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La prima pubblicazione di questo articolo risale al 9 maggio 2015. Viene riproposto riveduto e arricchito, come spunto per riflettere su una delle difficoltà che condizionano negativamente la propria esistenza.

BUONA LETTURA

Avrei voluto salutarti meglio… sai che non sono bravo negli addii. Avrei potuto essere migliore… ormai è fatta, perdonami . Sai, prima il tempo non passa mai poi, d’improvviso, non ce n’è più. Ed ogni gesto ha un altro peso… Ed ogni cosa un valore. Questa canzone è per te: è un regalo piccolo, lo so; tienla sul cuore con te, quando sarò lontano. Avrei voluto insegnarti cose che, ora, da sola imparerai. Avrei voluto vederti crescere, guardar sbocciare un fiore. Questa canzone è per te, è un regalo piccolo, lo so; tienla sul cuore con te, quando sarò lontano. Avrei voluto vederti amare uno qualsiasi meglio di me. Avrei e voglio… ti voglio dire… Tu non sai quanto mi mancherai! Questa canzone è per te. È un regalo piccolo, lo so; tienla sul cuore con te. E non sarò mai lontano. ( La mia canzone per te – Stadio)

Perché, a volte, non ci sentiamo all’altezza, ci sentiamo fuori posto, praticamente “sbagliati”?

La vita è un palcoscenico sul quale, però, non sono ammesse prove! (Arthur Miller)

Sostengono i migliori interpreti di teatro che, a fine rappresentazione, si guarda di fronte, verso quella massa informe, scura, inespressiva, “mostruosa” che si chiama pubblico e, finché non arriva l’applauso, ci si sente come costretti su una sedia da cui si avrebbe voglia di fuggire dimenticandosi il maglione sulla spalliera ( e sentendosi, per questo, un po’ più “nudi”) senza avvedersi del fatto che, comunque, si resta legati ad essa da una corda (che rappresenta quei condizionamenti narcisistici che portano a cercare l’assenso del “carnefice”): si può solo correre in direzione opposta a quella da cui viene la luce, quella luce che impedisce di osservare chi si ha di fronte e che ingigantisce (con le proprie ombre) la percezione del pericolo, facendo sentire sempre più inadeguato rispetto all’ostacolo.

Ecco, allo stesso modo, tutti noi, per retaggi infantili (che iniziano fina dalle braccia della propria madre mentre ci allatta e ci osserva), in fondo “sentiamo” di recitare una parte, con la paura di dimenticare le battute e col timore di non rendere mai, per come vorremmo. L’alternativa è quella di provare ad essere dei cani sciolti, senza un padrone e, spesso, senza un “perché”.

Il “senso di inadeguatezza” è sempre un “disturbo” o può anche rappresentare una manifestazione di responsabilità?

Rifacciamoci al concetto di adeguamento che prevede il riuscire a rapportarsi rispetto al mutare degli eventi, soprattutto del mondo esterno. Ci si può adeguare, o adattandosi o subendo. Esiste una differenza importante fra adattamento e adeguamento.

Adattamento, deriva dal latino “Ad – aptare”, che significa, accomodare, aggiustare convenientemente. Il termine adeguamento viene dal latino “ad equare”, cioé, rendere equo, pareggiare i conti, a qualsiasi condizione. Con subire, invece, si intende il costringersi ad andare a forza verso qualcosa, anche a costo di danneggiarsi in maniera sostanziale. Mentre l’adeguamento, quindi, prevede la necessità di far fronte ai cambiamenti (richiesti dal mondo esterno) “ad ogni costo”, anche subendo, l’adattamento, invece, consiste nel realizzare le migliori condizioni (all’interno di sé) per rispondere alle mutazioni ed alle richieste che provengono da “fuori”, realizzando continuamente nuovi equilibri interiori che riducono gli scombussolamenti relativi alle modifiche delle proprie abitudini di vita.

In conclusione, possiamo affermare che ogni specie animale o vegetale ha necessità di adeguarsi al mutare degli eventi e delle condizioni ambientali, per poter sopravvivere: questo può avvenire riuscendo ad adattarsi (e si vive bene) oppure subendo gli eventi (e si producono sofferenze).

L’alternativa consiste nel restare emarginati.

Napoli, 1963, set di Ieri oggi e domani. Mille persone che urlano affaccendate nelle molteplici attività che animano, ogni giorno, tutti i vicoli della città partenopea. “Qui è Vittorio de Sica” – immediatamente mille persone tacciono – “Dovrei girare una scena del mio prossimo film con la signora Sophia Loren e il signor Marcello Mastroianni. Avrei bisogno di tre minuti di silenzio”. Tono suadente, carismatico, autorevole. “Motore. Ciak in campo. Azione!” Secco, lapidario, imperativo. I due recitano. “Stop. Grazie”. Mille persone all’unisono: “Prego”. Nessun’ombra di ironia.

Questo stesso uomo, così sicuro di sé nel lavoro, mostrava profonda inadeguatezza e sensi di colpa nella gestione della propria vita privata, resa complessa dal dover reggere il peso morale (cosa difficile oltre misura per lui, uomo dell’ottocento) di due famiglie: una “ufficiale” con la moglie Giuditta Rissone (da cui ebbe la figlia Emi) e l’altra “ufficiosa” con Maria Mercader (da cui ebbe Manuel e Christian). Il peso della responsabilità circa l’incongruità dei suoi comportamenti, lo ha portato a generare, tra l’altro, un disturbo ossessivo compulsivo verso il gioco d’azzardo, in cui ha dilapidato il proprio patrimonio. Ovviamente, per avere la chiarezza necessaria a capire e comprendere tutte le sfaccettature di un così importante personaggio, bisognerebbe considerare i “Modelli Operativi Interni” (cioè, il modello educativo) che hanno creato, entro il termine della sua adolescenza, un tipo di “organizzazione” di personalità con un funzionamento secondo il criterio di “genio e sregolatezza”

Quindi, il senso di inadeguatezza, pur generando un’alterazione del tono dell’umore (un disturbo, quindi) connota lo stato di colui che avverte il peso di una responsabilità. D’altronde, secondo il dizionario della lingua italiana, responsabile è colui che è conscio di dover render conto a se stesso e agli altri dei risultati e delle azioni relative agli impegni assunti.

A queste condizioni, il senso di inadeguatezza, facendoci percepire la necessità di diventare migliori, ci fa ridurre la presunzione di essere all’altezza. In conseguenza di ciò, il rimettere in discussione determinate certezze, non può che trasformarci in persone alla ricerca della verità. Senza paura di osservarla e “affrontarla”.

Il senso di inadeguatezza è legato alla paura, in particolare, alla paura di essere rifiutati o giudicati negativamente dagli altri?

Un artista che disvela, lentamente, il proprio capolavoro. Questa volta il pubblico lo abbiamo alle spalle. Il riflettore illumina la ribalta, il sipario è aperto, la scena è sua!

Effettivamente, a ben riflettere, qualunque cosa facciamo, per noi è un capolavoro, nel senso che è il termine di una applicazione complessa. Anche quando non ci piace (e spesso accade che, quando siamo in disaccordo con noi stessi, non ci piace) allora non possiamo fare a meno di concludere che era il massimo che potessimo realizzare in quel momento.

A volte, certe volte, vorremmo distruggerla quell’opera: quando è un quadro, quando è una statua ma, quando è un’azione che ha determinato delle reazioni, magari non espresse ma pensate, come facciamo a tornare indietro? Non c’è un reset, non c’è un telecomando che ci consenta di riiniziare in un’altra dimensione, (quanto meno non ci è dato di saperlo), per cui possiamo soltanto continuare ad andare.

E che cosa accade?

Accade che, molte volte quell’uomo che sta scoprendo il quadro può avere due stati d’animo.

Il primo: sta svelando pian piano quello che ha disegnato per aumentare l’interesse di coloro che stanno osservando, i quali non vedono l’ora di ammirarlo per intero;

il secondo: può essere indeciso nel compiere quel gesto che “svelerà”.

Perché?

Perché teme anzitutto se stesso. Poi, ovviamente, resterà influenzato dal giudizio altrui. Il voltare le spalle al pubblico non è soltanto un segno di paura… è quasi come se volesse tastare ciò che ha realizzato per rendersi conto se effettivamente le emozioni che creava mentre dava vita a quell’opera sono le stesse, o saranno addirittura migliori, man mano che si “apre” alla vista di quell’opera. Per i motivi già accennati, e per il fatto che, tra la fase creativa (elaborativa) e quella realizzativa, esiste una sorta di “imbuto” che trasforma le idee in azioni, difficilmente resterà soddisfatto.

Quanto incidono una personalità rigida ed una scarsa autostima sul sentirsi inadeguati?

Questa volta non siamo sul palcoscenico di un teatro ma, probabilmente al centro di un’arena, dentro un circo. E c’è un domatore… e c’è un gattino che crede di essere un leone. Non a caso dietro, lo sfondo è bianco… su quel fondo bianco possiamo immaginare qualsiasi cosa.

Il signore guardingo, forse tenta di domare anche la sua presunzione, oppure le sue paure di non essere all’altezza della situazione. Quella del gatto che immagina di essere un leone è un’immagine che si utilizza anche nei corsi che puntano all’aumento dell’autostima.

Ma c’è un grande rischio, però!

Con questa “illusione allo specchio” si finisce col creare una condizione di iperstima sganciata dalla realtà. Siccome i due estremi, il complesso di superiorità e il complesso di inferiorità fanno parte dell’espressione di un carente sviluppo del processo maturativo…

Allora, dove sta la verità?

Ecco, quel domatore avrebbe potuto essere ognuno di noi che tentava di domare quel leone che in realtà era un gatto (magari impaurito). Ma è possibile che, in realtà, volesse provare a tenere sotto controllo ogni emozione? La propria emozione?

Rigidità e senso di inadeguatezza

Più noi siamo poco disponibili, non a metterci in discussione (perché quando dobbiamo agire c’è poco da discutere, c’è da realizzare, c’è da concretizzare) quanto, piuttosto, a pensare che dobbiamo e possiamo fidarci di noi, ecco che diventa estremamente complesso attivare il comando che poi darà vita all’intera azione; nel momento in cui una persona dichiara di trovarsi in difficoltà nel mostrarsi in pubblico, bisognerebbe chiedergli: “Ma sono gli altri a crearti inibizione o sei tu che ti aspetti tanto da non poterti e non volerti consentire di sbagliare o di metterti alla prova?”

E a quel punto si dovrebbe aggiungere: “Non angustiarti più di tanto perché, in fondo, se una cosa la sai non devi far altro che lasciarti andare; hai costruito nel tempo delle strategie mentali per lo più di tipo inconsapevole, allora fidati delle tue capacità! Se non sei disponibile a fidarti di un complesso (quello che governa il mondo inconsapevole) che viaggia a velocità altissima, come puoi fidarti della tua capacità di consapevolizzare e razionalizzare quel complesso di cose che, nel tuo sistema nervoso viaggia a velocità molto più bassa?”

Il senso di inadeguatezza “colpisce” più i giovani o gli adulti? Una simile situazione, può generare depressione o stati di ansia?

Quando pensiamo a qualcosa, impariamo o proviamo ad imparare qualcosa, ci troviamo in una condizione di difficoltà perchè temiamo di non essere in grado di saperla esprimere compiutamente. Più i giovani o più gli adulti a sentirsi inadeguati? Quanti adulti (che una volta sono stati giovani “dentro”) dichiarano di aver voluto chiudere con lo studio perchè non riuscivano a fare entrare nella propria mente, più alcunché?

E’ una sensazione che parte, inconsapevolmente e presuntuosamente, da un presupposto errato: generare delle preoccupazioni che riguardavano la capacità di esprimere il risultato di una preparazione, senza ancora aver terminato il processo di apprendimento specifico e, quindi, in definitiva, ben prima di poter creare la preparazione che cerchiamo evidenziare!

Probabilmente questo è un elemento che accomuna giovani e adulti, adolescenti e no. Probabilmente non c’è un’età in cui il senso di inadeguatezza non viene generato o percepito. Questo, in fondo, è un augurio perchè, il sentirsi inadeguati è l’unico momento in cui noi percepiamo di dover trovare una soluzione.

Secondo lo psichiatra Ferdinando Pellegrino l’autoefficacia è la chiave del successo, come spiega nel suo nuovo saggio Personalità e autoefficacia: come allenare ragioni ed emozioni. In media, infatti, abbiamo tutti la stessa intelligenza: il problema è che non la utilizziamo tutti allo stesso modo. Il talento non è genetico, ma frutto di una costante applicazione. La valutazione classica del quoziente intellettivo dimostra che quasi la metà delle persone ha lo stesso livello di intelligenza: il 46% va dai 90 ai 109 e soltanto l’1% arriva a livelli tra 120 e 139. Si tratta di valori che, pare, non aumentano né diminuiscono con l’età: ciò che varia, in ogni fase della vita, è semplicemente l’utilizzo che ne facciamo.

Sostiene lo psichiatra Pellegrino: “Spesso l’intelligenza fallisce perché, pur potendo vivere bene, molti scelgono modalità disfunzionali, dal fumo alle droghe, complicandosi l’esistenza e perdendo di vista gli obiettivi fondamentali. In questi casi viene penalizzata la creatività e il talento. L’autoefficacia è un preciso atteggiamento mentale che spinge a dare il meglio di sé in ogni circostanza, unendo gli aspetti cognitivi e quelli emotivi. Accanto alla razionalità, infatti, si devono utilizzare le emozioni; sbaglia chi le considera un ostacolo al progredire della ragione. Il livello di soddisfazione del presente è un indice importante per misurare la salute psicologica. Bisogna, inoltre, rafforzare l’autostima, il che presuppone l’accettazione di se stessi; solo così si affrontano i compiti difficili come sfide da vincere piuttosto che come pericoli da evitare”.

Probabilmente, alla lunga, ci stanchiamo perchè, quando ci attiviamo, generiamo stress. Ogni mattina, quando apriamo gli occhi, svegliandoci, connettiamo la parte inconsapevole a quella consapevole, contestualizzandola nel tempo e nello spazio. In pratica, in una frazione di secondo, è come se innescassimo un processo di auto apprendimento che ci consente di ricordare chi siamo e cosa abbiamo fatto fino a quel momento. Maggiore è la nostra “intensità qualitativa”, maggiore è il flusso di informazioni che dobbiamo veicolare nella nostra coscienza “spazio temporale”.

Giovani, meno giovani…

Più passa il tempo ma, soprattutto, maggiore è il flusso in termini qualitativi di emozioni che si vanno a produrre, più impegno ci vuole per connettersi con ciò che siamo. È vero, il tempo serve per renderci migliori, il prezzo che paghiamo per renderci migliori è la necessità di doverci attivare maggiormente. Forse quando sentiamo di aver raschiato il fondo del barile (il nostro barile), oppure quando il mondo esterno non ci mette nelle migliori condizioni operative, dopo un pò, dopo un bel pò, probabilmente vorremmo non attivarci più, vorremmo prenderci una pausa, vorremmo uscire da questa nostra storia.

E quando qualcuno, ascoltandoci, crederà di trovarsi al cospetto di un depresso, proviamo a rispondergli: “Forse con quello che dico, ti faccio vibrare quelle corde del tuo animo che ti fanno paura. Non preoccuparti perché stiamo entrando in empatia, in sintonia, perché sono cose che provano tutti e che, tutti, avrebbero voluto ascoltare; in fondo noi, conduciamo la nostra esistenza. Ma perché? Che senso ha? Più intensamente viviamo, meno tempo ci resta”.

Probabilmente, il senso che possiamo dare a tutto questo consiste nel cercare di creare delle esperienze che ci facciano riscaldare interiormente per volerne ancora e scoprire cos’altro ci riserva il futuro.

Ma, alla lunga che cosa può accadere?

Un personaggio che conosciamo tutti: Massimo Troisi con altri due piccoli Massimo Troisi (un pò come quando nei cartoni animati si vede accanto ad un soggetto l’angelo e il diavolo). Il piccolo Massimo Troisi in basso a sinistra è il primo, quello di “Ricomincio da tre”, ed è un guitto: benché mostrasse il suo senso di inadeguatezza suscitava simpatia, comunque non si dava per vinto; l’altro Massimo Troisi che sta sulla destra dell’immagine è l’ultimo, quello del “Il Postino”; ebbene, l’impressione che trasmette è decisamente diversa.

Chi è il vero Massimo Troisi?

Probabilmente quello che sta al centro, in cui possiamo notare che lo sguardo e il sorriso sono in sintonia, esprimono la stessa cosa. Che cosa? Il piacere di stare al mondo ma, al tempo stesso, il peso di stare al mondo. Questo, significa sentirsi depresso?

Quello che dovrebbe connotare una persona matura (pur avvertendo la paura di non essere in grado di fare sempre meglio) ogniqualvolta la vita la metta in condizioni di doversi inginocchiare sotto il peso delle responsabilità, dovrebbe essere la capacità di rialzarsi lasciando la spada e lo scudo, non perché abbia deciso di farsi uccidere dai nemici ma perché si è resa conto che i nemici che vogliono aggredirla, in realtà lo fanno per paura e allora non ha senso combatterli, probabilmente ha senso, con il suo esempio, metterli in condizione di capire che si può vivere diversamente.

Come si può evitare che il senso di inadeguatezza ci induca ad una solitudine forzosa o, comunque, ci inibisca?

Questa è la stessa immagine che abbiamo visto all’inizio. È lo stesso palcoscenico, la stessa sedia, lo stesso riflettore, lo stesso pubblico, lo stesso riflettore che ingigantisce le ombre, la stessa corda che ci imprigiona. “vivi come credi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è un’opera di teatro che non ha prove iniziali; canta, ridi, balla, ama e vivi intensamente ogni momento della tua vita prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi”. L’autore si chiamava Charlie Chaplin.

Vivi come credi. È tutto quello di cui abbiamo parlato sino ad ora. Fai quello che ti dice il cuore. Il cuore, comunque è “mediato” dalle emozioni che genera il cervello; quindi, più fai esperienza più ti rendi conto che devi modulare una serie di elementi per evitare di restare deluso ogni volta di più. La vita è un’opera di teatro. È un’opera d’arte quindi, esprimi il meglio di te ma mettiti in condizione di saper imparare, di saper pensare per saper esprimere; il non avere la possibilità di provare è un bene perché si crea in quel momento. Qualunque cosa si voglia fare, si agisca e si viva intensamente ogni momento della vita prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi.

Quali? Quelli della gente intorno o i nostri?

Certo se qualcuno ci approva sarà sicuramente un bene, perché avremo fatto qualcosa di importante anche per gli altri. Importante nel senso che li aiuteremo a poter vivere meglio, forse. Sarebbe meglio che l’applauso, comunque, ognuno se lo faccia da sé. Una sorta di personale “onore delle armi” .

Ricomincio da tre è un film diretto dal regista Massimo Troisi e costituisce il primo film dietro la macchina da presa dell’attore napoletano. Uscito nel 1981, fu un grande successo di pubblico e critica, tanto da valergli incassi record e numerosi David di Donatello tra cui miglior film e miglior attore.

Ancora oggi, il film detiene il record come maggiore permanenza di un film nelle sale cinematografiche italiane: più di 600 giorni ! All’interno di questo film c’è una scena, la famosa scena di “Robertino” in cui si vede che Massimo Troisi insieme all’amico, Franky, che è un predicatore americano, va a casa di una signora a portare la parola di Cristo.

La padrona di casa è molto all’antica, eccessivamente moralista e ha creato un figlio altamente inadeguato alla Società. Perché?

Franky la chiama per ben due volte “signorina” e quindi si può dedurre che, pur non essendo sposata ha avuto un figlio con chissà quanti sensi di colpa trasformati in oppressione nei confronti del suo Robertino.

Bravo, Robè.., Robè,Robè…Robè, siente a me, ccà nun ce sta nisciuno limite, nessun diplomato e cosa, Robè…tu devi uscire, ti devi salvare, Robè, t’hanno chiuso dint’ ‘a stù museo, tu devi uscire, và mmiezo ‘a strada, tocc ‘e femmene, va a arrubbà, fa chello che vuo’ tu!”.

Vafanculo tu e mammina!Robertino: “Ma mammina…”.

Gaetano: “Mammina ti manda al manicomio, ti fa chiudere dentro al manicomio…”.

Robertino: “Ma mammina dice che ho i complessi nella testa.”

Gaetano : “Fosse ‘o Dio, quali complessi! Tu tiene l’orchestra intera in capa, Robè tu ti devi salvare.”

Robertino, impaurito da quanto ha ascoltato: “Mammina!”

Gaetano: “Robè..!”

Robertino: “Mammina! Mammina!”.

Gaetano. “Io lo faccio per te, che me ne importa, vai al manicomio, non ci vai, non me passa nemmeno per la capa!”.

Robertino: “Mammina!”.

Gaetano: “Ma vafanculo tu e mammina!!!”