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“…giunto alla fine dalla mia vita che cosa mi ritrovo tra le mani? Se trovo solo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato non sarà gran cosa. Ma potremmo trovare ben di più, ben di peggio. Ogni vita non vissuta accumula rancore verso di noi, dentro di noi: moltiplica le presenze ostili. Così diventiamo spietati con noi stessi e con gli altri. (…) La vita che è stata perduta, all’ultimo, mi si rivolterà contro. Perciò, l’ultima cosa che vorrei dirle, mia cara amica, è che la vita non può essere, in alcun modo, pura rassegnazione e malinconica contemplazione del passato. E’ nostro compito cercare quel significato che ci permette ogni volta di continuare a vivere o, se preferisce, di rispondere, a ogni passo, il nostro cammino. Tutti siamo chiamati a portare a compimento la nostra vita meglio che possiamo”. (Carl Gustav Jung)

Cari Lettori, vi è mai capitato di valutare quante persone, intorno a noi, si “lascino vivere” piuttosto che tentare di “attivarsi a vivere”?

Sembra di trovarsi in un’epoca in cui, lottare per un obiettivo importante, sia qualcosa che appartiene ad un passato ormai lontano.

La Natura, maestra indiscussa di vita, avrebbe tanto da insegnarci se solo noi avessimo l’umiltà e la pazienza di apprendere. Sin dalla notte dei tempi, ad esempio ogni creatura appartenente al mondo animale o a quello vegetale ha dovuto sempre lottare per conquistare i propri spazi.

Non si capisce, allora, come mai, oggi, la musica debba essere diversa! I sociologi e gli psicologi hanno utilizzato fiumi di parole per riempire migliaia di pagine sull’argomento, nel tentativo di offrire le proprie conoscenze in tale direzione.

Le conclusioni a cui si è pervenuti, francamente ci lasciano un po’ perplessi. Infatti, si è attribuita questa passività dell’individuo ad un fenomeno socio culturale postmoderno!

Pensiamo, forse peccando di presunzione, che la nostra epoca offra lo smarrimento più assoluto dovuto all’appannamento del ruolo di centralità dell’essere umano. A riprova di quanto asseriamo rimane il fatto che l’uomo ha imparato a cercare fuori da sè, attraverso l’identificazione e l’emulazione. Madre Natura ci ha spiegato ampiamente che, queste due vie, non conducono ad una giusta crescita attraverso una corretta ricerca e, perché no, ad un convincimento dei propri mezzi: insomma, consapevolmente o inconsapevolmente troppo spesso si giunge all’erronea conclusione che l’altro sia meglio di noi!

Un tempo non era permesso a nessuno di pensare liberamente. Ora sarebbe permesso, ma nessuno ne è più capace. Ora la gente vuole pensare ciò che si suppone debba pensare. E questo lo considera libertà. (Oswald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente”, 1918-1923)

Ed ecco che, in situazioni non chiare, si affaccia al balcone esistenziale l’essere umano presuntuoso, “l’io so tutto” per intenderci, che è, comunque, vittima illustre della propria fragilità e della propria insicurezza in quanto “narcisista bambino”.

E si, infatti, colui che sa di sapere, o, meglio, chi afferma di sapere, tenendo un atteggiamento fastidiosamente spavaldo verso il mondo esterno, nella realtà del suo mondo interiore, (al quale non può sottrarsi) è come un bambino indifeso di fronte all’orco cattivo: ha, soltanto, una dannata paura!

A questo punto, ci sovviene il pensiero della psicologa Edith Eger, secondo cui “non possiamo cancellare la sofferenza, non possiamo cambiare ciò che è accaduto, ma possiamo scegliere di trovare il dono nelle nostre vite. Possiamo perfino imparare ad apprezzare le ferite”.

L’ombra più scura si trova dietro la candela. (Proverbio Ungherese)

Cari Lettori, comunque la vogliamo pensare, pur con i suoi inevitabili traumi, dolori, sofferenze, malattie e morte la vita è, comunque, un dono che, noi, “sabotiamo” ogni volta che ci “rinchiudiamo” nelle nostre paure di punizione e di fallimento e ogni volta che ricerchiamo l’approvazione degli altri.

Celebrare il dono della vita significa trovare il dono in tutto quello che accade, anche nei momenti difficili, quando non siamo certi di poter sopravvivere. Celebrare la vita, punto e basta. Vivere con gioia, amore e passione. (Edith Eger)

Cari Lettori, in questa Società dove ogni cosa è “spettacolarizzata” in maniera da non consentirci più di capire dove termina la fantasia e inizia la realtà e nella quale tutto viene vissuto come l’alimentazione di un bulimico il quale, purtroppo, non riesce ad assaporare nulla di quello di cui si nutre, finiamo col celebrare eventi e ricorrenze senza consapevolizzarne i motivi e “percorrendo” giorni sempre uguali nell’angosciosa attesa della fine di tutto.

La Festa del lavoro (o, meglio, dei lavoratori) nasce a Parigi il 20 luglio del 1889 come idea lanciata durante il congresso della Seconda Internazionale (indetta dai partiti socialisti e laburisti europei).

La scelta della data non è casuale: il 1° maggio del 1886, una manifestazione operaia a Chicago era stata repressa nel sangue. A metà del 1800, infatti, l’orario di impegno (meglio dire “sfruttamento”) lavorativo era mediamente di 16 ore al giorno e senza il riconoscimento dei più elementari diritti.

Questa iniziativa diviene, di fatto, il simbolo delle rivendicazioni operaie e, ancora oggi, la data del Primo Maggio, in molti Paesi (compresi Cuba, Russia, Cina, Messico, Brasile, Turchia e i Paesi dell’Unione europea) è considerata festa nazionale. Curiosamente non lo è, invece, negli Stati Uniti dove preferiscono festeggiare (sempre il primo maggio) il “giorno della lealtà”. In Italia tale ricorrenza, abolita dal fascismo nel 1923, è stata rispristinata nel 1947.

Parlare del Primo maggio non è un fatto rituale come pensa più d’uno, ma un dovere che tocca tutta la complessità della nostra vita.

Il lavoro è l’attività basilare dell’Essere Umano che, tramite di esso, si realizza nella sfera del Sociale arricchendo, nel contempo, anche la propria vita personale e familiare.

Partiamo dal fatto che non tutti riescono a trovare un lavoro, riducendosi a vivere in condizioni che poco hanno a che fare con la dignità che gli si dovrebbe riconoscere.

È, questa, una piaga che non si riesce ad estirpare o, forse, neanche si vuole affrontare realmente.

La Costituzione parla chiaro: L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Grande affermazione che, a distanza di decenni, per parecchi suona come una bella espressione che pare non riguardare tutti.

Non devono esserci poveri e non c’è peggiore povertà di quella che non ci permette di guadagnarci il pane, che ci priva della dignità del lavoro. (Papa Francesco)

La pandemia ha cambiato modo di lavoro e posto problemi nuovi di non facile risoluzione

Lavoro, agognato lavoro, dove sei?

È l’argomento di ogni giorno, è il tema base della vita.

Il nostro Paese dovrebbe ripensare attentamente tutto il problema.

Non si tratta, inoltre, di creare soltanto nuovi posti di lavoro ma di creare lavoro in condizioni di sicurezza.

Invece, purtroppo, ogni giorno siamo costretti a registrare (nella nostra mente sempre più “traumatizzata”) incidenti e decessi di chi, per riuscire a vivere ha, invece, incontrato la morte.

I giornali titolano: “Morti sul lavoro. In fabbrica come in trincea”.

Il bello è che si celebra pure la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro ma, come teme Marco Patucchi, “sarà la solita fiera della retorica e degli impegni sbandierati da politica e istituzioni”.

Nel 2022 nel nostro Paese i morti di lavoro sono stati 1090 e quasi 700mila gli infortuni.

Nei primi mesi del 2023 siamo quasi a 200 e a oltre 86mila incidenti.

Sono cifre sconvolgenti e riferiti ai dati ufficiali INAIL. Numeri certo minori di tutti gli incidenti che avvengono perché non comprendono il tanto lavoro irregolare, che è un mondo vasto e a sé.

Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo. (Adriano Olivetti)

Il lavoro!

Quanti, pur di lavorare, accettano condizioni umilianti, in assenza di un regolare contratto e subendo angherie di ogni genere?

Dietro ognuno di quei numeri c’è una tragedia familiare, sofferenze e dolori non quantificabili in modo aridamente materiale.

Mio fratello è stato assunto a tempo indeterminato! Finalmente lo vedrò tornare a sorridere. Sto piangendo lacrime di gioia e non riesco a smettere. Assurdo come ci hanno ridotto… dovrebbe essere una cosa normale e invece sembra una vincita al Superenalotto. (Anomis2003, Twitter)

Per questo, il Primo Maggio è, nello stesso tempo, una giornata di festa e di lotta.

È un giorno in cui ricordare quanto sangue è costato il veder finalmente riconosciuto un diritto basilare. Ma è anche una giornata in cui prendere coscienza che molto resta da fare e per questo è anche giorno di impegno e di lotta.

Il lavoro è figlio del proprio tempo.

I progressi scientifici e le grandi novità informatiche, se non ben gestiti, diventano ulteriori schiavitù per l’uomo semplice che vuol lavorare.

Ad esempio, da qualche anno si parla sempre più spesso (anche in sentenze) di “caporalato digitale”, un tema oggetto di convegni ed inchieste.

Cioè…

Per lavorare nel delivery alimentare, ogni fattorino ha bisogno di creare un account, con documenti e identità digitale in regola.

Per parecchi degli aspiranti è l’entrata in un territorio ignoto, dove è difficile muoversi senza aiuto. E l’aiuto arriva ma non è disinteressato. Entrano in azione gli intermediari, che si fanno carico delle procedure in cambio di una percentuale. Sono, appunto, i “caporali” che gestiscono pacchetti di centinaia di rider.

Una volta inseriti nel circuito, si prende atto di essere esposti non solo a rischi fisici ma di essere entrati in un meccanismo perverso.

L’alternativa…

Sosteneva Carl Rogers che uno dei sentimenti più gratificanti sorge dall’apprezzare un individuo nello stesso modo in cui si ammira un tramonto. Perché si può essere meravigliosi quanto la visione del sole che sparisce all’orizzonte, se ci lasciano essere così come “dovremmo” essere. Senza troppi condizionamenti

Quando osservo un tramonto, come facevo l’altra sera, non mi capita di dire: “addolcire un po’ l’arancione sull’angolo destro, mettere un po’ più di rosso porpora alla base e usare tinte più rosa per il colore delle nuvole”. Non lo faccio. Non tento di controllare un tramonto: ammiro con soggezione il suo dispiegarsi. (Carl R. Rogers)

E ci possono inculcare tante di quelle paure che, alla fine, saremo ricondotti alla preoccupazione di non fare (o di non essere in grado) di riuscire in ciò che ci eravamo proposti. 

O, peggio, in quello che gli altri si aspettavano da noi!

Un professore concluse la sua lezione con le parole di rito:

“Ci sono domande?”

Uno studente gli chiese:

“Professore, qual è il significato della vita?”

Qualcuno, tra i presenti che si apprestavano a uscire, rise.

Il professore guardò a lungo lo studente, chiedendo con lo sguardo se era una domanda seria. Comprese che lo era.

“Le risponderò!”

Estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, ne tirò fuori uno specchietto rotondo, non più grande di una moneta. Poi esclamò:

“Ero bambino durante la guerra. Un giorno, sulla strada, vidi uno specchio andato in frantumi.  Ne conservai il frammento più grande. Eccolo. Cominciai a giocarci e mi lasciai incantare dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove il sole non brillava mai: buche profonde, crepacci, ripostigli. Conservai il piccolo specchio. Diventando uomo finii per capire che non era soltanto il gioco di un bambino, ma la metafora di quello che avrei potuto fare nella vita. Anch’io sono il frammento di uno specchio che non conosco nella sua interezza. Con quello che ho, però, posso mandare la luce, la verità, la comprensione, la conoscenza, la bontà, la tenerezza nei bui recessi del cuore degli uomini e cambiare qualcosa in qualcuno. Forse altre persone vedranno e faranno altrettanto. In questo, per me, sta il significato della vita!” ( “Solo il vento lo sa.” di Bruno Ferrero)

Cari Lettori, il bello di ogni tramonto è che c’è, sempre, una nuova alba. Per ogni cosa che accade c’è una motivazione e, soprattutto, una soluzione.

Per quanto strano possa sembrare, infatti, l’Universo è un “sistema chiuso” in cui, qualsiasi azione (che è sempre, di per sè, il risultato di altre azioni) determina reazioni che metteranno in moto dei meccanismi al cui termine, si raggiungerà, in un modo o nell’altro, un equilibrio costituito su basi migliori di quelle degli equilibri precedenti

In pratica, è come se il “Sistema Natura” proponesse problemi come quesiti per la cui risoluzione basta saper trovare le spiegazioni che sono state previste. E nascoste.

Il motivo?

Come succede quando, a scuola, somministrano test, verificare la preparazione e stimolare a migliorare, attraverso lo studio e la riflessione.

Socrate sosteneva che “la ricerca del significato dei momenti della vita, partono dalla ricerca del sé perché ciascuno vive quel momento con quello che ha dentro”.

Già, ma se, dentro (ovvero, dentro noi stessi), non abbiamo nulla, come facciamo a vivere quel momento?

Anche se, come sosteneva Zygmunt Bauman, l’introspezione è un’attività che sta scomparendo perché si ha sempre più paura della propria solitudine (“Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro”), per poter vivere bisogna conoscersi ma, per conoscersi bisogna indirizzarsi al dialogo profondo con se stessi, attraverso il corretto pensare.

Ecco spiegata la frase iniziale di questo editoriale.

La vita ha due doni preziosi: la bellezza e la verità. La prima l’ho trovata nel cuore di chi ama e la seconda nella mano di chi lavora. (Khalil Gibran)

Cari Lettori, non è facile porre un termine adeguato a un argomento così importante e, al tempo stesso, delicato come quello che su cui ci stiamo confrontando, insieme a voi, in questo editoriale.

Abbiamo pensato di accomiatarci con un abbraccio, attraverso il discorso finale del Film “il Premio”, diretto e interpretato da Alessandro Gassmann con la straordinaria partecipazione di Gigi Proietti che, con il ruolo di un anziano scrittore (insignito del premio Nobel per la letteratura) riuscirà a impartire una ultima, memorabile lezione di vita

IL PREMIO (DISCORSO FINALE)

Di solito i vincitori non sono mai così interessanti, le loro parabole si assomigliano tutte. Hanno sempre a che fare con l’uso dei superlativi, cori di adulatori, narcisismi prevedibili.

La vita è certamente più difficile per chi non salirà mai su un podio, ma non per questo rinuncerà a viverla.

E a ben vedere, è proprio negli affanni del quotidiano di un’esistenza “normale” che si misura il senso più autentico del nostro cammino comune.

Un uomo che cade, offre la possibilità di tendergli una mano.

Colui che cerca una strada, la possibilità di aiutarlo a trovarla.

E così noi, tutti noi.

A seconda delle circostanze, siamo colui che cade e la mano che lo afferra. Quello che cerca una direzione, e il dito che gliela indica.

Nessuno basta a sè stesso.

Scendere dal podio…spostarsi dal centro della scena è il primo antidoto contro gli orrori della storia.

Ogni premio, riconoscimento individuale non ha senso, se non è frutto di una condivisione.

…Ogni vita, si sa, è piena di sventure, ma anche di infinita bellezza.

E, il nostro, non può che essere un gioco di squadra.

“Nel dare forma alla nostra vita, siamo la stecca da biliardo, il giocatore o la palla? Siamo noi a giocare, o è con noi che si gioca?” (Zygmunt Bauman)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

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Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Eugenio Filice per la segnalazione del Film “Il Premio” e ad Amedeo Occhiuto, per la preziosa collaborazione,

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