La visione del telefilm che narra la vita drammatica e coraggiosa di Don Gnocchi induce a considerare “Frigido pacatoque animo” quel tristo e doloroso periodo storico dell’Italia che va dalla fine della Prima Guerra Mondiale fino all’insediamento del Fascismo nella vita politica italiana, considerandone le cause, i personaggi che ne determinarono gli eventi e le prospettive drammatiche che ne derivarono.
Proviamo a tracciare, per sommi capi, la figura di Benito Mussolini.
Nacque nel 1883, in una frazione di Predappio, DOVIA, nella effervescente provincia di Forlì, là dove socialisti ed anarchici avevano molto in comune in fatto di donne, buon vino, ed interpretazione rivoluzionaria della storia.
Il padre, Alessandro, faceva, a tempo perso, il fabbro, piuttosto assiduo, invece, della locale osteria; l’unico vero sostegno economico della famiglia era rappresentato dalla madre, Rosa Maltoni, che costrinse il ribelle Benito a frequentare le scuole, proprio per predisporre un futuro dignitoso al figlio e sottrarlo alla miseria del lavoro manuale; e Mussolini entrò, di malavoglia, nel collegio salesiano di Faenza, dal quale fu espulso per aver accoltellato un suo compagno ad una gamba; e Rosa Maltoni, con pazienza e determinazione, riuscì a farlo ammettere in un altro collegio, questa volta gestito da laici, era il “Giosuè Carducci” di Forlimpopoli, dal quale ne uscì col diploma di maestro elementare.
Insegnò in una scuola elementare nel comune di Gualtieri, ma per un solo anno, perché il Sindaco non gli rinnovò la supplenza ( a quei tempi le scuole elementari erano organizzate dai Municipi, cui spettava la nomina dei docenti) a causa di un comportamento ritenuto, all’epoca, estremamente deprecabile sul piano della morale, per aver sedotto, il focoso Benito, una ragazza appena sposata; non a caso, nell’aneddotica che gli appartiene, il Duce si dimostrerà un assiduo e battagliero frequentatore di note e meno note alcove.
Emigrò, quindi nella vicina Svizzera dove frequentò, per i quasi due anni di permanenza, i circoli culturali anarchici e socialisti dei nostri emigranti, e fu in questo soggiorno che si accorse, forse per la prima volta, di possedere quell’oratoria spavalda ed aggressiva – tanto diversa dalla prosa magniloquente del D’Annunzio – allorché si confrontò con un pastore protestante del luogo circa l’esistenza di Dio; infatti, riuscì ad ottenere uno scrosciante applauso dell’uditorio quando, zittito il medesimo ed il suo contraddittore, togliendosi dal taschino del gilet l’orologio, disse: ” Se Dio c’è, Gli dò due minuti per fulminarmi “; ovviamente, il Buon Dio aveva altre e più divine faccende da svolgere, per cui, trascorsi i due minuti senza deleteri effetti, al giovane Benito non restò che raccogliere l’ovazione del pubblico presente.
Fu a Ginevra che conobbe una donna molto nota negli ambienti del socialismo internazionalista: era Angela Balabanoff, una emigrata russa dai fianchi opimi, che lo avviò ad apprezzare la passionalità dell’ideologia anarchica e socialista, presupposti ideologici, spesso, di più sensuali amplessi.
Con queste idee per la testa, il Benito si rifiutò, nel 1903, di adempiere al servizio di leva, per cui fu condannato ad un anno di reclusione, ma essendo contumace ( perché, nel frattempo, era emigrato in Svizzera) dovette attendere il rientro in Italia, nell’anno successivo, il 1904, per effetto di un’amnistia; ma fu obbligato a svolgere, comunque, il prescritto sevizio di leva, per cui scelse il corpo dei bersaglieri, ed al termine della ferma trovò lavoro presso un giornale d’ispirazione socialista in quel di Trento, grazie all’interessamento della Balabanoff; il giornale s’intitolava “L’avvenire del lavoratore”.
Questa esperienza giornalistica appalesò, appieno, il carattere focoso che avrebbe caratterizzato ogni suo futuro manifestarsi, sia negli scritti che nei discorsi: Ma Trento era una città sotto dominazione austriaca, dove il moderato De Gasperi e l’irredentista Cesare Battisti usavano, nei loro articoli, toni confacenti al carattere nordico ed austriacante dei trentini; conseguentemente Mussolini fu espulso da quella città e non gli restò che riparare a Forlì, col padre, che, nel frattempo, rimasto vedovo, si era risposato con una vedova, tale Anna Guidi, la cui figlia, Rachele, attirò l’interesse sentimentale del Benito e con la quale convisse circa cinque anni, per poi sposarla.
Restava, comunque, una situazione di precarietà economica e proprio quando stava per cedere alla monotonia di un oscuro lavoro di scrivano ( quando, si dice, il diavolo ci mette la coda !) gli venne offerta un’altra opportunità giornalistica perché venne chiamato a dirigere un quotidiano socialista della provincia forlivese: “La lotta di Classe”; naturalmente, il suo carattere esplosivo si manifestò negli articoli che firmava; per cui, la sua prosa, esaltata e violenta, trovò apprezzamento ed accoglienza negli ambienti più estremisti del forlivese, al punto che attaccò, su quel giornale le forze moderate rappresentate dai repubblicani e dai socialisti democratici.
Ciò gli valse anche la nomina a segretario della federazione socialista di Forlì: e fu in quel frangente che si trovò a far lega politica con un giovane dotato di facondia oratoria e, per di più, dotato del carisma del vero Tribuno della plebe: quel giovane era Pietro NENNI.
Infatti, al congresso socialista del 7 luglio del 1912, arringando la platea dei congressisti, con quella sua prosa fatta di toni che si sviluppavano dal ritmo profondo e lento per poi sfociare nell’urlo della frase ad effetto, dove le pause, sospendendo la conclusione del proprio dire, lasciavano, volutamente, all’ascoltatore l’anticipazione finale del pensiero, quasi a convincerlo di un “idem sentire”, oltre che congruente sentimentalmente e logicamente con il giudizio dell’oratore, Mussolini ottenne un altro trionfo riuscendo a privare il partito socialista di uno dei suoi più prestigiosi capi: Leonida Bissolati.
Questa vittoria gli aprì la strada alla nomina a membro della direzione centrale del partito socialista, al suo trasferimento a Milano e ad assumere la direzione dell’AVANTI!, cioè di quel giornale la cui diffusione raggiungeva le più remote contrade d’Italia, il cui messaggio mediatico trovava profonda eco nell’animo di centinaia di migliaia di lettori e di lavoratori.
Infatti, nel successivo congresso socialista di Ancona del marzo del 1914, Mussolini ebbe la definitiva consacrazione a leader del movimento socialista italiano.
L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e l’annuncio delle ostilità dell’impero asburgico contro la Serbia lo videro paladino di quel pacifismo e neutralismo italiano, tanto caro alla sinistra politica; ma non era trascorso molto tempo da quella data che già nell’agosto dello stesso anno Mussolini cominciò una lenta ma decisa retromarcia dalla preannunciata neutralità.
Questa sua nuova interpretazione degli eventi drammatici del momento gli alienarono la fiducia del Partito, per cui fu espulso dall’ AVANTI!: sembrava la fine insperata di un facinoroso Catilina! Ma il destino dell’Italia era stato già tracciato da Giove o chi per esso; perché gli fu subito offerta la direzione di un nuovo giornale; e l’offerta gli veniva proposta da uno dei direttori di giornali più prestigiosi ancora oggi: da Filippo Naldi, scopritore di talent-scouts giornalisti, e direttore del “Resto del Carlino” di Bologna, che gli garantì denaro e libera iniziativa nella conduzione del giornale.
Nasceva quello che sarebbe stato l’araldo più obbligatoriamente ascoltato d’Italia per quasi trent’anni: “Il POPOLO d’ITALIA”: da quel momento Mussolini venne non solo radiato dal Partito Socialista ma additato come traditore dell’Ideale di Turati e Nenni.
Naturalmente Mussolini indossò il “grigio-verde”, partecipò in prima linea alle battaglie sul Carso, ed ebbe la ventura di non rimetterci la pelle per lo scoppio di un mortaio che gli deflagrò vicino, cospargendolo di schegge, sicché fu necessario rimpatriarlo con gli onori dovuti; e questa volta la poltrona del “Popolo d’Italia” non poteva non accogliere schiena più degna.
Intanto la Grande Guerra si concludeva tragicamente per tutta l’Europa; per l’Italia, nazione vincitrice, ci furono solo alcune briciole territoriali come il Dodecanneso, oltre, naturalmente, alla riannessione delle terre redente del Trentino e dell’amata Trieste.
Poi, trascorsa l’euforia della vittoria, una massa di reduci, di moltissimi mutilati, una improvvisa crisi economica, conseguenza inevitabile della riconversione dell’industria bellica in una primitiva produzione manifatturiera, la dilagante disoccupazione, la disperazione di chi aveva riportato più o meno integra la pelle a casa senza ricevere quel riconoscimento morale ed economico per il dovere compiuto, sfociarono in moti di piazza, in scioperi improvvisi e selvaggi che aggravarono, ancor di più la grave crisi sociale ed economica, mentre, addirittura l’ordine pubblico era minacciato.
Nel frattempo, come ho già scritto, il Re Vittorio Emanuele III si dedicava al suo passatempo preferito: la numismatica e la filatelia.
Furono quei mesi così turbolenti che dovettero suggerire a Benito Mussolini l’ardito sogno del potere assoluto; d’altra parte, un oscuro capitano Corso, Napoleone Bonaparte, non aveva forse rivestito la porpora imperiale? L’idea era affascinante; ma, per realizzarla, era necessario disporre di un’organizzazione politica e militare; e a Mussolini mancava un partito ed un guardia pretoriana alle sue dirette dipendenze.
Fu così che il 23 marzo del 1919, in Via San Sepolcro a Milano (che poi sarà nota come il covo), nella sede dell’Alleanza Industriale si costituiva il nucleo primigenio dei Fasci di combattimento; agli aderenti invitati fu recapitato il seguente invito: “Sarà creato l’antipartito e sorgeranno i Fasci di combattimento!”
I primi firmatari di quel nuovo raggruppamento furono tre ex socialisti: Mussolini, Ferradini e Ferrari; due arditi reduci del Piave: Vecchi e Meraviglia e due sindacalisti: Il calabrese Michele Bianchi e tale Giampaoli: a loro, l’altisonante titolo di Sansepolcristi: ai successivi aderenti a quella pantomima, che va sotto l’appellativo di marcia su Roma, il titolo di Sciarpa Littorio.
Il seguito, alle prossime puntate.
Giuseppe Chiaia (10 dicembre 2004)
Fine Letterato, Docente e Dirigente scolastico, ha incantato generazioni di discenti col suo vasto Sapere. Ci ha lasciato (solo fisicamente) il 25 settembre 2019 all’età di 86 anni. Resta, nella mente di chi lo ha conosciuto e di chi lo “leggerà”, il sapore della Cultura come via maestra nei marosi della Vita