Posted on

Quando avvenne il regicidio di Monza, Vittorio Emanuele III era in crociera sul mediterraneo, con la bella moglie Elena del Montenegro; appena sbarcato a Reggio Calabria, il prefetto dell’epoca lo riverì col titolo di “Maestà”, e comprese di essere Re.

C’era, nella costituzione fisica del giovane principe, un qualcosa che richiamava le fattezze fisiche della madre, la Regina Margherita, la cui bellezza si concentrava nei biondi capelli, mentre le corte gambe si accorciarono ancor di più nel futuro principe ereditario, il che incise sul suo carattere rendendolo estremamente estraneo ad ogni moto di solidarietà sociale.

Era nato a Napoli l’11 novembre del 1869 e la sua fanciullezza fu allietata soltanto da una nutrice irlandese, mentre il contatto con i genitori era rigidamente stabilito in due incontri settimanali, al giovedì ed alla domenica, ma solo nelle ore del pranzo; la sua educazione successiva fu affidata ad un generale che lo martoriò di esercizi fisici, estenuanti e dolorosissime cavalcate che accentuavano la sofferenza agli arti. E così raggiunse la maggiore età senza aver avuto quelle effusioni affettive da parte dei genitori che, sembrava, avessero una certa ritrosia a renderlo partecipe delle numerose riunioni di corte o dei famosi balli che la Regina Margherita era solita tenere ogni ultimo mercoledì del mese; eppure, questo figlio venuto su un po’ male in arnese, sembrava condividere lo stesso destino che angustiò il grande lirico dell’ottocento : Giacomo Leopardi; anche lui inviso all’arcigna madre, l’Adelaide Antici, ed al suo imbalsamato marito, il conte Monaldo. Gli unici anni felici del futuro Re furono quelli trascorsi a Napoli, al comando di un Reggimento di Fanteria, oltre alle serate trascorse tra ovattati e discreti salotti, tra le braccia di affettuose ballerine o di baronessine in cerca di avventure; questa predisposizione agli amplessi ancillari e popolari è stata prerogativa dei Savoia, a partire dal focoso Vittorio Emanuele II, tramandata, poi, all’imperturbabile Umberto I, rafforzata dal nostro Vittorio III, consolidata da quell’Umberto II che concluse la sua evanescente esistenza in quel di Casçais.

Le cose mutarono, almeno da questo punto di vista, col matrimonio con la bella e giunonica Regina Elena Petrovich, figlia di un principe montenegrino, più aduso a vestire le cioce e le pelli dei pastori che non i raffinati ricami delle austere divise nobiliari.

Una volta diventato Re, sepolto con molto distacco ed altrettanta formale cerimonia il padre, Umberto I, bandì dal Quirinale, feste, balli, banchetti e quelle dame che erano state affettuosamente di compagnia con il suo augusto genitore, mentre, da parte sua, la nuova Regina si dedicò al compito di restringere all’osso le spese folleggianti della corte.

Vittorio Emanuele III, conseguentemente, assunse un ruolo politico determinante al punto che volle essere parte decisiva nelle valutazioni e decisioni politiche che il suo governo adottava; si dice che all’indomani del suo insediamento al Quirinale, vale a dire dopo un paio di giorni dopo la sepoltura del padre, lamentandosi col primo ministro Saracco delle numerose pratiche e decreti che il sovrano assassinato non aveva avuto il tempo di controfirmare, all’uomo di governo che gli faceva presente che il Re doveva solo controfirmare leggi e decreti, per come avveniva con Umberto I, Vittorio Emanuele III rispose gelidamente: “d’ora in avanti il Re firmerà solo i propri errori, non quelli degli altri “.

Il nuovo Re saliva al trono in un momento estremamente critico e convulso della storia italiana: c’era da affrontare la crisi dell’agricoltura, i rovesci militari delle guerre coloniali volute dal Crispi che erano costate notevolmente all’erario; una stagnazione economica ammorbava la vita sociale degli italiani, i capitalisti esportavano i loro denari all’estero, ed erano ancora vivi gli echi del fallimento della Banca Romana, nella quale erano stati coinvolti i politici più in vista del momento, cioè Giolitti e Crispi; e come sempre avviene in questi casi, lo scandalo si concluse con un’altrettanta scandalosa assoluzione di tutti gli inquisiti,….. nessun riferimento al caso del Banco Ambrosiano dei nostri tempi!

Va, comunque, ascritto a merito del Crispi l’aver dato una spinta decisiva e positiva agli investimenti industriali, allorchè chiese aiuto al cancelliere prussiano Bismarck, il quale convinse alcuni finanzieri tedeschi ad intervenire in favore della nostra industria, finanziando due famose banche: La Banca Commerciale Italiana ed il Credito Italiano, che risollevarono le sorti della nostra economia, aprendo i loro forzieri al prestito a lunga scadenza, senza, per questo, coinvolgere la massa dei piccoli risparmiatori.

L’incremento della produzione industriale sortì due effetti benefici: richiamare dalle campagne mano d’opera necessaria ed alleviare, nello stesso tempo, le condizioni di vita dei contadini che avevano preferito la vita dei campi a quella della fabbrica.

Quello che ancora rimaneva irrisolto era il problema del Mezzogiorno, escluso dall’offerta dei capitali bancari per mancanza di fabbriche, escluso dalla rinascita economica perché l’agricoltura non dava quei profitti immediati che offriva l’industria, perchè ancora non c’era il sistema refrigerazione che garantiva la commerciabilità ottimale dei prodotti ortofrutticoli, perché il sistema dei trasporti, nel Sud, mancava di mezzi, di strade e di ferrovie, perché la gran massa di contadini si sentiva esclusa dalla partecipazione attiva alla vita della Nazione, perché nel corso dei secoli e sotto le più diverse dominazioni straniere, dai Cartaginesi ai Francesi ed agli Spagnoli, dai Borboni ai Padani di Bossi, il Meridione è stato considerato come un’appendice parassitaria alla quale elargire, ogni tanto quelle sovvenzioni a pioggia sulle quali è nata una classe politica privilegiata e parassitaria.

Questa era l’Italia sulla quale il nuovo Re si accingeva a regnare e nessuno poteva presagire il dramma che si stava per abbattere su tutta l’Europa a seguito di quel sanguinoso 28 giugno del 1914, quando a Sarajevo veniva ucciso, per mano anarchica, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e sua moglie. Quell’evento doveva riempire di lutti, di odi e di distruzioni non solo il nostro continente, ma estendere il galoppo dei 4 cavalieri dell’Apocalisse per tutte le contrade del mondo, fino ai nostri giorni, determinando la dissacrazione dell’uomo dissoltosi nelle spire dei fumi fuorusciti dai forni di Bukenwald, o nelle sagome disegnate sui muri di Nagasaki o nelle gelide fosse dell’arcipelago Gulag o nel pulizia etnica iugoslava o nei visi rinsecchiti degli innocenti d’Africa.

Ma di questo parleremo ancora, e poi ancora, per non dimenticare.

Giuseppe Chiaia (8 Agosto 2004)