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Una delle polemiche più aspre – in materia di bioetica – vede, in continuo raffronto e scontro, religione e scienza, Chiesa Cattolica e laicismo libertario, Fede e Ragione.

 Ma come sia possibile mettere a confronto la ricerca medica e Dante Alighieri non sembri né azzardato, né blasfemo: basta, a tal proposito, andare a rileggere uno dei Canti della Divina Commedia ove la presente problematica è trattata con dovizia di particolari che riescono a conciliare la “vexata quaestio” sull’anima e sul concepimento della vita umana.

 Il Canto in questione è il XXV del Purgatorio, dove il Poeta e la sua guida, Virgilio, incontrano il poeta latino STAZIO – vissuto tra il 45 ed il 96 dopo Cristo – napoletano di origine, autore di un opera in versi, ” la Tebaide “.

 Si è nella sesta cornice del secondo regno ultraterreno, ove scontano la pena coloro che in terra peccarono di avarizia o di prodigalità.

Anche in questo Canto, Dante gioisce dell’occasione per esprimere, ancora una volta, la sua ammirazione per il sommo Virgilio ; Infatti, il poeta Stazio, venuto a conoscenza del nome della guida di Dante, si prostra ai piedi di Virgilio nel tentativo di abbracciarli, per come era uso, a quei tempi, onde esprimere l’ammirazione e la riconoscenza verso chi era dotato di sapienza e saggezza.

 Ritornando alla problematica iniziale, Dante non ritiene storicamente opportuno affidare a Virgilio la trattazione di un argomento così alto, per cui affida a Stazio la risoluzione di un dubbio, già espresso alla sua guida; e ciò, per sostenere, con più autenticità, la tesi aristotelica e tomisca circa l’inizio dell’effettiva vita spirituale del feto, dal momento che Stazio era vissuto in età cristiana.

 Stazio, e per lui Virgilio, e, per ambedue, Dante, fedele alla filosofia aristotelica ed alla interpretazione che della stessa ne ha dato S. Tommaso d’Aquino, prende in esame, innanzitutto, con la delicatezza poetica che gli è propria, il mistero del concepimento, per come si conosce al giorno d’oggi, in armonia con l’attuale scienza ginecologica, per poi passare alla dimostrazione genetica e teologica dello sviluppo fetale e della strutturazione fisiologica dello stesso.

 Abbiamo già accennato alla concezione aristotelica che considera tutta la multiforme vita che si origina nella natura dotata di anima vegetativa: è il caso del mondo vegetale; nelle forme vitali animalesche, alla prima si aggiunge l’anima sensitiva.

 Solo al feto umano, e solo a questo, viene infusa da Dio l’anima intellettiva: ma ciò avviene solo allorché nel nascituro è avvenuto lo sviluppo completo del cervello, per cui questa anima assorbe le altre due, tale da svolgere anche le funzioni vegetative e sensitive ; tutto ciò Dante sintetizza in appena nove versi, e cioè dal verso 69 al verso 78, sempre del XXV canto : e val la pena riecheggiarli :

” …… si come tosto al feto

L’articular del cerebro è pefetto,

Lo Motor Primo a lui si volge lieto

Sovra tant’arte di natura, e spira

Spirto nuovo, di verità repleto,

che ciò che trova attivo quivi, tira

in sua sustanzia, e fassi un’alma sola,

che vive e sente e in sé e in sé rigira.

E perché meno ammiri la parola,

guarda il calor del sole che si fa vino,

giunto a l’omor che de la vite cola.”

Ma perché l’anima, quella infusa dal Creatore informa di sé il nascituro ?

 A questo interrogativo Dante risponde con un solo aggettivo “perfetto”, cioè il feto è opera di natura, completa ed armonicamente strutturata, solo allorchè il sistema nervoso si completa nella strutturazione del cervello; né, d’altra parte, un’entità immortale ed eterna, espressione della potenza divina può, santificare ciò che non è completo. Nella Genesi, si legge, peraltro, che Dio creò Adamo, in forme a Lui simili, pertanto perfette e ben strutturate; non diede anima ad un feto!!!

Ovviamente, questa rimane interpretazione personale, non certo mia, ma del sommo Dante, che, se fosse nostro contemporaneo, non troverebbe alcun motivo religioso che fosse ostativo all’uso di cellule prelevate da ovuli fecondati.

 Giuseppe Chiaia (3 dicembre 2004)