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IL CONTATTO FISICO

“Il contatto fisico: la nostra prima forma di comunicazione. Sicurezza, protezione, conforto: tutto nella dolce carezza di un dito o di due labbra che sfiorano una guancia morbida. Ci unisce quando siamo felici, ci sostiene nei momenti di paura, ci emoziona nei momenti di passione e di amore. Abbiamo bisogno di quel tocco dalla persona che amiamo quasi come abbiamo bisogno di respirare. Ma non ho mai capito l’importanza di quel tocco, del suo tocco, fino a quando non ho potuto più averlo. Quindi, se state guardando questo video… e vi è possibile… toccate lui, toccate lei: la vita è troppo breve, per sprecarne anche solo un secondo”

Stella Grant è una ragazza affetta da fibrosi cistica che trasmette nei social, il suo bisogno di sentirsi viva, a prescindere da quello che dice la “Scienza”. Condivide le sue emozioni con Will, di cui è innamorata, ricambiata.  Diversissimi tra loro, condividono lo stesso problema, che li costringe ad amarsi mantenendo una distanza di almeno due metri (un metro per ciascuno) per evitare di trasmettersi germi pericolosi.

Ma, lei, caparbiamente, decide di riappropriarsi di un po’ di tempo e di spazio, negli incontri col suo amato e accettando il rischio, lo avvicina a sé di un metro creando, quindi, la “sola” distanza di un metro l’uno dall’altro.

Avendo scoperto che la terapia non potrà aiutarlo, Will si allontanerà da Stella per evitare di contagiarla e dandole, così, la possibilità di continuare a esistere, grazie al trapianto di polmoni.

Cari Lettori, crediamo che, per entrare nell’universo degli adolescenti e dei giovani, in generale, traendo spunto dalla loro disponibilità all’aiuto, in questi giorni “alluvionali”, non ci fosse nulla di meglio di questo inizio a così forte impatto emozionale, partendo da “A un metro da te”, del 2017.

Cosa provano i “nostri” ragazzi?

Cosa pensavamo, quando è stato il nostro turno di essere “giovani”?

Se è vero che Platone sosteneva che “di tutte le bestie selvagge, un ragazzo è la più difficile da trattare” è altrettanto vero che, prima di esprimere un  punto di vista, sarebbe necessario comprendere i pensieri e i sentimenti di chi ci sta di fronte.

Questo, è facile solo a parole…

Perché, provandoci scopriremmo che un’operazione oltremodo difficile.

Eppure, anche nel caso che ci riuscissimo, per provare ad uscire dal nostro narcisismo, dovremmo operare una rivisitazione delle conclusioni raggiunte.

Solo “decentrati” da noi stessi e centrati sull’altro possiamo veramente metterci in gioco evitando una falsa oggettività che sarebbe, in realtà, un condizionante distacco che ci porrebbe al di fuori dall’interazione.

Solo così, l’osservazione diventa un “dialogo” di  vera comunicazione.

Questo, quindi, ci dà la misura della commozione nel verificare la presenza, tra i soccorritori degli sventurati colpiti da piogge e esondazioni di questi giorni, di più giovani di quanto avremmo potuto mai immaginare condizionati, dal nostro sciocco pregiudizio di volerli tutti persi dietro il monitor degli inutili “social” o, peggio, smarriti dietro un bicchiere di birra o in una nuvola di “fumo”…

Evidentemente siamo, tutti noi (chi più chi meno), assoggettati a quello che, la Psicoanalisi, chiama “Proiezione”.

Tutte le persone incontrate nella vita che hanno un potere di fascinazione su di noi, sono in realtà parti scisse di noi stessi che abbiamo rimosso e che ci sono riportate indietro. (C. G. Jung)

Cari Lettori, se vogliamo ridurre questa specie di (auto)inganno, percettivo dovremo analizzare accuratamente ogni forma di suggestione che proviamo osservando e ascoltando l’Altro, il diverso da noi.

Ci renderemo a poco a poco conto che, lungo il cammino della vita, non facciamo che incontrare sempre di nuovo noi stessi, sotto mille travestimenti. (C. G.Jung)

Nei momenti cruciali della vita di ciascuno, sembra di pilotare le scelte ma l’esperienza ci insegna che, piaccia o meno, accade di lasciarsi trasportare dalla corrente verso ignote destinazioni.

Chi ha tratto beneficio dall’esperienza, ha spesso scoperto il beneficio dell’affidarsi senza regole, a lasciarsi portare.

So che c’è una forza che sa dove condurci: essa ci porta esattamente là dove dobbiamo realizzare il nostro divenire. (C. G. Jung)

Gli “angeli del fango”

Questa “densa” espressione pare sia stata coniata, nel 1966, durante l’alluvione di Firenze, dal critico cinematografico Giovanni Grazzini, che la usò in un memorabile articolo sul Corriere della Sera.

Da allora,  identifica i giovani che si impegnano con forte partecipazione, nel rendersi utili in momenti di grande bisogno.

Nel 1966, il mondo poté vedere molti dei “noi di allora”, provenienti da ogni dove instacabili nel salvare dal fango opere d’arte che, senza interventi tempestivi, sarebbe andati irrimediabilmente perduti.

Una autentica solidarietà globale di fronte ad una catastrofe naturale.

Sola, la notte, nel deserto letto, ripenso a come vissi i miei vent’anni: chiudevo sogni e versi in un cassetto e facevo, di loro, i miei tiranni, (Alida Airaghi)

In quei giorni capimmo, prima di iniziare a contestare tutto, nel 1968, che l’umanità del futuro, non sarebbe stata la stessa se avesse perso opere d’arte di grande valore, testimonianza di quel passato da cui ciascuno proviene e che, ognuno, porta in sé. per l’immaginario di tutti.

E poi, in quale recondito anfratto del Destino sarebbe possibile ritrovare quelle tracce di vita? Dove siamo andati a finire?

L’uomo avrà quarant’anni e i capelli da ragazzo. In mezzo al cortile tiene l’anima per sé (Ivano Fossati)

Forse, a parlare del Tempo, del vento che spazza via illusioni e speranze. Forse a sognare il mare e i viaggi che non abbiamo mai portato a termine…

Il punto è, però, che il Tempo non sta seduto a mettere i numeri in colonna e, quindi, quando a un acuto dolore segue una ancor più acuta malinconia, ci è rimasto, nelle orecchie, solo il fischio dei treni in partenza o quello, più sofferente e suggestivo, dei bastimenti che imbarcavano speranze…

È questo il problema del dolore. Esige di essere sentito. (Augustus Waters)

Al Benedetto Croce e alla sua convinzione che il primo dovere dei giovani fosse quello di invecchiare al più presto, ci sentiremmo di rispondere che, non accettando di ascoltare nei giovani di oggi la protesta che abbiamo soffocato in noi, niente ci salverà la vita: respiriamo aria in prestito.

Noi. Padri di noi stessi

Cari Lettori, la Psicoanalisi ci impegna a confrontarci con quel particolare (e, a volte, simbiotico) legame che si genera con la propria madre

A furia di scendere nel mondo dell’introspezione, fin dagli anni sessanta abbiamo capito che saremmo potuti andare oltre la soglia fatidica che ti fa passare da figlio a genitore e, con essa, potere andare “oltre” la mamma portandoci, dentro, i suoi insegnamenti.

Col proprio Padre, però, è tutta un’altra storia.

Non abbiamo mai provato, veramente, a conoscerlo. Forse perchè lo abbiamo considerato un intruso, nel rapporto fra madre e figlio?

In verità, probabilmente perché credevamo di avere tempo, ritendo, lui, “immortale”.

E, nel tempo, abbiamo capito che il padre, non è colui che sostiene l’illusione di un ideale invincibile ma, semmai, chi “risponde” al buco dell’angoscia esistenziale, rendendosi “umano” di fronte all’immanente come esempio di “dio” fatto “uomo”, disponibile al Sacrificio.

Noi, testimoni del Tempo…

Molto è iniziato nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso con la contestazione giovanile mescolata anche alle forti proteste per la guerra americana nel Vietnam.

Fu sempre in quegli anni che ebbe grande risonanza il modo di “agire”, in Italia, di quel Padre putativo che fu don Lorenzo Milani, con la “Lettera ad una professoressa”, insieme ai suoi ragazzi di Barbiana.

Preoccuparsi della educazione, del saper stare al mondo in modo autentico, divenne momento prioritario.

I care, si diceva: Me ne importa, mi sta a cuore.

Ecco, cosa ci siamo persi, a chiudere al Padre che è in noi, le porte dell’interiorità.

Eppure abbiamo imparato da lui a non fermarci mai. Al tempo stesso, lo abbiamo sfuggito, e cercato. Ne siamo rimasti delusi ogni volta che ha ferito il nostro orgoglio.

Come conseguenza delle sue paure.

Qualcuno ci ha spiegato che, pregare, avvicina all’incontro con l’impossibile da dire e che, elaborare seriamente il lutto del Padre, significa accettare tutta la sua eredità (di idee, di emozioni, di sentimenti), compreso quello che di lui, ti ritrovi, dentro.  

Allora, forse, noi figli, siamo quella preghiera che avvicina all’impossibile da dire.

Ma, da Padri, dopo aver contribuito alla “evaporazione” della nostra Funzione, come (forse) ultimo atto di dignità, cosa potremmo dare ai figli di oggi, speranza e certezza dell’avvenire e del relativo presente?

Duri ma friabili “come grissini al primo imbocco” (cit. Vincenzo Andraous), il prodotto dei nostri errori ma, anche, dei sogni che ancora battono nel cuore, forse hanno bisogno del nostro esempio.

Stella Grant, con cui abbiamo inteso iniziare questo lavoro, può benissimo rappresentare il prototipo del ragazzo che, orfano di figure genitoriali autorevoli, percepisce che la cosa più naturale del mondo, inspirare, diventa la più difficile.

Scopre, di fatto, che gli alveoli non hanno la necessaria autonomia, se il cordone ombelicale è ancora simbolicamente in funzione.

Cara Stella, ci piacerebbe raccontarti che, nell’Universo, ogni particella, ne ha una gemella che porta, però, una carica elettrica opposta. È come se, entrambe fossero monche e fuori equilibrio. Infatti, si cercano, si incontrano… e raggiungono una sorta di equilibrio perfetto, scomparendo in un “lampo” di luce.

Cara Figlia, vorremmo confessarti la nostra impotenza rispecchiandoci nei tuoi occhi che cercano certezze.

La verità è che, qualunque sia il momento del distacco abbiamo stati d’animo che ci inducono a soffrire. Quando siamo troppo piccoli e impauriti per capire cosa sia accaduto realmente, lo siamo anche per comprenderne la portata, in termini di abbandono. Nel momento in cui, invece, dovremmo essere abbastanza adulti da reggere l’urto, siamo nella condizione di rivivere, con dolore, tutto ciò che è stato e quello che avrebbe potuto essere…

Cari Lettori, solo in momenti del genere si può arrivare a capire che i modi, a volte bruschi dei padri che avemmo (e e che abbiamo provato a diventare) richiamavano quel verso di ebraico biblico, che, erroneamente, abbiamo sempre inteso come “Vattene!” mentre invece, significavano “Vai verso te stesso”.

Forse, è questo il sacrificio paterno: rendere adulti i propri figli, donandosi “nudo” come stimolo per ricercare la via di mezzo, fra la Legge e il Desiderio.

Cara Stella, possa, questo atto di coraggio (vestito della nuda appartenenza al nobile genere Umano) accendere in te, la scintilla di una concreta maturità, aiutandoti a diventare esploratrice della vita, senza la paura del buio dell’Universo.

Il giorno dell’abbandono. 

Cara Stella, anche grazie a figli come te riduciamo la paura dell’impatto. Che non sarà un distacco ma, semmai, l’istante perfetto in cui cogliere il senso di ogni cosa.

Se riusciremo, finché durerà, a restare uniti per scoprire, ogni giorno, quello che siamo e non solo il ricordo di come eravamo; se sapremo donarci l’un l’altro senza programmare chi sarà, a muovere il primo passo… questo dimostrerà il nostro Amore. E, allora, la distanza fra noi, potrà scendere bene al di sotto di un metro.

E non sarà stato un peccato, aspettarsi tanto!

Cari Lettori, abbiamo provato (non senza fatica) a ricucire idealmente lo strappo fra i figli che siamo stati e i genitori che (forse) non siamo mai veramente diventati. La speranza è che i giovani di oggi continuino a diventare migliori di noi.

Affinché, un giorno, possano dire: Noi credevamo. E avevamo ragione.

Cari Lettori, vorremmo ringraziarvi di averci accompagnato fino a queste ultime righe, condividendo con voi la visione e l’ascolto della colonna sonora di “A un metro da te”: poco più di tre minuti che ci toglieranno il fiato di fronte al coraggio di quei giovani da cui scopriamo tutto ciò che non siamo riusciti ad essere. Fino in fondo.

Combatterò per te.

Lotterò, lotterò per te

Lo faccio sempre fino a che il mio cuore è in frantumi

E io starò, io starò con te

Ce la faremo ad arrivare dall’altra parte come fanno gli amanti

Allungherò le mie mani nel buio e

Aspetterò che si congiungano con le tue

Ti aspetterò, ti aspetterò

Perché io non mi arrendo. Non mi arrendo, non ancora

anche quando esalerò il mio ultimo respiro

Anche quando diranno che non c’è più niente da fare

Quindi non arrenderti

Io non mi arrendo

E mi aggrapperò, mi aggrapperò a te

Non importa cosa questo mondo lancerà

Non mi farà mollare

Allungherò le mie mani nel buio

Aspetterò che si congiungano con le tue

Ti aspetterò, ti aspetterò

Perché io non mi arrendo

Quindi non arrenderti

Lotterò, lotterò per te

“È difficile dimenticare chi ti ha dato molto da ricordare” (Hazel Grace Lancaster)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la collaborazione

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