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Questo articolo è stato pubblicato, per la prima volta, il 15 ottobre 2010. A distanza di quasi dodici anni, ampliato opportunamente, non si poteva non riproporlo

Risvegli è un film del 1990 diretto da Penny Marshall, con Robert de Niro e Robin Williams.basato sui ricordi e l’esperienza del famoso neurologo Oliver Sacks raccolti in un suo libro omonimo. Viene raccontata la storia vera di un dottore (Oliver Sacks, nella finzione Malcolm Sayer, interpretato da Williams) che, nel 1969, scopre l’effetto positivo di una molecola, la L-DOPA, sulla scorta delle nuove evidenze che il farmaco stava allora acquisendo nella terapia del malattia di Parkinson.

Egli somministra questa “medicina” ad un paziente catatonico. Questo stato rappresentava l’evoluzione finale dei danni cerebrali provocati, decenni prima, dall’encefalite letargica, che complicò l’epidemia di influenza, nota come “spagnola”, nell’arco di tempo 1917-1928.

Il dottor Sayer osservò una somiglianza tra la condizione dei pazienti catatonici a cui somministrò la levo-dopa e l’amimìa e acinesìa tipiche dei pazienti parkinsoniani. Leonard Lowe (interpretato da De Niro) e il resto dei pazienti vengono risvegliati dopo aver vissuto per decenni in stato letargico e si ritrovano a vivere una vita del tutto diversa dalla precedente.

Sayer ha rimosso tutti i suoi pazienti da uno stato quasi incosciente ma, col passare del tempo, capisce di non poterli fermare dal ritornare di nuovo nello stato “dormiente”. La Levo-dopa infatti appare dare, inesorabilmente, una sorta di assuefazione. Da qui la necessità di un continuo incremento del dosaggio, con la comparsa degli effetti collaterali tipici come tic, movimenti involontari, allucinazioni e cambiamento dell’umore con note di aggressività e deliri persecutori.

Leonard Lowe, il primo paziente ad essere “risvegliato”, è anche il primo a sviluppare gravi problemi a causa degli effetti collaterali del farmaco ma, nonostante tutto, chiede a Sayer di continuare ad assumere il farmaco e di essere studiato come cavia, per potere, un giorno, contribuire alla scoperta di un medicinale che potrebbe salvare la vita ad altri.

Tra i passaggi importanti dell’opera vi sono l’invito di Leonard a considerare ogni aspetto della vita in tutta la sua bellezza e lo scontro con l’amministrazione dell’ospedale che si rifiuta di consentire ai pazienti, lo svolgimento di una vita normale.

Vogliamo approfondire il concetto di dolore sociale? C’è differenza con la sofferenza?

Il termine sofferenza deriva dal latino e si lega con l’immagine di colui che soffre, sopportando una pena e, soprattutto, resistendo ad essa. Con dolore, si vuole identificare una sensazione spiacevole, che affligge. La disperazione, invece connota uno stato psicologico in cui si è determinato l’allontanamento di qualsiasi speranza.

Il dolore sociale

Questo tipo di sofferenza colpisce non solo il malato in sé ma l’intero “caregiver”, ossia tutti coloro che gli stanno intorno e che dovrebbero sostenerlo nel “percorso”. Ebbene, si tratta di una condizione oggi molto comune e, spesso, purtroppo, sottovalutata. Il “sollievo”, infatti, non va percepito come un semplice beneficio fisico (quando lo capiremo, noi medici?), ma deve comprendere anche una parte psicologica e sociale.

Particolarmente importante è trasmettere l’idea che il dolore va curato dentro e fuori gli ambienti clinici (ospedali, etc.). Intervenire sul “dolore sociale”, infatti, vuol dire anche migliorare l’aspetto clinico.

Nel caso in cui volessimo porre maggiore attenzione alle notizie che ci investono, quotidianamente, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, finiremmo col concludere che, la Società all’interno della quale viviamo, sia improntata a valori che in realtà nascondono delle diminuzioni di interesse nei confronti del benessere collettivo. Siamo preoccupati delle varie crisi economiche che periodicamente ci investono, dei disastri ecologici che ciclicamente siamo costretti a fronteggiare, delle difficoltà personali che ogni giorno, in un modo o nell’altro, affrontiamo.

Però, tutto questo ci mette in una situazione in cui c’è chi, forse, “studia” la notte per trovare il modo di crearci i problemi e c’è chi, come noi, subisce questi problemi.

Ma quand’è che percepiamo davvero di essere, tutti, su uno stesso livello?

Quando dobbiamo affrontare delle situazioni particolari che, in realtà, sono molto frequenti. Nel momento in cui ci viene diagnosticato, sul piano sanitario, un disturbo, più o meno impegnativo, nel momento in cui sappiamo che un nostro amico, un nostro congiunto deve affrontare delle problematiche sul piano della salute, sia fisica che psicologica, da cui non si sa come ne verrà fuori. All’improvviso tutto perde importanza, tutto perde valore.

Tutto cosa?

Tutte quelle informazioni che ci condizionavano e che ci portavano a concludere : “Beh si, noi apparteniamo alla classe degli sfortunati, alla classe che non comanda”. Di fronte a determinate situazioni siamo poi tutti uguali perché, per quanto strano possa sembrare, a determinate condizioni, non è il denaro a far la differenza, perché ci sono delle problematiche per le quali tu non puoi comprare la guarigione.

Puoi tentare di convincere qualcuno a garantirti una migliore assistenza ma, per esempio, non puoi neanche comprare la disponibilità di chi partecipa all’assistenza (il personale sanitario o parasanitario e “affini”): potrai avere il loro corpo, la loro applicazione tecnica, ma non riuscirai ad ottenere la loro dedizione, con i soldi; forse, con altri sistemi, coinvolgendoli in altro modo.

Il 30 maggio 2010, a Roma, si è celebrata la prima giornata del sollievo dal dolore sociale. Questo evento ha voluto puntare l’attenzione sul fatto che è importante riflettere senza tentare di fuggire per paura, per pregiudizi, da quello che accade, perché è come se noi dicessimo, di fronte a determinate situazioni: “Ma tanto non accade, ma tanto non mi riguarda, poverino, meno male che io ne sono fuori!”

In fondo, farne parte, aiuta a capire come camminare per crescere.

Il dolore è, dunque, quel perno attorno al quale gira tutto: come abbiamo già visto, il dizionario della lingua italiana definisce “dolore” quello stato d’animo che si prova ogni qualvolta siamo costretti a subire un patimento. Dal dolore ci possono essere due derivazioni:

  • la disperazione che è quello stato d’animo aggiuntivo, la stessa differenza che c’è tra lo stato d’ansia acuta e la perdita del controllo per il panico; si determina quando tu non sai cos’altro poterti aspettare, infatti disperazione è un termine latino composito, significa allontanamento da ogni speranza; perdi, dunque, la speranza ed il controllo della situazione.
  • la sofferenza che, contrariamente a quello che si può immaginare, non è qualcosa di negativo; infatti, la derivazione etimologica, indica con il termine sofferenza quello stato d’animo particolare di difficoltà in cui ci si ritrova quando si affronta un problema… “resistendo”. Ecco la differenza. Resistendo perché? Non perché a noi piaccia soffrire, ma perché la sofferenza fa parte dell’essere umano, perché è quell’elemento risolto il quale, noi ci troviamo migliori nel rapporto con noi stessi e nel rapporto con chi ci sta intorno.

Nell’immagine a disposizione, alle spalle di tutto c’è il tempo.

Il tempo che scorre inequivocabilmente oltre che inesorabilmente, “deformandosi” da una parte; in basso a sinistra, abbiamo un essere umano che sta soffrendo, abbiamo un essere umano addolorato, il quale può disperarsi oppure, come vediamo in alto a destra, camminare verso un percorso a cercare, forse a trovare, delle soluzioni, attraverso la sofferenza. E se ci facciamo caso, il riquadro in alto a destra deforma i contorni di quell’orologio senza opprimerlo come invece fa il dolore.

Perché lo deforma?

Perché, in base a come viviamo questa sofferenza, il tempo scorre più o meno velocemente e le nostre prospettive aumentano oppure diminuiscono.

E allora: dolore, disperazione, o sofferenza?

L’importante è sapere di poter contare su qualcuno in grado di aiutarci a capire come mantenere il più possibile integro tutto quello che è l’aspetto della dignità della nostra persona!

Curare l’aspetto psicologico, nel rapporto con chi soffre, che importanza può avere?

parecchi anni fa, il Prof. Umberto Veronesi ha scritto una lettera aperta alla stampa (che è stata ripresa da diversi quotidiani), all’interno della quale ha espresso dei concetti che ogni persona che lavori nel mondo sanitario “dovrebbe” condividere.

Egli ha specificato che, nel momento in cui ci si trova di fronte ad una persona con un problema di salute, bisogna distinguere due momenti essenziali:

  • quello della comunicazione della diagnosi
  • quello della comunicazione della prognosi.

Per quanto riguarda la diagnosi, secondo Veronesi, è obbligo del medico comunicarla nel migliore dei modi, cercando di essere chiaro, sufficientemente esauriente, adeguatamente semplice e comprensibile. Perché questo? Perché si vuole esercitare un’azione di sadismo nei confronti di chi sta attendendo una sorta di comunicato a seguito del quale scoprirà se essere condannato a morte? No.

Perché se, per caso, una persona che ha un problema di salute o presume di averlo ritiene di non aver avuto sufficienti spiegazioni, comincia a pensare che qualcosa gli sia stato nascosto.

Quante volte una persona scopre per errore, perché qualcuno se lo lascia scappare, cosa ha o “cosa pensa” di avere, sul piano clinico? A volte si agisce così per riguardo del paziente, però non sempre si raggiunge il risultato che ci si aspettava.

Immaginiamo una scena del genere.

Ci si trova nella stanza dell’ammalato… arriva il medico, il quale chiede ai familiari di accompagnarlo fuori perché vuole parlare. Ma la persona che ha il problema, l’ammalato, a che conclusioni deve giungere? Che, probabilmente, è affetto o afflitto da una patologia che non gli lascia scampo!

Come trascorrerà il tempo, da quel momento in avanti, questa persona?

Sentendo che, chi sta intorno, pietosamente, compassionevolmente cerca di nascondere uno stato d’animo personale ed una situazione che poi scopre da solo perché, se è vero che stiamo male sul serio, ce ne accorgiamo giorno per giorno: non lo possiamo nascondere e nessuno ce lo può nascondere.

E allora, comunicando in maniera chiara, umana, lineare si rispetta un principio fondamentale della medicina e anche della psicologia.

Discorso diverso per ciò che concerne la prognosi. Qui il medico, ma anche lo psicologo, lo psicoterapeuta, deve fare maggiore attenzione perché, sempre secondo il Prof. Veronesi, molte volte la prognosi non è altro che tutto ciò che tu ritieni che avvenga “intorno” a quella malattia o come evoluzione di quel disturbo, su base statistica.

Nulla contro le statistiche; è solo che noi non siamo numeri, noi non siamo, come esseri umani, omologabili ad una miriade di altri esseri umani perché poi, ognuno, all’interno di un gruppo, reagisce in modo strettamente personale…

…e le variazioni a cosa sono dovute?

A come noi affrontiamo la situazione, con le terapie adeguate. Ma queste, spesso, sono abbastanza standardizzate: si tende al meglio, quindi non si vuole correre il rischio di sbagliare.

E allora, quello che fa la differenza, spesso, è la compartecipazione, l’applicazione, cioè l’aderenza alla terapia da parte della persona che ha il problema.

Ma tu lo fai se ci credi, se credi all’idea di poter combattere… altrimenti, che senso ha? E poi l’evoluzione dipende anche da come ti aiuta il “contorno”.

Ma è chiaro che, all’inizio, qualsiasi “contorno” è disponibile a fare tutto il possibile ma, nel tempo, quanto ce la farà a resistere alle pressioni, al logorio, alle delusioni, alla paura, allo sconforto?

E tutto questo tu, lo percepirai e a volte, non meravigliamoci di ciò, ti augurerai di finire prima possibile per alleggerire il carico alle persone che ti stanno intorno.

Perché?

Quando si ha un problema veramente serio, la nostra mente, supportata dal cervello (che è l’hardware di tutto questo), si mette in configurazione tale da proteggerci dall’eccesso di emozioni, per cui noi ci sganciamo da tutto quello che è il mondo delle preoccupazioni che invece le persone sane producono, subendole.

E allora, la persona coinvolta direttamente si sta “preparando” ad ogni possibile ipotesi (anche alla peggiore) con pacata rassegnazione, chi sta intorno, invece… invece no! Questo perché non riesce a compenetrarsi nella vita che sta conducendo chi, invece, combatte una battaglia in prima linea.

Perché tutti gli altri stanno “accanto” ma, ovviamente, nessuno può star “dentro”.

E anche il codice deontologico medico impone al professionista di esprimere le proprie valutazioni, in termini di prognosi, specificando la necessità di essere accorto e, soprattutto, impone la necessità di non far perdere la speranza alla persona che ha un problema di salute. E questo, non con l’obiettivo di sostenere una pietosa bugia ma perché, semmai, effettivamente il mondo scientifico ci ha messo in condizione di osservare che, spesso, anche situazioni estremamente complesse, si sono risolte a dispetto di ogni aspettativa.

Il sollievo dal dolore è una fuga, una sconfitta, oppure…?

In questa immagine, una persona a letto in un ospedale. Presumibilmente uno di quegli ospedali che vediamo in televisione, efficientissimi, eccellenti, puliti, che garantiscono il massimo in termini di terapia con un sanitario che si occupa di chi sta soffrendo. Un ambiente abbastanza asettico con, alle spalle, il dolore.

Questa immagine, invece, è diversa. Potremmo più raffrontarla ad un’immagine che viviamo ogni qualvolta, dalle nostre parti, è il medico che, di fronte alla persona che ha un problema, cerca di essere rassicurante. Certo, stetoscopio e camice, mettono il medico in una posizione di superiorità rispetto alla persona in difficoltà: ma è il gioco dei ruoli.

Come potrebbe progredire ed evolvere una situazione del genere, che quel medico sicuramente sarebbe in grado di gestire?

In questa immagine, al centro, vediamo qualcuno che sta sullo stesso piano dell’altro, medico, infermiere o chi vogliamo immaginare, che compartecipa, sul piano dello stato d’animo, alla situazione dell’altro. La mano destra che accarezza, stringendo (ma non eccessivamente) la mano destra della persona che sta a letto… e la mano sinistra che accarezza l’avambraccio. È come se volesse trasmettere amore, condivisione e accettazione completa di tutto ciò che ha portato quella persona a stare in quel modo.

E quella persona (che, a giudicare dalle unghie dovrebbe essere una donna) in quel momento (possiamo vederlo nel riquadro che sta a destra) probabilmente sta tornando indietro, con la propria memoria, a quando era bambina.

Possiamo apprezzare degli aironi sullo sfondo, una sensazione di libertà, un lago, un “andare” senza “lasciarsi andare”: è fondamentale come differenza.

Forse perché si sta preparando alla morte?

Non necessariamente. Può darsi che stia ricominciando da dove ha lasciato i momenti più felici, quando era bambina, per riprendere il cammino e rigiocarsi una partita che non è ancora finita.

Quindi, il sollievo dal dolore non è un mostrarsi vili di fronte alla sofferenza: questo lo ha capito anche lo Stato italiano. Infatti c’è una legge che garantisce il massimo dell’assistenza per le persone che soffrono, sia psicologicamente che fisicamente, concedendo la possibilità di assumere dei farmaci analgesici che fino a non molto tempo fa era difficile reperire e poter offrire a questi individui.

Come aiutare chi cerca di aiutare?

Spesse volte si guarda al medico, allo psicologo, allo psicoterapeuta come a cavalieri medievali corazzati di un’armatura impenetrabile. Potrebbere anche essere vero ma, proviamo a domandarci come mai, questi cavalieri medievali avessero un elmo che rendeva impossibile osservare il loro sguardo. Probabilmente per nascondere anche i momenti di paura, i momenti di preoccupazione, i momenti di dolore… per non farli vedere all’avversario.

In questo caso, però, non c’è un avversario, c’è un momento avverso, che è diverso perché nessuno si mette d’impegno per far sì che una persona stia male e, anche quando nelle diatribe interpersonali che viviamo ogni giorno, ci sembra che qualcuno stia godendo nel farci del male o che noi, in certi momenti, proviamo piacere nel vedere che facciamo soffrire chi ci ascolta, sicuramente tutto ciò accade perché l’altro, quando ci tratta male o quando, noi, agiamo in maniera esagerata nei confronti dell’altro, tutto ciò accade perché si pensava (avendo ragione o avendo dei pregiudizi) di aver subito dei torti per i quali si è sofferto tantissimo.

Quando poi scopriamo che non è vero, oppure scopriamo (o scoprono) che siamo disponibili a cambiare opinione (o sono disponibili a chiederci scusa) allora, improvvisamente, diventiamo i migliori amici degli altri (o gli altri diventano pronti ad aiutarci in ogni circostanza).

Perché poi, in fondo, nessuno è cattivo, ciascuno reagisce in base a come pensa che stiano andando le cose.

E noi non pensiamo, spesso, che tutto il personale sanitario sia impenetrabile? Ma non è vero che non venga coinvolto dalla sofferenza altrui, perché “sono” e “siamo” esseri umani che, ascoltando, osservando e vivendo accanto a chi soffre, risvegliano dentro tutti i momenti che erano stati depositati nella memoria dove si trovano tutti i ricordi che ci hanno fatto soffrire.

Il medico dovrebbe essere preparato (soprattutto, poi, lo psicoterapeuta perché, durante il percorso di specializzazione, quest’ultimo ha l’obbligo di svolgere un certo numero di colloqui di analisi personale che dovrebbero “ammorbidirgli” la personalità) però, di fronte al dolore degli altri, di fronte ad una persona che ti esprime il proprio senso di impotenza, si risveglia in te la compassione, che non è pena, ma che è quello stato d’animo che ti fa partecipare a ciò che l’altro prova, con la stessa passione.

A quel punto, dovresti, come persona che opera in questo settore sanitario, mettere da parte la presunzione, cioè la voglia di curare o guarire ad ogni costo. Potresti provare, semmai a stimolare nell’altro la voglia, la disponibilità a lottare per uscire da tutto ciò.

Come aiutare chi prova ad aiutare?

Dr. House – Medical Division (House, M.D.) è una serie televisiva statunitense ideata da David Shore e Paul Attanasio e trasmessa da Fox a partire dal 2004. La serie è incentrata attorno al ruolo del dottor Gregory House, un medico poco convenzionale ma dotato di grande capacità ed esperienza, a capo di una squadra di medicina diagnostica presso l’ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey. La serie trae ispirazione dai gialli del celebre detective Sherlock Holmes: in ogni episodio ha luogo un giallo diverso che il protagonista, attraverso la proprie capacità mediche e deduttive, deve districare basandosi su vari indizi, spesso poco evidenti; infine egli riesce quasi sempre a risolvere il puzzle medico ed a salvare il paziente. I misteri medici sono invece stati ispirati da una rubrica del New York Times dedicata ai casi clinici particolarmente problematici. Dal punto di vista culturale, la serie televisiva ( e più in particolare la figura del protagonista) ha fornito motivi di riflessione filosofica, etica e religiosa relativa al campo della medicina e della deontologia.

Nell’immagine propostaGreg House è il medico brillante dalle intuizioni eccezionali che aiuta tantissima gente (anche se non tutta); al centro, è in una vasca piena di antidolorifici per i suoi seri problemi che gli fanno provare dolore fisico e psicologico; sulla destra, vediamo come sia dipendente da questi farmaci, pur di continuare a lottare per gli altri, più che per sé.

Questa è un’altra storia, tradotta anch’essa in un film: “The doctor”, con William Hurt. Sulla sinistra, vediamo un’immagine combinata: sullo sfondo il medico che scopre di avere un tumore e, attraverso un percorso, passando dall’altra parte della barricata come paziente, scopre l’importanza del rapporto umano oltre che psicologico con chi sta soffrendo. E infatti sempre a sinistra, ma in basso, noi notiamo quella mano del dottore che però ha la targhetta da paziente e accanto, abbiamo la mano di una donna. Metaforicamente, la stessa donna che avevamo visto prima, che era paziente, in questo caso aiuta. In alto a destra, l’immagine di due medici: lui che si sta facendo visitare da un collega il quale è forte della posizione di non avere problemi e comunica in maniera fredda; in basso, abbiamo una persona che ama un’altra persona, cercando di camminare insieme, per risolvere il problema.

Ecco come si può fare per aiutare chi prova ad aiutare.

Ricordiamoci che anche se è necessario proteggerci diventando a volte freddi e scostanti da chi sta soffrendo, dobbiamo fargli sentire tutta la nostra disponibilità, anche se misurata, razionale e lucida.

“Caro medico, non caricarti di troppo lavoro, cerca di scoprire qual è il tuo limite, prova a dare una mano ad altri che vorrebbero fare il tuo stesso lavoro affinché, questi altri, evolvano e ti diano una mano a dare una mano ad aiutare. Tutto questo ti aiuterà a scaricare quel di più di apprensione e di tensione, mettendoti in condizione di sollevarti da quel dolore che provi, ogni qualvolta scopri di non essere stato capace di aiutare chi ti tendeva la mano per avere qualcosa che tu forse non puoi dare. Se tu hai dato la mano alla persona che te la tendeva, tu hai svolto il compito per il quale stavi lì e per il quale ti sei preparato ed hai lottato nel tempo”.

Poi, non dimentichiamo una cosa elementare: la comunicazione.

Anche quando sui giornali, in televisione, via Internet, utilizziamo dei termini, facciamo attenzione perché, quei termini, quelle definizioni, li leggerà anche chi ha o pensa di avere un problema.

Quando usiamo terminologie come, ad esempio, patologie incurabili, commettiamo un errore grave: al limite saranno inguaribili, ma non incurabili, perché tutto può essere affrontato e curato e tu puoi vivere tanti anni in compagnia di quel problema. Forse prenderai le misure, adatterai la tua vita e tirerai fuori il meglio di te, ma non sarà incurabile. Ecco, quindi, come fare per provare a prendere in considerazione l’idea di aiutare e di curare chi pensa di aiutare. Anzitutto cura te stesso, aiuta te stesso per essere più efficiente nel momento in cui vuoi dare una mano a chi vuoi osservare sorridere.

Quanto contano in tutto ciò condizionamenti e pregiudizi?

“Niente, niente e ancora niente! Questo encefalogramma dimostra che ci troviamo, come al solito, di fronte ad una delle tue statue!” – “Si, ma questo come lo spieghi? Questo è un picco di attività relazionale!” – “é solo un intervallo di intermittenza, all’interno di una calma piatta!” – “Ti sbagli, tutto il resto è intermittenza! Qui sono io che gli dico il suo nome!”

Come possiamo intuire dall’immagine, Il filosofo Francesco Bacone evidenziava l’importanza di usare la mente, più che fidarsi esclusivamente (e senza verifica logica) delle informazioni che ci arrivano attraverso i sensi perché, queste informazioni, dovranno essere poi elaborate; se le prendessimo in quanto tali e basta, il cervello diventerebbe del tutto inutile. Una volta Einstein, rendendosi conto delle assurdità commesse durante la seconda guerra mondiale, disse: ” Se il buon Dio avesse saputo tutto ciò, ci avrebbe evitato di portare il peso del cervello in testa perché il midollo spinale sarebbe stato più che sufficiente”.

Quando ci troviamo di fronte a delle situazioni che, statisticamente, possono non avere uno sbocco positivo, questo non significa nulla, questo non è nulla di definitivo. Significa che quello, è il limite raggiunto da chi ha provato ad aiutare, ma non è il picco più alto; tanto più che noi conosciamo ben poco dell’essere umano.

Genitori, professori, medici, quante volte nel momento in cui incontriamo, incontrate una persona con delle difficoltà, un figlio con delle difficoltà, un paziente con delle difficoltà, un alunno con delle difficoltà, ecco… quando gli altri dicono: “Ma non vale la pena, ma vedi che i libri ti dicono che più di tanto non può fare” – e noi (e voi) ci mettiamo (e vi mettete) d’impegno a dimostrare il contrario…

Un ragazzo, all’interno di una scuola, “etichettato” in maniera poco lusinghiera che, a seguito di un trattamento umano, professionale da parte di un docente, a fine ciclo dell’anno scolastico ha scritto questo pensiero: “A volte il sole mi fa paura; non la vita, l’amicizia, l’affetto. C’è qualcosa nel mio cuore che non riesco a capire. Io vado controvento, perché vado come piace a me”. Forse perché il sole lo costringe a chiudere gli occhi e gli impedisce di affrontare correttamente, osservandoli, gli ostacoli del quotidiano?

Quanti di noi sarebbero stati in grado di pensare e di scrivere qualcosa del genere?

“Risvegli”, come spiegato al’inizio, è una storia reale, riprende il libro del neurologo Oliver Sacks; la storia di un medico che, a dispetto dei pregiudizi e dei condizionamenti, si rende conto del fatto che alcuni pazienti in coma vegetativo, attraverso la somministrazione di un farmaco, hanno ottenuto di poter ritornare ad una vita di relazione. Dopo un po’ questo farmaco comincia a non funzionare e c’è lo strazio del medico e delle persone che si rendono conto che non si trovano al cospetto di Dio.

Ma perché tutto questo accade?

Forse perché il farmaco ha creato un’assuefazione, forse perché la Società non è stata pronta ad accettare il reingresso di persone che considerava di dover mettere da parte; queste persone lo hanno “sentito” e, forse, hanno aumentato la velocità di assuefazione. Si evince una realtà fondamentale: “risvegli” due volte. Quando, queste persone si sono risvegliate e quando si è risvegliata la coscienza delle persone che hanno detto: “Vogliamo provare ad aiutare chi vuole aiutare affinché tutto abbia un senso migliore”.

“Lo dobbiamo ricordare… glielo dobbiamo ricordare com’è bello!” – “cos’è bello, Leonard?” – “Leggi il giornale… ci sono solo notizie negative! Hanno dimenticato che cos’è la vita! Hanno dimenticato cosa significa essere vivi! E c’è bisogno che qualcuno gli ricordi che cos’è che hanno e cos’è che potrebbero perdere! Io sento il dono della vita, la gioia della vita, la libertà della vita… la meraviglia della vita!”

“Abbiamo avuto un’estate straordinaria, una stagione di rinascita e di innocenza: un miracolo, per 15 pazienti e per noi, i loro custodi! Ma ora, dobbiamo tornare alla realtà del miracolo. Potremmo dare la colpa alla scienza e dire che è stato il farmaco a fallire o che è stata la malattia a tornare. Oppure, che i pazienti non hanno resistito alla perdita di decenni delle loro vite. La verità è che non sappiamo che cosa è andato male o che cosa è andato bene. Noi sappiamo soltanto che, allo svanire della speranza farmacologica, è seguito un altro risveglio: abbiamo capito che lo spirito dell’uomo è più forte di qualsiasi farmaco e che questo spirito ha bisogno di essere nutrito! Il lavoro, il gioco, l’amicizia, la famiglia. Sono queste le cose che contano. E noi, l’avevamo dimenticato! Le cose più semplici…”

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