In un codice penale del 1807, meglio inteso come “Codice Penale per il Regno Italico” (v. Novissimo Digesto Italiano, vol. III, ed. UTET) è icasticamente individuata la figura del brigante come colui che “scorre in armi le campagne”. La disperazione, la miseria, i privilegi che in quasi tutti i secoli dell’umanità hanno vessato i miseri, i deboli, gli sfruttati sono stati l’incentivo determinante di quel fenomeno che caratterizzò il Mezzogiorno d’Italia, all’indomani della sua unità meglio conosciuto come
Il Brigantaggio.
Già del periodo della Roma repubblicana, nel 185 avanti Cristo, si hanno notizie di gruppi di facinorosi e di violenti aggirantisi nelle zone del tarantino, tanto da impegnare le legioni romane in veri e propri interventi di polizia: sotto la dittatura di Silla, infatti, furono emanate leggi severissime contro i latrones, che prevedevano il supplizio della crocifissione, o l’essere sbranati da belve feroci nei giochi circensi: in questa sede ci occuperemo, invece, brevemente, della lotta intrapresa dal nuovo Stato unitario e che durò, nelle sue fasi più acute, dal 1860 al 1865, nel Sud dell’Italia.
In realtà, a favorire il brigantaggio nel nostro Meridione furono gli inglesi ed i borboni, per contrastare la conquista napoleonica ed il governo francese affidato a Gioacchino Murat, la cui tragica fine, in quel di Pizzo Calabro, avvenne il 15 ottobre del 1815, una volta sconfitto Napoleone a Waterloo.
Ma la fine del Regno di Napoli murattiano non decretò l’estinguersi del brigantaggio che perdurò anche dopo il rientro dei Borboni e che costò le sanguinose repressioni del 1817 e del 1821, con le quali, a stento, si riuscì a domarlo, ma temporaneamente (v. “Brigantaggio e processi politici del Tirreno cosentino nel sec: XIX” – ed. Brenner – di A. De Pasquale).
Si può legittimamente supporre che le fila garibaldine, durante la spedizione dei Mille, furono infoltite da questi pericolosi elementi, refrattari ad ogni disciplina e ad ogni rispetto della legalità: e di questi elementi si servì l’ultimo Borbone di Napoli, Francesco II, rifugiatosi, dopo la fuga, sotto la protezione dello Stato pontificio e, ovviamente, dei Francesi, prima a Gaeta e poi a Roma.
Siamo alla fine del 1860 e Francesco II comincia ad organizzare bande armate costituite da disertori, da renitenti alla leva piemontese, da soldati borbonici sbandatisi dopo il tracollo del Regno delle Due Sicilie, ma anche da delinquenti comuni, che furono ben armati e si costituirono in bande, che trovavano rifugi negli anfratti rocciosi della Lucania o nelle fitte abetaie della Calabria: In breve, il numero dei briganti, alla fine del 1863, raggiungeva la bella cifra di circa 80.000 uomini; alcune formazioni vantavano un numero di 2000 o 3000 uomini, che avvilupparono il Meridione d’Italia in una ragnatela di violenze, occupando, addirittura, interi paesi; interrompendo il transito sulle poche e sconnesse strade, frenando persino il lavoro dei campi, irrompendo spavaldamente, nei villaggi e nei casolari, ove spesso si autoproclamavano sindaci e governanti, spacciandosi per generali borbonici, depredando, e massacrando, con inaudita ferocia, proprietari terrieri, nobili e ricchi borghesi.
Ancora oggi, nei toponimi di certi angusti passaggi stradali provinciali, sono ricordati i luoghi dove i briganti assalivano, depredavano e scannavano; ad esempio, nei pressi della cittadina di Paola, nel cosentino, c’è un ponte caratterizzato dalla targa apposta dall’ANAS “Varco le chianghe“, cioè, passo obbligato ove il povero viandante, se non aveva denaro bastevole per pagare quell’obbrobrioso pedaggio, veniva sgozzato per come avviene ai capretti nelle macellerie ( in dialetto: “Chianga” donde il termine “Chianghiere” che sta per macellaio).
Altro luogo similare si ritrova sulla strada statale n° 19 delle Calabrie, nei pressi dell’abitato di Torano, sempre in provincia di Cosenza, dove la strada sale su una piccola altura indicata con la denominazione “Passo di Finita“, luogo incontrastato del brigante Mosciaro, negli anni intorno al 1862 e 1866, per cui fu coniato un breve distico in dialetto che così suonava: “Si si’ passato di Finita e si’ sarvato, Mosciaro o è muorto o è carcerato”. Si ritiene inutile ogni commento e relativa traduzione.
Un altro incentivo al brigantaggio era determinato, poi, da una massa indistinta di scontenti, di contadini e popolani, vessati dagli alti prezzi del pane e del sale; il primo, alimento base della sopravvivenza dei popolani; il secondo, indispensabile per la salagione e la conservazione di carni e cacciagione, non essendo ancora in uso il frigorifero.
Il nuovo Regno d’Italia si trovò, pertanto, impreparato di fronte al fenomeno; né aveva pronta una organizzazione repressiva o una forza di polizia adeguata, mentre il povero “cafone”, il contadino, speranzoso di un riscatto dall’antica oppressione latifondista e feudale, si vedeva, ancora una volta, defraudato da una legittima aspettativa di affidamento in proprietà di un pezzo di terra requisito ai pingui beni terrieri ecclesiastici. E furono proprio questi emarginati ad offrire riparo, tutela omertosa e sostegno alle bande dei briganti, oltre ad accorrere, esultanti, sotto le insegne “Sanfediste” del Cardinale Ruffo, nel vano tentativo di restaurare i Borboni e ricostituire il Regno di Napoli, mentre potentati economici e nobiltà facevano a gara per appropriarsi, a prezzi di realizzo, dei grandi latifondi posti in vendita dal governo, al fine di rimpinguare le esauste casse del tesoro ( un po’, come avviene oggi con la privatizzazione e relativa vendita “dei gioielli” dello Stato ) : e le famiglie dei contadini venivano ceduti, ai nuovi acquirenti, come “pertinenze” dei fondi rustici e valutati come attrezzi agricoli o animali stallatici.
Ecco perché, nelle raffigurazione e nelle cantilene dei cantastorie che ancora si aggirano fra i paesi chiusi fra le nebbie lucane ed i contrafforti silani, – in occasione di modeste fiere ove si vendono miserie artigianali e dove è ancora di moda il baratto più che la compra vendita – sovente sono, ancora oggi, ricordati i nomi dei più feroci ed agguerriti capi briganti come Nicola Somma, detto “Ninco-Nanco”, Gioseffi detto “Caporal Teodoro”, Luigi Alonzi, detto “Chiavone”; altri ancora sono ricordati per i loro nomi di battaglia più che di battesimo, come “Malacarne”, “Sacchitiello”, “Ciucciariello”; ma, certamente il più famoso fu Carmine Crocco, un pastore di Rionero in Vulture , disertore dell’esercito piemontese, condannato a vent’anni di carcere duro, che riuscì ad evadere, diventando il più temuto e rispettato capobanda lucano; ma la sua storia di brigante ha una curiosa rassomiglianza con quell’altro famigerato capobanda siciliano Salvatore Giuliano, che divenne bandito nell’immediato dopoguerra del 1945, allorché fu arrestato perché sorpreso a trasportare due sacchi di farina, tanto necessaria a sfamare parenti e congiunti in quei tragici giorni che concludevano la seconda guerra mondiale: Crocco, infatti, divenne bandito, invece, per aver osato assestare, da bambino, una forte bastonata al cane di un grosso proprietario terriero che gli era penetrato in casa azzannando un coniglio; la bastonata fu fatale al cane che morì, ed il signorotto non trovò di meglio che picchiare di santa ragione la madre di Crocco, facendole perdere il figlio che portava in grembo e rendendola inferma a vita.
Quel proprietario, dopo alcuni giorni fu ferito da una fucilata e, naturalmente, fu accusato del ferimento il padre di Crocco, che fu condannato ai lavori forzati a vita.
Erano trascorsi due anni di detenzione, allorché un vecchio si auto accusò del tentato omicidio, per cui l’ergastolano fu scarcerato; ma, nel frattempo, sconvolta dal dolore, la povera madre di Carmine era diventata pazza, determinando, nell’animo del figlio la furia della vendetta, per cui, Crocco si diede alla macchia, coprendosi di delitti e rapine; si unì anche alle schiere garibaldine, sperando in un condono totale dei suoi misfatti; fu, invece arrestato e condannato. Riuscì, di nuovo ad evadere organizzando una banda di predoni infoltita da soldati borbonici che, in numero di 100.000, erano stati congedati e condannati alla fame ed alla disperazione dopo la battaglia di Gaeta, senza paga, né speranza di rifarsi una vita: questo fu il risultato della miopia del governo piemontese, che non si accorse della pericolosità del fenomeno, se non quando Carmine Crocco, con una forza di oltre diecimila uomini, abbandonò boschi ed anfratti ed invase le pianure ubertose lucano-pugliesi, ovunque osannato e rispettato dalle popolazioni locali.
Solo allora, il Ricasoli, primo ministro di Vittorio Emanuele II, si decise ad affrontare la grave crisi spedendo, nel meridione, il generale Cialdini ed i suoi bersaglieri: e fu una lunga e sanguinosa guerra civile, che vide l’odio e la barbarie di ambedue le parti combattenti rasentare una ferocia tale da far rabbrividire, forse, anche i quattro cavalieri dell’Apocalisse; gli scontri si risolvevano con fucilazioni di massa, distruzione di villaggi, incendi e saccheggi operati dai bersaglieri ( un po’ come avviene nelle rappresaglie israeliane in Palestina, in risposta alle stragi dei kamikaze); ovviamente, i briganti ripagavano tali violenze con duplicata ferocia perché i soldati che avevano avuto la sfortuna di cadere prigionieri venivano, addirittura, crocifissi e fatti morire in modo orrendo.
Ma anche Carmine si era stancato del sangue e delle battaglie, per cui, nel 1864, sciolse il suo esercito, si rifugiò nella Roma di Pio IX, sperando di farla franca, fu invece arrestato ed incarcerato per sei anni, per poi essere consegnato alla giustizia italiana che lo condannò ai lavori forzati a vita: fu galeotto esemplare per ubbidienza ai regolamenti e alle guardie carcerarie, tanto che ebbe l’opportunità di scrivere quasi un libro di memorie, pur essendo poco acculturato; ma significative sono le frasi che concludono la sua rozza ma genuina fatica letteraria: “Io non ho mai potuto comprendere come sia composto il consorzio sociale. So che il disonesto nessuno lo può vedere, ma la legge non lo colpisce, e poi chiama scellerato colui che lo assassina, e non si vuole affatto comprendere come non tutti gli uomini siano degni di vivere” Questa prosa, secca e decisa, non consente interpretazioni criminologiche: essa è la considerazione distaccata e cruda di chi si è visto trasmettere, nel proprio DNA, la violenta sofferenza di secolari tirannidi.
Solo per la cronaca: questa campagna di guerra si concluse con la morte di oltre 7000 briganti, mentre non si conosce il numero esatto dei bersaglieri deceduti: si dice che ammontassero, anzi, superassero il numero dei caduti nel corso delle guerre d’Indipendenza contro l’Austria.
Ancora oggi, aspettiamo una soluzione politica alla “Questione Meridionale“.
Giuseppe Chiaia (13 Giugno 2004)
Fine Letterato, Docente e Dirigente scolastico, ha incantato generazioni di discenti col suo vasto Sapere. Ci ha lasciato (solo fisicamente) il 25 settembre 2019 all’età di 86 anni. Resta, nella mente di chi lo ha conosciuto e di chi lo “leggerà”, il sapore della Cultura come via maestra nei marosi della Vita