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Questo articolo è stato pubblicato, per la prima volta, nel lontano 28 ottobre del 2010. Considerata la tematica quanto mai utile e attuale, viene riproposto dopo quasi dodici anni, ovviamente con integrazioni e aggiornamenti.

BUONA LETTURA

Un giorno credi di essere giusto e di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi… cominciare da zero! Situazioni che, stancamente, si ripetono senza tempo… una musica per pochi amici, come tre anni fa. A questo punto non devi lasciare, qui la lotta è più dura ma tu, se le prendi di santa ragione, insisti di più! Sei testardo, questo è sicuro, quindi ti puoi salvare ancora, metti tutta la forza che hai, nei tuoi fragili nervi! Quando ti alzi e ti senti distrutto, fatti forza e va incontro al tuo giorno, non tornare sui tuoi soliti passi: basterebbe un istante (Mentre tu sei l’assurdo in persona e ti vedi già vecchio e cadente, raccontare a tutta la gente del tuo falso incidente)! (Bruno Lauzi – Edoardo Bennato – Patrizio Trampetti)

Cogli l’attimo, cogli la rosa quand’è il momento, perché, strano a dirsi, ognuno di noi in questa stanza, un giorno smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà” (John Keating).

John Keating, insegnante di letteratura inglese, arriva nel 1959 alla Welton Academy dove regnano Onore, Disciplina, Tradizione e ne sconvolge l’ordine insegnando ai ragazzi, attraverso la poesia, la forza creativa della libertà e dell’anticonformismo.

Questa è la trama de l’attimo fuggente, film di Peter Weirr (1989) con Robin Williams come protagonista. Coraggioso nella scelta tematica, discutibile nella sua poco critica esaltazione dell’individualismo e con qualche forzatura retorica, è una macchina narrativa perfettamente oliata che non perde un colpo sino al finale che scalda il cuore, inumidisce gli occhi e strappa l’applauso.

Sicuramente quello che dovrebbe proporre e cercare di attuare un genitore per far schiudere l’animo di un figlio.

Perché, a volte, in famiglia, capita di trasmettere messaggi scorretti (magari in buona fede)? Di chi è la colpa quando, fra genitori e figli, c’è un dialogo fra sordi?

“Per scrollarmi di dosso la tristezza, dirottai verso est in direzione della Quinta Strada e lì tutto cambia: boutique eleganti, librerie, ristoranti chic, farmacie. Ma i miei occhi, come dicono gli indiani, sembravano cogliere solo l’ombra che c’è sotto ogni lampada. A un semaforo, aspettando il verde, mi colpì la scena al mezzanino dell’edificio che avevo dinanzi; decine di uomini e donne nel riquadro di grandi finestre correvano, correvano, restando però lì dov’erano, sudati e paonazzi, rivolti verso la strada. Non era la prima volta che vedevo una palestra, ma l’immagine di tutti quei giovani che, finito l’orario d’ufficio, erano corsi a smaltire frustrazioni e grasso mi pareva riassumere tutto il senso di quella civiltà: correre per correre, andare per non arrivare da nessuna parte”. (Tiziano Terzani – L’ultimo giro di giostra)

Le motivazioni sono molteplici ma riconducibili ad un elemento fondamentale. Quello che si può evincere dall’immagine che stiamo osservando, sulla sinistra notiamo il prototipo di un genitore e sulla destra il prototipo di un figlio in due momenti diversi. Che cosa accade? Un genitore in crisi che determina la manifestazione interiore di figli in difficoltà. In difficoltà per paura, in difficoltà per insicurezza, in difficoltà per conflitti di vario genere, perché si sentonoallo sbando, senza un guida autorevole.

Un genitore è in crisi. Perché?

Può esserlo nel ruolo specifico di genitore perché non sa come muoversi, può esserlo nel ruolo meno specifico (ma relativamente attinente) di partner, perché qualcosa non funziona nella coppia e si riverbera nel rapporto con i figli. Può esserlo nel rapporto con se stesso, nel rapporto con il lavoro, nel rapporto con il mondo esterno.

Può dipendere da come, quando ea figlio, ha realizzato quei principi di solidità e tranquillità che derivano da corretti “Modelli Operativi Interni”…

La verità è che, come dicevano i latini, forse dovremmo imparare a diventare forti quel tanto che basta per riuscire a rialzarci ogniqualvolta cadiamo, piuttosto che pensare di salvaguardarci dalle frustrazioni, dai conflitti; è impossibile evitare di impattare con essi, è estremamente probabile che i problemi ci inseguano fin dal mattino, ancor prima di alzarci ed ancor prima di svegliarci perché, anche durante il sonno, a volte capita di rimuginare su qualcosa che abbiamo “incontrato” il giorno prima e del cui risultato non siamo soddisfatti… o di qualcosa che “incontreremo” (presumibilmente) il giorno che sta per venirci addosso.

Arrivati a quel punto rimane il fatto che tutto questo genera, a volte, la voglia di dire (riferendoci a chi ci segue dall’altra parte del vetro “il Deus ex machina”): “regista, fammi uscire dalla storia perché vorrei tirare un momento il fiato!”

Ebbene, un discorso del genere è relativamente impostabile quando vivi da solo, quando non hai rapporti di responsabilità. Nel momento in cui hai dei figli, ti senti (e lo sei) in dovere di continuare per dimostrare che in qualche modo se ne può venir fuori.

Serve a te per l’immediato, per il medio termine e per il lungo termine (perché, comunque non puoi lasciare dei figli in difficoltà) e serve per i figli perché gli dimostri come circostanze particolari possano essere comunque affrontate e risolte nel modo migliore, anche se quest’ultimo può non corrispondere all’eliminazione del problema ma, sicuramente all’adattamento nei suoi confronti che poi significa costruire equilibri, diventando migliori, e trasformando in opportunità i disagi nel cercare delle soluzioni temporanee o definitive.

E allora, di chi è la responsabilità quando c’è una difficoltà di comunicazione?

Di entrambi, verrebbe da dire, quindi dei genitori e dei figli. Però, chi lo inizia questo dialogo? Lo iniziano i genitori e quindi, nel momento in cui i genitori si mettono nella condizione di mostrarsi per quello che sono (e cioè, degli esseri umani alla ricerca di proporre quello che hanno, in maniera coerente, nella disponibilità relativa di ciò che rimane della loro energia dopo aver fatto fronte ad una serie di incombenze di cui non si può fare a meno) un figlio dovrebbe poter apprezzare tutto quello che viene trasmesso con correttezza, con lealtà, con estrema franchezza. Certo scegliendo il linguaggio più adeguato!

“A volte abbiamo persino l’impressione che la nostra civiltà, tutta fondata sulla ragione, sulla scienza e sul dominio di ciò che ci circonda, ci abbia portati in un vicolo cieco, ma tutto sommato pensiamo ancora che proprio la ragione e la scienza ci aiuteranno a uscirne. Così continuiamo imperterriti a tagliare foreste, inquinare fiumi, seccare laghi, spopolare oceani, allevare e massacrare ogni sorta di animali perché questo – ci dicono gli scienziati economisti – produce benessere. E col miraggio che più benessere vuol dire più felicità, investiamo tutte le nostre energie nel consumare, come se la vita fosse un eterno banchetto romano in cui mangia e si vomita per poter rimangiare” (Tiziano Terzani).

Perché per un genitore è così difficile capire il linguaggio e le esigenze di un figlio?

Come spiegato approfonditamente nell’articolo “Il meccanismo dell’apprendimento”, la sintonia fra genitori e figli inizia come “dono di Natura” fin durante l’accrescimento intrauterino attraverso quello che grandi autori del passato (come ad esempio Winnicot) chiamavano “preoccupazione materna primaria” che porta a desiderare, accettare, accudire, proteggere il proprio bambino generandogli la consapevolezza di valere qualcosa (mediante il meccanismo del rispecchiamento e della responsività).

Solo attraverso il volto dell’altro, posso incontrare il mio volto. Solo attraverso la presenza dell’Altro, posso costruire la mia vita(J. Lacan)

Dopo la visione di un Mondo (quasi) perfetto, il compito (prevalentemente della madre) è quello di esporre progressivamente il bambino alle frustrazioni del mondo esterno Ha luogo con l’attenuarsi della preoccupazione materna primaria… Questo genera i prodromi di ciò che sarà, un po’ alla volta, l’autonomia personale.

E il ruolo del Padre?

La Psicoanalisi ha celebrato questa “funzione” attraverso il meccanismo Edipico, ben sintetizzato dai “tre tempi” di Jacques Lacan.

Il primo tempo, della confusione simbiotica fra Madre e Bambino, con la prima che tende (simbolicamente) a voler riportare dentro di se’ il figlio e, quest’ultimo che la vorrebbe (altrettanto simbolicamente) “vampirizzare”…

Il secondo tempo, dell’apparizione traumatica e “interdittiva” della parola del Padre, che (simbolicamente) “risveglia” la diade madre – bambino dal “sonno incestuoso” con due “moniti” ben chiari: uno rivolto alla Madre (“Non puoi divorare il tuo frutto!”) e uno rivolto al figlio (“Non puoi tornare da dove sei venuto!”) che non mortificano tale relazione ma la liberano da perversioni incestuose…

Il terzo tempo, della “donazione” paterna, che si pone a cavallo fra il “Desiderio” e la “Legge” rendendo possibile, nel figlio, la creazione di binari di regole non imposte ma capite e accettate che viene resa possibile dalla validazione materna, che ne riconosce implicitamente l’autorevolezza.

C’è, però, più di un però da considerare…

Il livello di preparazione di entrambi i genitori; i loro valori e modelli educativi ricevuti da figli; l’applicabilità, degli stessi, in una Società che cambia più velocemente della capacità di aggiornarsi e adattarsi…

Cogli la rosa quand’è il momento!

“Vuole aprire il suo libro a pagina 503?” – “Legga la prima strofa della poesia che ci trova!”

– “Oh vergine, cogli l’attimo che fugge?”

– “Si! Proprio quella! E’ appropriata! No?”

“Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola… e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà.”

– “Grazie mille. Cogli la rosa quando è il momento. In latino si dice, invece, carpe diem.: cogli l’attimo! Cogli l’attimo, cogli la rosa quando è il momento. Perché il poeta usa questi versi?”

– “Perché va di fretta?”

– “No! Perché siamo cibo per i vermi ragazzi, perché, strano a dirsi, ognuno di noi in questa stanza, un giorno smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà. Adesso avvicinatevi tutti e guardate questi visi del passato, li avrete visti mille volte ma non credo che li abbiate mai osservati con attenzione. Non sono molto diversi da voi vero? Stesso taglio di capelli, pieni di ormoni come voi, invincibili, come vi sentite voi. Il mondo è la loro ostrica, pensano di essere destinati a grandi cose come molti di voi. I loro occhi sono pieni di speranza proprio come i vostri. Avranno atteso finché non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale. Perché vedete, questi ragazzi, ora sono concime per i fiori ma, se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro invito: Carpe diem! Cogliete l’attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita!”

In questa immagine, al centro: Giovanni Russo (medico ricercatore, psicoterapeuta, filosofo, direttore e fondatore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia SFPID di Roma, maestro di vita). In basso, un invito ai genitori: “Le braccia devono essere sempre pronte ad accogliere la tristezza del fallimento o la gioia del successo”.

Cosa significa?

Che l’affetto nei confronti di un figlio esiste sempre e comunque. Anche quando un figlio non fa quello che ti aspetteresti, anche quando un figlio va nella direzione opposta a quello che tu auspicheresti. Diverso il discorso rispetto alla stima: la stima e l’apprezzamento nei confronti di ciò che un figlio può fare… quello se lo deve conquistate! Però, non ai tuoi occhi… ma principalmente ai suoi occhi; quindi, in seconda battuta, agli occhi di tutti coloro i quali stanno intorno.

Forse prima verso di te, genitore, perché sei un interlocutore privilegiato (sul piano affettivo, quanto meno), perché ha costruito con te un dialogo prima che iniziarlo con qualsiasi altro.

Quante volte, per stanchezza, per stress, per problemi personali, quando un figlio agisce in maniera da determinarci noi reagiamo con veemenza scaricandogli addosso l’insieme delle nostre problematiche personali?

Pur non volendo crimnalizzare alcuno, bisogna ricordarsi che i genitori devono essere responsabili e “abili” nell’immediato; i figli perché lo diventeranno, ma in un futuro e in base ai valori che gli avremo trasmesso.

Perché un figlio in crisi è così restio, a volte, a farsi aiutare? E perché, altrettanto spesso, anche quando si accorge di essere in errore, non cambia posizione?

Lo spazio delle emozioni. È quell’angolo nascosto nei mille discorsi, nelle mille voci che si accavallano, nella rabbia, nella gentilezza, nel buongiorno. Quante parole diciamo e quante cose facciamo e nessuno si interroga su dove sia quel “nostro posto che non c’è”… Lo spazio delle emozioni. È come una casa che viviamo, laviamo, curiamo… eppure c’è una porta nascosta che non vediamo. passiamo anni in quella casa… e quella porta è inesistente perchè non riusciamo a vederla. fin quando qualcuno ti guarda e, nei tuoi mille discorsi, ti fa una semplice domanda. onesta, sincera: è la chiave di quella porta.! All’improvviso il tempo si ferma. non esiste niente. la casa svanisce e resta solo quella porta. La apri e ti avvolge completamente. È quella, casa tua. Una stanza. ed è bastata una domanda. Lo spazio delle emozioni. Quante impalcature che abbiamo! Discorsi inutili, vuoti a perdere mentali e, all’improvviso…il silenzio. La verità. L’onestà. La paura. La gioia. Il dolore. Il piacere. Poche persone si preoccupano di questo spazio. Sembra superfluo, invece è tutta la nostra vita. Ci dice chi siamo stati, chi siamo adesso e chi saremo. Ci dice come stiamo al di là delle solite frasi fatte. Occupiamoci, invece, di capire cosa prova un bimbo quando viene umiliato! Come si sente un genitore quando il figlio non l’ascolta e lo ignora! Come vivono, dentro, due persone che interrompono un percorso di vita comune! Cosa accade ad un un figlio quando un genitore si ammala! Cosa diventa un genitore quando un figlio muore! Lo spazio delle emozioni. O accetti di averlo e lo vivi, o muori. Dentro!” (Emanuela Governi)

Il conformismo – Ognuno ha la sua camminata

“Niente voti oggi, si passeggia…. Ecco, così! La poesia, qualcuno ha detto, non è certo un gran diletto! Su ragazzi, avanti, camminate, marciate! Destra, sinistra, sinistra, destra… Alt! Grazie ragazzi! Avrete notato che ognuno di voi si muove con la sua particolare andatura. Vi ho fatto marciare per dimostrare la questione del conformismo, la difficoltà di mantenere le proprie convinzioni di fronte agli altri. Alcuni di voi hanno l’aria di pensare che avrebbero marciato diversamente! Allora chiedetevi perché battevate le mani, annuendo ai miei comandi! Ci teniamo tutti ad essere accettati ma dovete credere che i vostri pensieri siano unici e vostri, anche se ad altri sembrano strani ed impopolari, anche se il gregge può dire che non è beeene. Voglio che troviate la vostra camminata. Adesso. Il vostro modo di correre e passeggiare, in ogni direzione, comunque vogliate, che sia fiero o che sia sciocco, sta a voi. Giovanotti, il cortile è vostro. Non dovete dare spettacolo, lo fate per voi stessi. Beh, Dalton, non partecipa?”

– “Esercito il diritto di non camminare”

– “Grazie mille Dalton, ha afferrato l’idea al volo. Andate pure controcorrente”.

Due strade trovai nel bosco e io, io scelsi quella meno battuta ed è per questo che sono diverso.

In questa immagine, sempre Giovanni Russo ma, questa volta rivolto ai figli. “Abbiate pazienza! Fatevi aiutare ed aiutateci a capire i vostri problemi. Solo in questo modo potremo migliorare insieme. Fate che la vostra gioia diventi la nostra gioia!” E’ un invito a costruire un dialogo, certo non solo nei momenti di difficoltà personale perché, altrimenti, sarebbe riduttivo.

Pace!

Non significa arrendevolezza ma, semmai, dichiarazione di intenti, di propositi, di attuazioni in termini conciliativi, che dovrebbero partire dal rapporto con noi stessi per poi estendersi al rapporto con gli altri. E, il rapporto privilegiato, dovremmo averlo con i nostri figli.

Perché?

Perché sono la nostra prosecuzione e il nostro presente, all’interno del quale rispecchiarci, specchiarci, rivederci, vederci ed osservarci perché, soprattutto quando non sono molto grandi d’età, quello che noi siamo lo vediamo immediatamente nei loro comportamenti, nei loro tic, nelle loro paure, nelle loro convinzioni, nella loro presunzione, perché un figlio non vuole cambiare idea e non vuole lasciarci aiutare? Dovremmo domandarci: ma noi, siamo disponibili come genitori, come persone, a lasciarci aiutare? A cambiare idea velocemente? Dimostriamo di essere presuntuosi! E perché i nostri figli dovrebbero essere diversi se hanno avuto noi come maestri?

I figli fanno quello che vedono

E perché siamo presuntuosi? Perché siamo delle persone sbagliate?

No! Perché esiste un principio che, tecnicamente, viene definito “coesione dell’identità” e che serve a mantenere una certa coerenza in ciò che pensiamo, in ciò che facciamo, in ciò che siamo.

Che significa?

Significa che ognuno di noi struttura una certa personalità nell’arco degli anni… e non è che la cambia istantaneamente come una bandiera al vento. Indubbiamente, delle valutazioni possono modificarsi in base ad una serie di eventi ed è bene che sia così, però un elemento di base resta; perché è grazie a quello che noi possiamo dire: “stiamo parlando di quella determinata persona!”

A ciò, aggiungiamo che, nei ragazzi, c’è anche la voglia di dimostrare di essere capaci di voler provare a diventare autonomi. Magari, in una fase intermedia, vogliono essere autonomi ma cercano, senza rendersene conto, la nostra approvazione e quindi, stanno in una “metà” critica; ed è anche normale che sia così. Arriverà un momento in cui ci contesteranno, perchè è con questo modo che cercano di affermare la propria indipendenza.

Io sono diverso da te pur provenendo da te. E tu, mi devi aiutare a dimostrarlo!

Allora, prendi in considerazione l’idea di investire, caro genitore; investire tempo ed energia nel rapporto con qualcuno che rappresenta l’elemento (e l’investimento) più importante: tuo figlio! Un ragazzo vuole fare da solo perchè ancora non ha impattato con le tante difficoltà della vita. Un ragazzo sente, dentro, l’immenso potenziale che ogni essere umano possiede. Solo che circoscrive tutto a ciò che crede “essere” il tutto.

Diamo per scontato solo quel poco che abbiamo attorno e, con questo limitato punto di vista, non riusciamo a sentire la grandezza del resto di cui siamo parte. I rishi (Indiani) direbbero che abbiamo perso il nostro “collegamento cosmico”, che siamo diventati come kup manduk, la rana del pozzo, protagonista di una vecchia storia indiana.

Un giorno, nel piccolo pozzo in cui una rana è vissuta tutta la sua vita, salta una rana che dice di venire dall’oceano.

“L’oceano? E cos’è?” chiede la rana del pozzo.

“Un posto grande, grandissimo”dice la nuova arrivata.

“Grande come?

“Molto, molto grande”.

La rana del pozzo traccia con la zampa un piccolo cerchio sulla superficie dell’acqua…

“Grande così?”

“No. Molto più grande”.

La rana traccia un cerchio più largo.

“Grande così?”

“No. Più grande”.

La rana, allora, fa un cerchio grande quanto tutto il pozzo che è il mondo da lei conosciuto.

“Così?”

No. Molto, molto più grande!” dice la rana venuta dall’oceano.

“Bugiarda!” urla kup manduk, la rana del pozzo, all’altra. E non le parla più.(Tiziano Terzani – Un altro giro di giostra)

Esiste una regola per non sbagliare quando si parla?

Cambiamo punto di vista, senza pregiudizi e condizionamenti

“Perché sono salito quassù? Chi indovina?”

– “Per sentirsi alto!”

– “No! Grazie per aver partecipato. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi, coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva anche se può sembrarvi sciocco o assurdo, ci dovete provare. Ecco, quando leggete qualcosa, non considerate solo l’autore, considerate quello che voi pensate. Figlioli, dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi cominciate a farlo più grosso è il rischio di non trovarla affatto. Qualcuno dice che molti uomini hanno vita di quieta disperazione! Non vi rassegnate a questo, ribellatevi, non affogate nella pigrizia mentale: guardatevi intorno, osate cambiare, cercando nuove strade!”

Quando mi trovo di fronte un figlio, anche nel momento in cui, quest’ultimo, si pone sul sentiero di guerra nei miei confronti, io dovrei domandarmi cosa ho fatto per meritarlo. Infatti, anche quando, apparentemente, io non ho responsabilità, in quel momento gli sto servendo da scarico, consentendogli di sfogare le tensioni.

Probabilmente, nel momento in cui mi aggredisce, mi sta “dicendo” che mi vuole bene.

E si comporta così perché mi ha scelto come interlocutore privilegiato, da cui non si aspetta giudizi, critiche o condanne. Quando un figlio ci viene incontro a pugni chiusi, minaccioso, proviamo a ricordare che, dietro quei pugni potrebbe esserci soltanto una richiesta: “Mi tendi le braccia perché mi fanno male le mani e non riesco ad aprirle?”

“Apposta noi ci procuriamo amici e figli! Perché quando noi, divenuti più vecchi, cadiamo in errore, voi che siete più giovani, al nostro fianco, raddrizziate la nostra vita nelle opere e nelle parole”. (Platone)

Monologo sulla vita

Goditi potere e bellezza della tua gioventù. Non ci pensare. Il loro potere lo capirai solo una volta appassite, bellezza e gioventù. Ma, credimi, tra vent’anni guarderai quelle tue vecchie foto e in un modo che non puoi immaginare, adesso. Quante possibilità avevi, di fronte… e che aspetto magnifico avevi! Non eri per niente grasso come ti sembrava. Non preoccuparti del futuro. Oppure preoccupati, ma sapendo che questo, ti aiuta quanto masticare un chewing-gum per risolvere un’equazione algebrica. I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente. Di quelle che ti pigliano di sorpresa, alle quattro di un pigro martedì pomeriggio. Fa’ una cosa, ogni giorno che sei spaventato. Canta. Non essere crudele col cuore degli altri. Non tollerare la gente che è crudele col tuo. Lavati i denti. Non perder tempo con l’invidia. A volte sei in testa. A volte resti indietro. La corsa è lunga e alla fine… è solo con te stesso.

Ricorda i complimenti che ricevi, scordati gli insulti. Se ci riesci veramente, dimmi come si fa! Conserva tutte le vecchie lettere d’amore, butta i vecchi estratti conto. Rilassati. Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco, a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco, ancora non lo sanno.

Prendi molto calcio. Sii gentile con le tue ginocchia, quando saranno partite ti mancheranno. Forse ti sposerai o forse no. Forse avrai figli o forse no. Forse divorzierai a quarant’anni. Forse ballerai con lei al settantacinquesimo anniversario di matrimonio. Comunque vada, non congratularti troppo con te stesso, ma non rimproverarti neanche. Le tue scelte sono scommesse. Come quelle di chiunque altro. Goditi il tuo corpo. Usalo in tutti i modi che puoi. Senza paura e senza temere quel che pensa la gente. È il più grande strumento che potrai mai avere. Balla. Anche se il solo posto che hai per farlo è il tuo soggiorno. Leggi le istruzioni, anche se poi non le seguirai. Non leggere le riviste di bellezza. Ti faranno solo sentire orrendo. Cerca di conoscere i tuoi genitori. Non puoi sapere quando se ne andranno per sempre. Tratta bene i tuoi fratelli. Sono il miglior legame con il passato e quelli che, più probabilmente, avranno cura di te in futuro. Renditi conto che gli amici vanno e vengono. Ma alcuni, i più preziosi… rimarranno!

Datti da fare per colmare le distanze geografiche e di stili di vita perché, più diventi vecchio, più hai bisogno delle persone che conoscevi da giovane. Vivi a New York per un po’, ma lasciala prima che ti indurisca. Vivi anche in California per un po’, ma lasciala prima che ti rammollisca. Non fare pasticci con i capelli altrimenti, quando avrai quarant’anni, sembreranno di un ottantacinquenne. Sii cauto nell’accettare consigli, ma sii paziente con chi li dispensa. I consigli sono una forma di nostalgia. Dispensarli è un modo di ripescare il passato dal dimenticatoio, ripulirlo, passare la vernice sulle parti più brutte e riciclarlo per più di quel che valga. Ma accetta il consiglio… per questa volta”.

“Da ragazzo ho conosciuto uomini che avevano tempo. Erano i pastori dell’Orsigna, nell’Appennino toscano, dove andavo in vacanza. Stavano per ore con un fili d’erba in bocca, distesi su un prato in cima a un monte a guardare da lontano il loro gregge e a riflettere, a sognare, a formulare dei versi che, a volte scolpivano nelle pietre delle fonti o cantavano la domenica nelle gare di poesia attorno a una damigiana di vino. In India tutti hanno tempo e, spesso, hanno anche una qualche semplice riflessione da spartire con chi passa. Come l’uomo che, su una strada di campagna, ha un misero baracchino per fare il thè. Te lo porge in una ciotola di terracotta e ti insegna a scaraventarla, poi, al suolo, facendoti notare che torna a essere parte della terra… con cui si faranno nuove ciotole. Come succede anche con noi”. (Tiziano Terzani – Un altro giro di giostra)