fa delle considerazioni che ci sentiamo di condividere.
Il “Poeta” viveva come se una catastrofe imminente dovesse, da un momento all’altro, sconvolgere la sua vita.
Avvertiva in modo drammatico la condizione di essere un punto infinitesimo in un universo infinito del quale, oltretutto, era difficile cogliere un senso.
Il cosmo classico, immenso ma finito, resta ancora un cosmo a “scala umana”.
Lo rimarrà fino a Copernico.
Alla stregua del rapporto fra il bambino e la mamma non più “assolutamente buona” ma, per ragioni fisiologicamente educative, “sufficientemente buona”, la poesia pascoliana riflette proprio la distruzione di un cosmo per millenni rassicurante e il contraccolpo psichico di questa distruzione.
Nella poesia “La vertigine” leggiamo: “Qual freddo orrore pendere su quelle lontane, fredde, bianche, azzurre e rosse, su quell’immenso baratro di stelle”.
Primo Levi pose fine alla sua vita terrena l’undici aprile del 1987, gettandosi dalla tromba delle scale della sua casa, a Torino.
Come Levi scrisse a proposito di Jean Amery (anche egli un deportato morto suicida):
Nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato.
A suo tempo, qualche critico cercò di capire come mai Primo Levi avesse “resistito” tanti anni, dopo il ritorno dal lager.
Levi stesso, scrivendo tante opere per denunciare e aiutare noi stessi, nell’opera “I sommersi e i salvati”, ha un tarlo che lo rode.
Vede il dono di raccontare ciò che aveva vissuto e patito quasi come “un dono avvelenato”.
Lo scrittore, negli ultimi mesi, aveva smesso di prendere gli antidepressivi (per motivi medici). Sarà stata, questa, una causa scatenante? Non lo sapremo mai.
Ricordiamo le parole di Cesare Pavese, nel prendere congedo dalla vita:
Se possibile, non fate tanti pettegolezzi.
Chi resta, davanti al suicidio, vuole a tutti i costi dimostrare di non essere responsabile dell’(in)sano gesto
I “vivi”, infatti, non possono campare sapendo che avrebbero potuto, se sensibili, essere di aiuto e non l’hanno fatto.
Per questo, con il bisturi della ragione, ci si assolve e si contribuisce a uccidere il suicida una seconda volta.
Il tema del suicidio è centrale, anche, in una delle Operette morali più importanti di Giacomo Leopardi: “Il dialogo di Plotino e di Porfirio.”
Il maestro Plotino ha fiutato che il discepolo Porfirio è in grande crisi esistenziale e teme il peggio. Al termine di un dialogo acuto e serrato, Plotino é costretto, come è noto, a ricorrere ad argomenti sentimentali, amicali e sociali pur di indurre ildiscepolo ad astenersi dal suicidio.
Siamo, comunque, in una situazione particolare dove si analizza, a livello filosofico, se si possa interrompere la propria vita.
Oggi tutto è più drammatico.
Non siamo davanti al grande gesto con funzione politico – pedagogica (si pensi al suicidio di Seneca).
In una società caotica di massa, ognuno sta solo con suo dramma e il suo tormento ed è, come cantava Quasimodo, subito sera.
Io, la vita l’ho goduta perché mi piace anche il suo frequente aspetto infernale. Per me, la vita è stata bella perché l’ho pagata cara. (Alda Merini)
Cari Amici Lettori, avvicinandoci alla conclusione di questo editoriale e prendendo spunto da quanto già scritto in un altro lavoro, vorremmo potere osservare che, anche se si mettono in atto meccanismi di “difesa dell’IO” (come, ad esempio, quello della negazione della realtà, quando si ha paura di affrontarla) sarà comunque importante ricordare che, ogni Essere Umano, rappresenta un Astro Nascente
Oltre che bella, sul piano dell’immaginario poetico, l’affermazione sopra riportata costituisce il vero, fondamentale, assunto cui potersi ispirare nelle scelte della Vita.
Si impara a vivere, quando si impara a morire (Alda Merini)
Infatti, dopo quello che gli Scienziati chiamano “Big Bang”, man mano che le enormi temperature (dovute all’esplosione del Buco nero da cui è nato l’intero Universo) hanno iniziato a diminuire si sono costituite le prime “Stelle”, cioè, sferoidi luminosi di Plasma (gas ionizzato) in grado di generare energia (grazie alla fusione nucleare) che viene irradiata sotto forma di radiazioni elettromagnetiche, particelle elementari (“vento stellare”) e neutrini.
Sostanzialmente, il resto dell’Universo è venuto da lì (con tutto quello che la Biologia ci spiega) e, noi, abbiamo mantenuto la stessa strutturazione atomica capace di generare enormi quantità di energia, sintonizzata con l’entità di partenza (la stella).
Ecco perché quando, inquieti e alla ricerca di qualcosa di più delle “semplici” abitudini quotidiane, ci scopriamo a desiderare di uscire dal “gregge” del già vissuto, veniamo a trovarci di fronte ad un bivio esistenziale: da una parte la strada, molto battuta, delle emulazioni compensative del sociale (che finisce per omologarci riducendo la necessità dell’introspezione); dall’altra, l’ispirazione di quello che viene dalle Leggi di Natura che possiamo ritrovare fermandoci un attimo a sentire le emozioni che si provano a guardare il cielo stellato (infatti “desiderio” viene dal Latino “siderare”, guardare le stelle).
Se è vero che, in noi, c’è il bambino che cerca rassicurazioni e che vuole sentirsi dire che tutto andrà bene, è un dato di fatto che, nell’Ipotalamo dovremmo avere ciò che serve per geolocalizzarci con quanto c’è di vero, logico e reale.
Arriverà un giorno, ha detto Merlino, in cui capirai che Tutto l’universo vive dentro di te. Allora sarai un mago. Come mago non vivi nel mondo, il mondo vive dentro di te. Quando questo accadrà inizierai a manifestare invece di attrarre. E capirai che non ti manca nulla, solo non hai ancora visto dentro di te ciò che stai cercando tanto…..
E allora, come andrà a finire?
Saremo, finalmente, liberi di esprimerci secondo i nostri potenziali, o dovremo “scimmiottare” stereotipi facendo finta di essere sani (credendo cioè, di essere “originali” pur massificati in uno standard sociale)?
Cari Lettori, per quel che ci riguarda, abbiamo deciso di riflettere (per farne tesoro) su questa massima di Pablo Picasso:
Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla. Ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole.
Far finta di essere sani
Vivere, non riesco a vivere
Ma la mente mi autorizza a credere
Che una storia mia, positiva o no
È qualcosa che sta dentro alla realtà
Nel dubbio mi compro una moto
Telaio e manubrio cromato
Con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani
Far finta di essere sani
Far finta di essere insieme a una donna normale
Che riesce anche ad esser fedele
Comprando sottane, collane e creme per mani
Far finta di essere sani
Far finta di essere
Liberi, sentirsi liberi
Forse per un attimo è possibile
Ma che senso ha se io sento in me
La misura della mia inutilità
Per ora rimando il suicidio
E faccio un gruppo di studio
Le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani
Far finta di essere sani
Far finta di essere un uomo con tanta energia
Che va a realizzarsi in India o in Turchia
Il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani
Far finta di essere sani
Far finta di essere
Vanno, tutte le coppie vanno
Vanno, la mano nella mano
Vanno, anche le cose vanno
Vanno, migliorano piano piano
Le fabbriche, i grattacieli
Le autostrade, gli stadi comunali
E vedo bambini cantare
In fila li portano al mare
Non sanno se ridere o piangere e batton le mani
Far finta di essere sani
Far finta di essere…
“Appartenere a qualcuno significa entrare con la propria idea nell’idea di lui o di lei e farne un sospiro di felicità”. (Alda Merini)
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la preziosa disponibilità
Direttore Responsabile “La Strad@” – Medico Psicoterapeuta – Vicedirettore e Docente di Psicologia Fisiologica, PNEI & Epigenetica c/o la Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID (Roma/ Bologna) – Presidente NEVERLANDSCARL e NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS (a favore di un invecchiamento attivo e a sostegno dei caregiver per la Resilienza nel Dolore Sociale) – Responsabile Progetto SOS Alzheimer realizzato da NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS – Responsabile area psicosociale dell’Ambulatorio Popolare (a sostegno dei meno abbienti) nel Centro Storico di Cosenza – Componente “Rete Centro Storico” Cosenza – Giornalista Pubblicista – CTU Tribunale di Cosenza.
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