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Il seguente lavoro, è stato pubblicato, per la prima volta, il 2 Aprile 2005. A distanza di quasi diciassette anni, si è sentito il bisogno di aggiungere quanto meno, l’arricchimento che l’esperienza (professionale ma, soprattutto, umana) ha fornito.

BUONA LETTURA

IL MIO NOME E’ NESSUNO

“Caro Nessuno, morire non è poi la cosa peggiore che possa capitare ad un uomo, guarda lì, sono morto da tre giorni e finalmente ho trovato la pace. Dicevi sempre che la mia vita era appesa ad un filo, beh! Adesso anche la tua è appesa ad un filo”

.”Uno è andato”

“Cerchiamo l’altro”

“E sono in molti a volerlo tagliare, quel filo… ma a te piace rischiare. È il tuo modo di sentirti vivo! Ecco, vedi forse la differenza fra te e me è tutta qui. Io quando capivo che c’era un guaio in vista se potevo lo evitavo, tu no! Se il guaio non c’è te lo inventi e poi risolvi tutto lasciando il merito ad un altro, così puoi continuare ad essere Nessuno. Non è mal pensata sai! Ma stavolta hai giocato grosso e sono già in troppi a sapere che sei qualcuno… così, finirai anche tu per farti un nome e allora vedrai che non avrai più tempo per giocare e sarà sempre più dura, finché magari, troverai anche tu uno che ti vuol mettere nella storia. E , per tornare ad essere nessuno si può solo morire.

Beh! D’ora in poi dovrai camminare nelle mie scarpe e forse ti passerà un po’ di tutta quella voglia di ridere che hai. Ma, una cosa la puoi ancora fare: conservare un po’ di quella illusione che faceva muovere noi altri, quelli della vecchia generazione. E anche se lo farai con il tuo solito tono da burla, te ne saremo grati lo stesso perché, in fondo, ai miei tempi eravamo dei romantici: credevamo ancora di poter risolvere tutto con un faccia a faccia con un buon colpo di pistola.

Allora il West era immenso, sconfinato, deserto, un posto dove non si incontrava mai due volte la stessa persona. Poi, beh! Sei arrivato tu ed è diventato piccolo, affollato, ci si incontra continuamente.

Eppure, se tu puoi ancora andare in giro acchiappando mosche lo puoi fare anche perché, prima, ci sono stati quelli come me.

Si, quelli che devono finire sui libri di storia perché la gente deve pur credere in qualcosa, come dici tu! Ma non potrai certo farlo per molto tempo ancora; il Paese è cresciuto, è cambiato, io non lo riconosco più e già mi ci sento straniero ma, quello che è peggio, è che anche la violenza è cambiata. Si è organizzata e un buon colpo di pistola non basta più ma tu lo sai già, perché questo è il tuo tempo, non più il mio.

A proposito! Ho trovato anche la morale della storiella che raccontava tuo nonno, si! Quella dell’uccellino che la vacca aveva coperto di merda per farlo star caldo e poi fu tirato fuori e mangiato dal coyote. È la morale dei tempi nuovi: non tutti quelli che ti buttano della merda addosso lo fanno per farti del male, non tutti quelli che ti tirano fuori dalla merda lo fanno per farti del bene ma, soprattutto quando sei nella merda fino al collo stai zitto!

Perciò, uno come me deve andarsene.

E, devo dire la verità, la tua è stata una buona idea, all’altezza dei tempi nuovi, con il tuo finto duello hai trovato il modo più pulito di farmi uscire dal West. Del resto io sono stanco e gli anni non fanno dei sapienti: fanno solo dei vecchi. È vero che si può anche essere come te: giovani di anni e vecchi di ore. Sto sputando sentenze eh? Ma è colpa tua! come vuoi che parli un monumento nazionale? Ti auguro di incontrare uno di quelli che non si incontrano mai, o quasi mai, così potrete farvi compagnia. Per me è difficile che il miracolo si ripeta ma, come si dice la distanza fa più cara l’amicizia e l’assenza la fa più dolce. Ma adesso che non ti vedo da tre giorni comincio già a sentire la tua mancanza. Beh! Ora ti devo proprio lasciare e, anche se sei un gran ficcanaso, rompiscatole, impiccione, grazie di tutto. Ah, dimenticavo, quando vai dal barbiere, assicurati che dietro il grembiule ci sia sempre la faccia giusta”.

“Il mio nome è Nessuno” è un film western del 1973, diretto da Tonino Valeri in collaborazione con Sergio Leone. Alla fine dell’800, l’era romantica del Selvaggio West si avvia alla conclusione, trasformando un’epopea, in quel coacervo di conflitti e contraddizioni che, fra rivalse e sensi di colpa, ci ha accompagnato fino ad oggi, in un’epoca di tale assenza di valori che, oramai, siamo colmi di rimpianti, rimorsi e sensi di colpa.

Ma, spesso, non ne individuiamo, nitidamente, le motivazioni effettive.

“Perdono”. Termine latino la cui particella “per”, indica un compimento rafforzativo, nel donare qualcosa. Una sorta di riposizionamento in grazia, di un’offesa obliata” (etimo.it). Nei dizionari della lingua italiana, è definito in vari modi:

  • “Gesto umanitario con cui si rinuncia a ogni forma di rivalsa, di punizione o di vendetta nei confronti di un offensore”;
  • “Atto individuale di clemenza con cui una pubblica autorità condona una colpa ad un individuo; provvedimento generale di clemenza con cui si dichiarano estinti determinati reati o si rimettono le relative sanzioni”;
  • “Remissione dei peccati concessa da Dio”;

“Vendicare”, in Latino, indica un sorta di liberazione attraverso la determinazione di un prezzo da pagare, al fine di ottenere il riscatto dalla condizione di difficoltà. È evidente che , nel tempo, si è data un’impostazione differente, perché i dizionari identificano, col termine “vendetta” un “danno materiale o punizione arrecati ad altri, per ottenere soddisfazione di un’offesa o di un torto subito”.

Quale che siano gli intendimenti che vogliamo attribuire al vocabolo in questione, resta il fatto che, distorcendone il significato originario, si corre il rischio di non ottenere la necessaria soddisfazione. Infatti, se i latini cercavano il modo di tornare ad essere liberi da uno stato di frustrazione, nel momento in cui lo stato d’animo di colui che cerca vendetta avvelena l’umore personale, in nessun modo si raggiungerà lo scopo.

Da qualche tempo, i cardiologi valutano con particolare attenzione l’impatto dei fattori psicologici sulla salute cardiovascolare. E così, se si ipotizza che la crisi economica e Pandemica che ci attanaglia, possa aumentare considerevolmente li accidenti cardiovascolari, c’è chi consiglia di sorridere a se stessi (nonostante tutto) e di andare incontro al proprio giorno senza troppi patemi frutto, tra l’altro, di pregiudizi quasi mai confermati dai fatti: tutto ciò, servirebbe a salvaguardare l’apparato cardiocircolatorio.

Inoltre, ricerche dell’Università del Michigan e del Tennessee hanno dimostrato che oltre a diluire la rabbia e a ridurre lo stress, riconciliarsi (con sé e con gli altri) abbassa la pressione sanguigna e aiuta a guarire, addirittura, l’artrite (compresa quella psoriasica). Questi meccanismi sono spiegati abbastanza bene dall’intervento dell’epigenetica.

La capacità di perdonare è diventata, così, materia di studio.

Infatti, hanno chiamato proprio “Progetto perdono”, un’altra ricerca condotta nella Stanford University. “Ogni relazione è un processo attivo; allora, anche ogni tentativo di ripararla dovrebbe essere un processo attivo”, sottolineano i ricercatori, che rivestendo i panni del Counselor, consigliano alcune accortezze come, ad esempio: prestare attenzione ai sentimenti dell’altro, chiedergli cosa prova, dimostrargli di avere bisogno della sua comprensione e di un chiarimento conciliatorio. Per avere un effetto terapeutico, il tutto dovrebbe essere fatto entro poco tempo dal litigio evitando, in tal modo, l’aumentare del risentimento.

Sostanzialmente, è preferibile il perdono rispetto alla vendetta. Ma ciò, vale in ogni caso?

Partiamo dal principio che, perdonare qualcuno, porta a capire le motivazioni che lo hanno indotto ad offenderci accettando l’idea che tutti possiamo sbagliare in maniera inversamente proporzionale alla maturità acquisita e direttamente proporzionale al grado di stress raggiunto.

Questo, frena il nostro risentimento consentendoci di calibrare al meglio il grado di suscettibilità. Tutto ciò è utile, inoltre, perché porta a cancellare dal proprio cuore e dalla propria mente, stati d’animo come rancore e risentimento, che sarebbero dannosi, anzitutto, per la propria persona.

Vendicarsi per un torto subito, porta ad infliggere una punizione per ritorsione. Questa situazione, apparentemente, compensa una condizione di squilibrio ma, in realtà, oltre a metterci in una irreale posizione di superiorità di fronte a chi ha “mancato” nei nostri confronti, crea un periodo di rabbia ulteriore che dura per tutto il tempo impiegato a studiare la strategia più incisiva. Inoltre, tutto ciò potrebbe innescare un pericoloso effetto boomerang, nel caso in cui si producano, successivamente, dei sensi di colpa. Non esiste un codice etico comportamentale cui ispirarsi, a seconda delle circostanze. Possiamo, invece, rifarci a ciò che sentiamo di dovere o potere mettere in atto, in funzione dello stato d’animo del momento e, più in generale, delle capacità maturate.

E come la mettiamo, con la rabbia che “grida” vendetta?

Innanzitutto, cos’è la rabbia e cosa produce in chi la prova? Sembra facile rispondere: è un accumulo di aggressività che, da conflittuale, diventa sempre più negativa ed è legata, per lo più, ad ostacoli che comportano dei ritardi rispetto a progetti che abbiamo previsto di concludere in un certo tempo.

Ma è sempre così?

Vediamo un pò: la rabbia può essere diretta al mondo esterno o al mondo interno. Nel primo caso, ciò è dovuto a torti che riteniamo di aver subito e la cui reazione abbiamo cercato di reprimere per un certo periodo di tempo, producendo un accumulo di tensione che, poi, può sfociare anche in gesti eclatanti. Nel secondo caso, ce la prendiamo con noi stessi quando ci riteniamo responsabili delle frustrazioni che subiamo, anche quelle a carico di altri, magari quando siamo convinti che non abbiamo agito nella maniera più opportuna.

Riflettendo, è possibile, che la collera sia un’emozione universale, selezionata dall’evoluzione, nel senso che chi reprimeva i fastidi moriva troppo presto!

Effettivamente non è utile lasciare che la rabbia per uno o più torti subiti rimanga in circolazione a fare danni, nel nostro organismo. Si potrebbe, ad esempio, cercare qualcuno cui confidare le proprie difficoltà, una persona con cui sfogarsi, insomma. In aggiunta, un po’ di attività fisica supplementare non guasterebbe. L’obiettivo deve essere quello di tendere a riacquistare la necessaria lucidità per attuare le giuste valutazioni finalizzate ad “uscire dal pantano” e ricominciare a guardare “oltre” e “dentro”… alle cose più importanti.

Come affrontare quella situazione di saturazione interiore, che diventa più intensa man mano che aumentano gli impegni da sostenere?

Solitamente, le manifestazioni più frequenti consistono nelle reazioni esplosive (che, però, spesso, si accompagnano ai sensi di colpa) o nell’inibizione emotiva, con meccanismi di repressione e inibizione emotiva (ma questo, spiana la strada ai disturbi psicosomatici). E se provassimo a ridurre i motivi di irritazione, compartimentandoli in maniera preventiva? Come dire, in parole povere, che si possono preventivare le frustrazioni contro cui si impatterà, in base al proprio piano di lavoro e all’ambiente in cui ci si trova ad operare: in un certo qual modo, si creerebbero i presupposti per delle frustrazioni programmate (salvo imprevisti).

Però!

Molto dipende da come si riesce a riflettere sulle priorità e mantenere un corretto dialogo con se stessi: “Siccome ci arrabbiamo perché pensiamo, basterà pensare in modo diverso per arrabbiarsi meno spesso” (Saggezza orientale).

Nel momento in cui ci si rende conto di essere responsabile di una determinata situazione o di un evento particolarmente negativo, non viene “spontaneo” arrabbiarsi, quanto meno con se stessi?

Si ma non è produttivo. Infatti, essendo la rabbia a carica aggressiva, comporta una reazione che diventa punitiva, in questo caso, nei propri confronti. Quello che servirebbe, invece, sarebbe analizzare le motivazioni che hanno condotto a commettere gli errori, nella maniera più fredda e razionale possibile e, quindi, agire per eliminarle. Solo in questo modo, la volta successiva, si avranno maggiori probabilità di successo. Prendendosela con se stessi, invece, si cercherà di comportarsi diversamente solo in funzione del ricordo relativo allo stato d’animo autopunitivo e non tanto perché siamo cambiati nel nostro modo di essere.

Rendersi accessibili a se stessi significa, automaticamente, riuscire ad essere comprensivi verso se stessi?

Accessibile significa disponibile al dialogo e, in genere, il dialogo avviene tra due persone pronte ad ascoltare, prima ed a parlare, dopo. Un buon ascolto porta all’ingresso di informazioni che possono influenzarci positivamente e farci cambiare idea. In conclusione, essere accessibili significa darsi la possibilità di cambiare al meglio e di non danneggiarsi. Se non sei accessibile non ti puoi nemmeno parlare e se hai deciso, per abitudine, di mettere in atto una strategia autolesionistica, la porti avanti fino alla fine. Quante volte, infatti, ci si dice “io provo a convincermi che le cose dovrebbero andare diversamente, ma non riesco a cambiare?”

“La collera, in effetti, sembra prestare fino ad un certo punto orecchio alla ragione: epperò intende malamente, alla stregua di quei servitori frettolosi che escono correndo prima di aver ascoltato fino in fondo ciò che viene loro detto e poi si sbagliano nell’esecuzione dell’ordine” (Aristotele – Etica nicomachea).

In quei momenti, non siamo accessibili, stiamo parlando ad un muro. Però, a furia di parlarne, di queste cose, pian piano si diventa permeabili e, siccome, a livello inconsapevole, non siamo degli stupidi (altrimenti non ci porremmo il problema), ci convinceremo, senza accorgercene (e questo è il bello!) che è bene cambiare sistema. L’ideale sarebbe provare a guardarsi, come in uno specchio immaginario, per tranquillizzarsi del fatto che, i propri insuccessi sono da considerarsi retaggi di ciò che non si sapeva. “Agisci da uomo di pensiero e pensa da uomo di azione” (Anonimo).

Qual è la differenza tra subire e perdonare?

Subire comporta l’essere costretto a sopportare. Perdonare porta a capire, comprendere e, “concedendo il Perdono” posiziona su un piano di superiorità conciliativa come quella, ad esempio, dei signori Romani che, usando la verga, si garantivano la vindìcta, liberando lo schiavo da una condizione di inferiorità. Quindi, col perdono, ci si eleva sull’altro, evidenziando la superiorità e la capacità di liberarlo attraverso un prezzo come, ad esempio, il chiarimento. Che, poi, etimologicamente, equivale a vendicarsi.

Effettivamente, non è utile lasciare che la rabbia per uno o più torti subiti rimanga in circolazione a fare danni, nel nostro organismo. Si potrebbe, ad esempio, cercare qualcuno cui confidare le proprie difficoltà, una persona con cui sfogarsi, insomma (ovviamente, meglio se capace di ascoltare senza giudicare). In aggiunta, un po’ di attività fisica supplementare non guasterebbe. L’obiettivo deve essere quello di tendere a riacquistare la necessaria lucidità per attuare le giuste valutazioni finalizzate ad “uscire dal pantano” e ricominciare a guardare “oltre” e “dentro”… alle cose più importanti.

Come si può agire, per evitare di reprimere?

Partiamo dal principio che, il reprimere, può rientrare in uno dei “meccanismi di difesa mentali” (individuati da Anna Freud e perfezionati fino ai giorni nostri) di alto livello. Resta il fatto, però, che pur consentendoci di evitare di perdere il controllo delle nostre emozioni, comprimere stati d’animo conflittuali, genera scariche bioelettriche e bioumorali (neuromodulatori) sul sistema neurovegetativo, con ricaduta negativa su organi e apparati.

Si potrebbe, quindi, pensare ad una sorta di sublimazione o, anche, razionalizzazione del problema.

Ad esempio, proviamo a domandarci: cosa si reprime? La risposta, sarà: “un sentimento, uno stato emotivo”, in base agli eventi! Quindi, per prima cosa, è necessario analizzare gli eventi e fare una serie di riflessioni.

Ad esempio, se, riflettendoci su, si scopre di avere torto, in un contraddittorio, non ha senso ribellarsi all’altro e poi reprimere lo stato d’animo!

Nel caso in cui, invece, i fatti mostrino che non dipende da responsabilità personali l’evento a seguito del quale ci sente costretti a reprimere ma che è soltanto una motivazione di aggressività da parte dell’altro, bisogna fare dei ragionamenti relativi a chi ci ha dato fastidio; se la persona ci interessa si può, temporaneamente, sospendere il fastidio (non reprimerlo) per analizzare (in un secondo momento), insieme, l’evento frustrante; se la persona non è così importante, per noi, si può decidere di non prendere proprio in considerazione la “provocazione”, oppure di reagire anche violentemente, a seconda della capacità di metabolizzazione energetica di quel preciso momento e della eventuale pericolosità del personaggio che ci si trova di fronte.

il sistema migliore di affrontare le frustrazioni, prevede due momenti consequenziali:

  • Assorbimento della frustrazione (accettare il problema e affrontandolo, senza tentare di sfuggirgli);
  • Smaltimento della frustrazione (“digerire” la sofferenza attivando sistemi di risoluzione).

Non disprezzare il poco, il meno, il non abbastanza
L’umile, il non visto, il fioco, il silenzioso
Perché quando saranno passati amori e battaglie
Nell’ultimo camminare, nella spoglia stanza
Non resteranno il fuoco e il sublime, il trionfo e la fanfara
Ma braci, un sorso d’acqua, una parola sussurrata, una nota
Il poco, il meno il non abbastanza.
(Stefano Benni)

Spesso si dice “Ho perdonato, ma non ho dimenticato”. Questo vuol dire che non è facile perdonare. Qual è il motivo per cui, anche se si decide di non reagire di fronte ad un torto ricevuto, resta il risentimento?

È chiaro che il ricordo di una forte delusione è difficile da rimarginare. L’esperienza patita, però, potrà servire a farci aprire gli occhi in futuro, senza per questo aumentare la diffidenza verso gli altri. Migliorando le nostre capacità di valutazione.

Cosa occorre fare per liberarsi di quel bagaglio di odio, risentimento e amarezza che fanno vivere male, anche se cerchiamo di nasconderli, evitando, peraltro, che il rancore covato per anni ci porti, poi, a rinfacciare il torto subito a distanza di tempo?

“Pioggia e sole cambiano, la faccia alle persone, fanno il diavolo a quattro nel cuore e passano e tornano e non la smettono mai. Sempre e per sempre tu ricordati dovunque sei, se mi cercherai. Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai. Ho visto gente andare, perdersi e tornare e perdersi ancora e tendere la mano a mani vuote. E con le stesse scarpe camminare per diverse strade o con diverse scarpe su una strada sola. Tu non credere se qualcuno ti dirà, che non sono più lo stesso ormai. Pioggia e sole abbaiano e mordono, ma lasciano, lasciano il tempo che trovano. E il vero amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai. Sempre e per sempre, dalla stessa parte, mi troverai” (Francesco de Gregori).

La vita ci mette nelle condizioni di cambiare in maniera sostanziale… e renderci capaci di tutto. Bisogna saperlo per essere in grado di aprire le grandi ali dell’amore, per perdonare quelli che ci hanno tradito e colpito al fegato.

Perchè non “al cuore”?

Perchè, in quel caso la morte (e la fine della sofferenza) sarebbe immediata. Nel vecchio West ciò che si temeva di più era di essere colpiti da un proiettile al fegato. L’agonia sarebbe stata lunga e penosa.

Una persona che ha difficoltà a perdonare se stessa, può perdonare gli altri?

È curioso osservare come, nelle curve della nostra memoria, esistano pieghe in cui possa attecchire un forte risentimento nei confronti di ciò che riteniamo essere le occasioni mancate e le opportunità perdute, di cui ci sentiamo responsabili. È più facile capire i limiti altrui che accettare l’idea di doversi “accontentare”. È una delle nostre “condanne alla vita”, purtroppo.

Ricordiamoci, comunque, di utilizzare una graduatoria di motivi per stabilire se, come e quanto arrabbiarci e/o infelicitarci per un periodo breve, medio o lungo. In sostanza, quale che sia la strategia esistenziale, che almeno ne valga la pena, su un piano oggettivo.

In conclusione, comunque decidiamo che la nostra vita debba andare, sull’onda del fastidio o accarezzando un attimo di pace, ogni mattino, ciascuno di noi si ritrova con un giornata da inventare e molti obiettivi non ancora raggiunti, di fronte a quel mare che è il bivio fra la speranza e la prospettiva, con le proprie custodie vuote, che si riempiono dei richiami dei gabbiani. A quel punto, non possiamo non trovarci d’accordo sul fatto che il più bel sogno è quello che si vive ogni istante in cui, trattenendo il fiato dall’emozione, un minuto durerà, per noi, una vita intera.

“Mio fratello che guardi il mondo e il mondo non somiglia a te… mio fratello che guardi il cielo e il cielo non ti guarda. Se c’è una strada sotto il mare prima o poi ci troverà, se non c’è strada dentro al cuore degli altri prima o poi si traccerà. Sono nato e ho lavorato in ogni paese e ho difeso con fatica la mia dignità. Sono nato e sono morto in ogni paese e ho camminato in ogni strada del mondo, che vedi. Mio fratello che guardi il mondo e il mondo non somiglia a te… mio fratello che guardi il cielo e il cielo non ti guarda. Se c’è una strada sotto il mare prima o poi ci troverà, se non c’è strada dentro al cuore degli altri prima o poi si traccerà” (Ivano Fossati).

La prossima volta che digrigneremo i denti… pensiamoci.

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