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“Quanto è felice la piccola pietra che rotola sulla strada tutta sola e non si preoccupa della carriera e non teme le esigenze; il cui cappotto di bruno elementare, indossa un universo passeggero e, indipendente come il Sole, si accompagna o brilla sola, seguendo una volontà assoluta con spontanea semplicità”. (Emily Dickinson)

Felicità è un termine di derivazione latina (Felicitas), che si riporta al verbo greco Feo (PHYO) con il significato di produttore di Fecondità: in sostanza ricchezza interiore.

Potremmo definire la felicità come quello stato d’animo “stabile” e “duraturo” tipico dell’essere umano realista (che sa valutare correttamente il positivo ed il negativo della vita sapendo apprezzare ciò che ha e quello che può ottenere) il quale ha acquisito, mediante utili esperienze, la capacità di produrre benessere, cioè quella condizione temporanea conseguente allo stato di equilibrio metabolico psicofisico (OMEOSTASI) che deriva dall’appagamento dei propri “bisogni”.

Quindi, la felicità, la si “vive” all’interno di un “istante”? La si registra a preventivo come ricerca o, a consuntivo, come già vissuta?

Nel desiderio dell’essere umano la felicità è qualcosa di molto importante tanto che, Thomas Jefferson (Uno dei “Padri fondatori” degli Stati Uniti d’America), fece sancire (con la dichiarazione d’Indipendenza dalla Gran Bretagna, il 4 luglio 1776) per il suo popolo, oltre al diritto alla vita e alla libertà, quello della ricerca della felicità:

“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.

Intanto, Carl Gustav Jung ci ricorda, dopo aver affermato che la felicità è la capacità di godere del momento presente, che ogni manifestazione di piacere, non avrebbe senso senza la tristezza.

Stiamo usando volutamente più e più volte la parola “felicità” per cercar di afferrarne qualcosa mentre, elegantemente, pare sottrarsi come la più ariosa delle farfalle.

Totò, il principe De Curtis, che coi suoi film ci ha strappato tante e tante risate, che dice della felicità? Essa consiste nel ridere, ridere, ridere ancora? Pare di no. Egli infatti scrive in versi venati di malinconia :

“Vurria sape’ ched’è chesta parola, vurria sape’che vvo’significa’. Sarra’gnuranza a’mia, mancanza ‘e scola, ma chi ll’ ha ‘intiso maje annomenà'” (“Mi piacerebbe sapere il motivo per cui è stato coniato questo termine, vorrei conoscerne il significato più intrinseco e vero. Forse è per ignoranza o perché non ho mai studiato… ma  chi l’ha mai vista, negli occhi o sulla bocca di chi ho incontrato?”)

E quindi?

Prendendo spunto da quanto spiegato da Paul Claude Racamier nel suo “il genio delle origini” (Raffaello Cortina Ed.), appena uscito dai cambiamenti della nascita, il neonato entra, con la madre, in una intensa relazione di mutua seduzione che serve (almeno all’inizio) a mantenere un accordo perfetto nel quale, insieme (madre e bambino), è come se si calassero nelle acque “amniotiche” di un lago senza increspature.

Tutto ciò mira ad escludere (o a ridurre fortemente) le tensioni che provengono dal mondo interno e le stimolazioni che arrivano dall’esterno, capaci di intorbidire questo rapporto idilliaco (serenità narcisistica ideale) che non cerca e non vuole differenziazioni (foriere di separazioni) e che crea una simbiosi e una ammirazione reciproca con origini indecidibili.

“Guardate il bambino che guarda la mamma; guardate la mamma che guarda il bambino: guardateli entrambi” (P. C. Racamier)

Questa bellissima immagine mostra una mamma che trasmette con lo sguardo, al proprio bambino, il piacere del suo essere stata bambina e lo aiuta a immaginare il bello  del cammino insieme…

“Pioggia di emozioni, come gocce di memoria, aspettando un tempo indefinito; nella solitudine dei miei pensieri, un vento leggero, rubato alla notte… cerco linearità e, d’improvviso, un’idea prende forma: una carezza di seta che arreda le mie pareti, a volte disadorne…” (Cit.)

Qualcuno sostiene che, per “sentire più forte”, bisogna drogarsi.

Non vogliamo mettere in dubbio il fatto che, determinate sostanze “eterogene” siano in grado di stimolare zone cerebralmente emotive. Diciamo solo che, in determinati momenti, comprendiamo il significato più vero e maturo del termine “fusione”, grazie alle nostre endorfine (che sono droghe prodotte dal cervello).

In Natura esiste l’annichilazione, cioè l’incontro di una particella con la sua omologa di antimateria (l’elettrone con il positrone, il protone con l’antiprotone… e così via) che determina la creazione di un equilibrio perfetto, oltre il quale non ha più senso il mantenere una forma solida (che, in quanto imperfetta, andrebbe alla ricerca dell’opposto ).

Con una grande luce, le due particelle scompaiono alla vista per entrare in una dimensione che, noi mortali, possiamo sentire, probabilmente, solo quando, veramente innamorati, ci perdiamo (anche se per poco) nei sapori, negli odori, nelle idee, nel respiro di chi facciamo avvicinare al di sotto del confine della nostra intimità.

“Mia cara, vorrei che tu sapessi che sei il sangue che mi scorre nelle vene; sei il vento che distende le mie vele come le ali dei gabbiani; sei la marea che mi entra nel cervello; sei il trampolino che sazia la mia voglia di infinito. Sei preziosa come la musica da ascoltare una volta soltanto. Per non sciuparne il ricordo…” (Cit.)

Cari Lettori, ogni nostra emozione percepita (in maniera consapevole o meno) ha un valore in funzione di quello che, in essa, riusciamo a riconoscere.

Ecco, quindi, che tutto quello che ci riporta ai momenti del “rispecchiamento” materno risuona in noi come l’effetto dei più bei panorami del Paradiso Terrestre.

Sentirci accettati, capiti, compresi, importanti agli occhi di chi (per noi) è importante…

Hermann Hesse ammoniva: ” Fin quando dai la caccia alla felicità, non sei maturo per essere felice anche se, quello che più ami, è già tuo.”

Ma l’esperienza ci insegna che lo stato di felicità è sempre breve, quasi un lampo tra tuoni e nuvole o nei casi migliori un arcobaleno, temporalmente più lungo ad ammirare ma sempre troppo poco nel durare.

Addirittura, Eugenio Montale scrive: “Felicità raggiunta, si cammina per te sul fil di lama”.

E, la” lama”, rinvia al dolore, alla sofferenza, al sangue di quello che la Psicoanalisi chiama il LUTTO ORIGINARIO, che costituisce la traccia ardua, viva e durevole di ciò che si accetta di perdere come prezzo di ogni scoperta.

Cari Lettori, è come se, questo Lutto Originario ci riportasse ai primi momenti della nostra vita, quando abbiamo simbolicamente voltato le spalle ad una Madre “indistinta” (una sorta di “atmosfera”) accettando di perderla ma, al tempo stesso, rimpiangendola… per ritrovare una madre esterna e distinta da noi, come un Oggetto esterno che desideriamo e del quale, nel tempo, introietteremo ciò che ci renderà solidi e tranquilli.

Volendo volare alto andiamo a “disturbare” i grandi filosofi: Spinoza, per esempio.

Il suo obiettivo riguarda il come “agire” per conseguire la felicità che, per lui, è lo scopo della filosofia stessa. È necessario, facendo uso della ragione, liberarsi dalle passioni, per raggiungere un’idea adeguata. Procedendo in questo modo si raggiunge la virtù, ovvero la felicità che è la virtù stessa.

Per il filosofo, quindi, la condotta virtuosa, la virtù morale è la stessa felicità.

Non possiamo esimerci, a questo punto, dall’illuminare l’importanza della “funzione” paterna. In questa epoca “fluida” preferiamo utilizzare il termine “funzione” e non “figura” perché la sua “azione” e “presenza” conta più del sesso di chi mette in pratica il tutto.

A suo tempo, Sigmund Freud, descriveva il “Padre” come simbolo di una Legge non scritta, che è a fondamento di tutti gli aspetti della vita comunitaria, dal momento che cerca di frenare e regolamentare la spinta pulsionale degli individui verso la ricerca di un piacere “senza limiti”: L’Es, alimentato dalla sua Libido.

“Mi raccontò Vittorio Feltri che, il giorno in cui diventò direttore del Giornale, entrò nell’ufficio che era stato di Montanelli. Un sogno che si realizzava. Ma pochi minuti dopo pensò: tutto qui? Così è la felicità. Inseguiamo tante cose che pensiamo ce la possano dare. E poi, quando queste cose le otteniamo, sperimentiamo che non bastano. Sperimentiamo che abbiamo sempre bisogno di qualcosa di più grande, di qualcosa che poi non passa”. (Michele Brambilla – Editorialista “Quotidiano Nazionale”)

Cari Lettori, lo scoprire la breve durata di quello che può renderci felici nasce (troppo) spesso dal mantenimento di quella condizione “narcisistica” dovuta alla primordiale fusione emotiva con la propria madre.

Di conseguenza Per evitare l’instaurarsi di “perderci” in ambiti borderline (o peggio) è di vitale importanzasganciarsi” dalla palude indifferenziata del godimento e di avventurarsi verso la ricerca di una maggiore autonomia “grazie” all’intervento dei due “pungiglioni della psiche”: l’angoscia della “crescita” e, come abbiamo visto prima, il lutto delle origini.

Non possiamo ottenere questo passaporto che ci concede di entrare nella “terra della maturità” senza il simbolico scontro col “padre” che si pone a cavallo fra il “Desiderio” e la “Legge” rendendo possibile, nel figlio, la creazione di binari di regole non imposte ma capite e accettate e che viene resa possibile dalla validazione materna, che ne riconosce implicitamente l’autorevolezza.

“Veramente sano è colui che si permette un gioco abbastanza elastico della ricerca del piacere e del senso di responsabilità, sia sul piano personale che su quello sociale” (Jean Bergeret)

Discorsi troppo alti da vivere per noi, comuni mortali? Sarà, ma intanto è bene porsi dei modelli alti perché la felicità non è cosa da poco. In fondo, finisce con l’essere un “abito”, un modo con cui guardare alla vita e vivere.

Ci paiono, a tal riguardo, degne della massima attenzione le considerazioni di Carl Gustav Jung in base alle quali, per essere felici bisogna essere in grado innanzi tutto di guardarsi dentro. Perché, “solo quando saremo coscienti del nostro inconscio e quando ci saremo lasciati alle spalle le ombre, allora ci sentiremo liberi di realizzare quello che ci rende felici”

Come ciliegina sulla torta, noi tutti dovremmo avere un “punto di vista filosofico o religioso” (o, quantomeno, teleologico) capace di farci affrontare bene le vicissitudini della vita.

Resta il fatto che per parlare della felicità bisogna avere una visione ben precisa della vita.

Paul Gauguin, per esempio, riteneva che la civiltà occidentale e parigina in particolare fosse il “contrario” della felicità. Se ne andò a Tahiti a vivere e dipingere. Il suo famoso quadro “Areaarea” propone l’idea della felicità come evasione.

“Il senso della vita? lavorare e amare” (Otto Kernberg)

Nella celebre Danza di Henry Matisse la felicità è circolare e i cinque ballerini si tengono per mano in un arioso girotondo. Che significa? Che la felicità è reale solo se condivisa?

“Per me, la Psiche si sviluppa solo nelle relazioni con gli altri, i quali ci aiutano a migliorare la capacità di capirli” (Otto Kernberg)

Importante è vivere i propri valori con consapevolezza. Il segreto è non mollare mai. Vivere la vita come una grande occasione in relazione proficua con gli altri.

In questo spirito avremo dei momenti durante le giornate in cui ci sentiremo “docile fibra dell’universo”. Li vivremo con trepidante gioia e con la consapevolezza di essere “utili” finché non saremo “interrotti”.

Per questo, leggeremo un libro o ascolteremo musica anche poco prima di morire. E, avendo un po’ di forza, pianteremo un albero di cui non vedremo la crescita, per intima e incrollabile fiducia nella vita.

Il Sabato del villaggio: Nuovo Cinema Paradiso

“Questo, di sette, è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia Recheran l’ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso, Cotesta età fiorita È come un giorno d’allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno, Che percorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio: stato soave, Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vò; ma la tua festa Ch’anco tardi a venir non ti sia grave” (Giacomo Leopardi)

Cari Lettori, a questo punto del lavoro, ci appare chiaro che, base della nostra felicità altro non sia che l’aspettativa di quello che nostra madre ci trasmette quando, da piccolissimi, ci dà il benvenuto alla vita.

Un po’ come, osservando l’immagine di copertina, la felicità del piccolo Salvatore nell’osservare la trama del suo successo, dentro i fotogrammi di celluloide del bellissimo “Nuovo Cinema Paradiso” del quale riportiamo i contenuti emotivi in questo bel video in cui due mani delicate trasmettono melodie celestiali…

Vi auguro sogni a non finire (Jacques Brel)

Vi auguro sogni a non finire e la voglia furiosa di realizzarne alcuni.

Vi auguro di amare ciò che si deve amare e di dimenticare ciò che si deve dimenticare.

Vi auguro passioni, vi auguro silenzi.

vi auguro il canto degli uccelli al risveglio e le risate dei bambini.

Vi auguro di rispettare le differenze degli altri, perché il merito e il valore di ognuno spesso è nascosto.

Vi auguro di resistere alla stagnazione, all’indifferenza, alle virtù negative della nostra epoca.

Vi auguro, infine, di non rinunciare mai alla ricerca, all’avventura, alla vita, all’amore, perché la vita è una magnifica avventura e nessuno dovrebbe rinunciarvi, senza combattere una dura battaglia.

Vi auguro soprattutto di essere voi stessi, fieri di esserlo e felici, perché la felicità è il nostro vero destino.

Cari Lettori, volendo tracciare un bilancio della nostra vita potremmo concludere dicendo che, tutto sommato, abbiamo amato abbastanza della nostra esistenza. Compreso i (non pochi) momenti di dolore con le relative cadute e le conseguenti risalite. Così come, anche, le passioni e le delusioni.

Contrariamente a quello che abbiamo pensato per anni, non sappiamo più se essere “riconoscenti” al tempo che abbiamo attraversato. Anche se ci capita, non di rado, di averne nostalgia pur sviluppandosi, in noi, la curiosità di come andrà a finire.

Nel frattempo, per continuare a “sentire” la vita scorrere nelle vene, è importante recuperare il gusto di quella trasgressione senza sensi di colpa, che è la prova tangibile dell’autonomia dalla Madre e della pace col Padre.

Solo, vorrei ritrovare ad una ad una le persone che ho incontrato e amato, per dirci le cose che non abbiamo fatto in tempo a raccontarci o che non abbiamo avuto il coraggio di confessarci.” (“Ciao” -Walter Veltroni)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per avere suggerito molti degli interessanti aforismi inseriti nell’articolo.

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